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Alessandro Portelli “Badlands”

Testo destinato a diventare un classico

Il volume di Alessandro Portelli “Bandlands”, edito da Donzelli, non è stato pubblicato di recente. Si tratta però di un classico, o meglio, di un testo destinato a diventare un classico, stando alla definizione di Calvino: un libro che non ha mai finito di dirci qualcosa. Il saggio in questione, infatti, si può considerare una pietra miliare di un modo di fare critica musicale che trascende i confini del genere. Vuoi per la formazione di Portelli, autorità nell’ambito degli studi legati alla storia orale, vuoi per la forma scelta, e cioè il saggio accademico, libro dotato di un attento e ricercato apparato di note, sta di fatto che il volume in questione affronta il tema da una prospettiva molto particolare. Detto in sintesi, la cultura popolare è alta cultura e, allo stesso tempo, racconta la società nella quale si vive. Certo, dalla rivoluzione della Pop Art in poi la cosa dovrebbe essere assodata, ma così non è. Soprattutto nel mondo accademico italiano, ma non solo. Il Nobel a Dylan non ha fatto la differenza, e così c’è ancora che si trastulla sul noto adagio che si tratta solo di canzonette. Portelli dimostra che non è così.

La sua analisi dei testi di Bruce Springsteen non risente dell’elitarismo tipico della critica musicale saccente. In altre parole, non si dilunga nella ricerca della versione unica e introvabile di un brano; sul bootleg raro che solo il critico possiede in casa; sulle registrazioni pirata e casalinghe che solo pochi adepti hanno recuperato nel deep web o nel dark reign. Portelli analizza e passa in rassegna gli album editi, e fra questi tratta delle canzoni più note e conosciute di Springsteen. Il tutto usando il crivello della ricerca di contenuti che l’autore statunitense ha messo dentro le sue canzoni.

Gran parte del lavoro si concentra sulla working class. Oggi si chiama così, e l’omonima collana di libri curati da Wu Ming 1, edita da Alegre edizioni, aiuta a capire e comprendere il tutto. In ogni caso, dato che in Italia abbiamo una sotterranea e minoritaria letteratura dedicata a questo tema, possiamo dire la cosa in modo genuino. In sostanza, Portelli fa emergere l’analisi e i racconti che Springsteen fa della classe dei lavoratori.

Un’America lontana dal sogno colorato, ricco di lustrini, che siamo soliti vedere. Un mondo fatto di fatica e sudore, che vede al centro un’umanità che ha smesso di crescere e salire la scala per il paradiso. In sintesi, un’America che ha cessato di trarre carburante dall’American Dream, quella filosofia di vita cioè che vedeva nel presente un gradino per lanciarsi in un futuro sempre e solo migliore dell’attuale situazione che si sta vivendo. Inutile dire che Springsteen, da questo punto di vista, è un ottimo barometro della pressione che si vive nel territorio degli Stati Uniti. La sua musica, e i suoi testi (soprattutto), sono capaci di narrare e mostrare un’America che non vive disillusa, perché manco ha più la forza di potersi illudere. Una cosa che forse noi europei fatichiamo a capire e comprendere. Vediamo Springsteen con gli occhi dello storytelling del maschio bianco che è nato negli USA, e ne rivendica una dignità che genera sudditanza da parte di tutti gli altri. Non è così.

Springsteen, per Portelli, è il cantore di un’America che poco conosciamo. Si trova dietro, in terza fila, e non è visibile dai media, soprattutto quelli grandi che, oggi, dominano il mondo dell’informazione. L’immaginario che producono è quello che vorrebbe un mondo, quello degli Stati Uniti, capace di essere pistole, sigari e cappello da cowboy, come nella rappresentazione dei Simpson. Certo, l’America di prima fila, quella che ci piace pensare che sia l’America, sembra essere quella. Un poco come gli uramaki al Philadelphia dei ristoranti giapponesi nel nostro Paese. Nella realtà, gli Stati Uniti sono un mondo complesso, ricco e molteplice, differente in tutto da noi europei, anche nel modo di raccontare se stessi. Ed ecco che Springsteen, sottolinea in modo eccellente Portelli, ha fatto del rock, figlio del blues, la musica capace di raccontare quello che, prima di lui, aveva narrato, ma con il Folk, Dylan. In questo il legame fra i due, pur se non esplicitato nel testo in questione, è forte perché entrambi sono stati degli apripista. In sostanza, se oggi i Pearl Jam, e con loro tutta una filiera di gruppi e artisti, cantano la rivolta, nessuno, se non in altri generi, canta e ha cantato il mondo della classe sociale dei lavoratori, quel gruppo tradito e che si vede consumare giorno per giorno dignità, sogni, speranze e ambizioni.

Non c’è un vero paragone possibile con il nostro Paese. Nessuno, da noi, ha usato il Rock per fare questo. I cantautori, ispirandosi a Dylan, in parte hanno denunciato situazioni di povertà, ma il nostro mondo era e resta legato alla civiltà contadina, e al fatto che questa, come ebbe a dire Pasolini, subiva, e ha subito, una profonda mutazione antropologica. In America, invece, la classe dei lavoratori, operai e operaie che nel lavoro trovavano un’etica del riscatto, è ben presente non solo in senso fisico, ma anche da un punto di vista culturale e antropologico. Springsteen, dunque, è il cantore di questo mondo, colui che, più di altri, usando un linguaggio semplice, e per questo non amato dagli intellettuali e da molti critici, ha messo in evidenza contraddizioni e aspetti poco noti di un mondo che l’attuale America ha ormai ha divorato.

Le pagine più belle, da questo punto di vista, sono quelle dedicate al grande capolavoro “Born In The USA”, come anche quelle riservate a “The Ghost Of Tom Joad”, e al meraviglioso – e spesso sottovalutato – “Devil & Dust”. Nell’ultima parte del volume, poi, c’è anche spazio per una ricognizione di altri temi che il Nostro ha messo nelle sue canzoni, e ha raccontato nelle sue storie. Tuttavia, il fulcro del volume è tutto nella capacità di Springsteen di essere stato voce, per molti anni, di un’America nata per correre, ma non per superare gli altri, per schiacciare e opprimere con un modo di fare figlio dell’imperialismo descritto dagli ultimi lavori del filosofo Toni Negri. La musica di Springsteen, semmai, canta e ha cantato chi è nato in America ed è stato, per primo, tradito dalla sua stessa cultura, mentre correva in nome del suo Paese.

Forse, ma credo che sia il vero messaggio nascosto di questo libro – richiamandomi alla teoria dell’iceberg di Hemingway -, nessuno in Europa può capire cosa possa voler dire l’essere tradito da un Paese. Noi siamo stufi di stati, bandiere, identità e appartenenze, buone solo per tifare e vestirsi a festa quando ci sono diritti che qualcuno, giustamente, chiede di rivendicare. In America, invece, bandiere e stati sono ancora importanti, e l’appartenenza è un sentimento ben diverso, che muove pace e sangue. Inoltre, il lavoro, in Europa è ormai un modo per ottenere risorse per spassarsela; in America, il lavoro è stato, per molti anni, la possibilità di evolvere nella società, e acquisire prestigio sociale. Ed ecco perché, per capire a fondo il testo di Portelli, c’è una canzone che ben rende chiara la sua analisi. Si tratta di “Born In The USA”, ma nella versione acustica, quella che di fatto era il demo di quel brano.

Detto questo, si tratta di una lettura densa, intensa, ricca e arricchente. Un volume da avere in casa, e da leggere per cominciare a ripensare e riascoltare un gigante della musica contemporanea: Bruce Springsteen.

Articolo di Luca Cremonesi

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