Già autori di un volume, uscito anni fa, dedicato al capolavoro di Fabrizio De André e Mauro Pagani, e cioè “Crêuza de mä”, Alfonso Amodio e Ferdinando Molteni tornano a scriverne nel nuovo saggio intitolato “Facce di marinai”, uscito per Arcana il 10 novembre 2023. Un testo che somma all’apparato critico, leggero senza essere superficiale, un’intervista inedita dello stesso Faber, rilasciata all’epoca del tour promozionale dell’album, e cioè l’11 agosto del 1984. La location era il campo sportivo di Pietra Ligure, e l’occasione era stata creata da una delle tante radio locali che, un tempo, non solo erano davvero libere, ma potevano gestirsi il palinsesto senza obblighi e impegni vari.
Il risultato è una cassetta – tecnologia, ha dell’incredibile, che sta tornando di moda – che è stata conservata negli archivi dell’emittente, e che, ad oggi, è di fatto inedita. Il contenuto fu tagliato, come era uso e costume dell’epoca, e utilizzato per una trasmissione. L’integrale dell’intervista non fu mai trasmesso. Così i due autori, recuperata la cassetta, ne danno sbobinatura integrale in questo libro, dopo averla donata, come è giusto che sia, alla Fondazione De André.
Tuttavia, le parole di Faber, senza nulla togliere al grande cantautore, non aggiungono molto all’ottimo lavoro di analisi portato avanti dai due autori. Il capitolo più interessante è il secondo, quello cioè dedicato a Mauro Pagani, testimone ancora vivente (e che andrebbe intervistato bene, e seriamente, sul lavoro fatto, dato che ormai è assodato e chiaro molti che quell’album è nato a quattro mani) di quell’avventura. I due autori vanno a pescare nel vecchio volume, mixando il tutto con le parole della monografia scritta, in tempi recenti, da Pagani (la nostra recensione): il legame con la sua musica, l’opera di studio fatta sui suoni e sugli strumenti, le prove negli album solisti, il tutto unito alla necessità di trovare suoni che non fossero più figlio degli Stati Uniti, ma del Mediterraneo. Questa è, e resta, la vera grande rivoluzione fatta da Pagani in primis e, poi, a ruota, dallo stesso De André che, nell’intervista, non solo dichiara di non voler realizzare più album (e seguiranno due capolavori come “Le nuvole” e “Anime salve”), ma, nel caso vi mettesse mano, di farlo guardando al grande mare nostrum. In parte cosa fatta, come è noto.
Così questo volume, che va letto ascoltando il capolavoro originale, il live dell’epoca, la riedizione di Pagani e, soprattutto, il ricco campionario di materiale che ha generato – fra i tanti citati, consiglio la versione di Teresa de Sio – diventa un saggio che tende ad altro, e cioè una prima tappa di una storia della musica mediterranea.
I due autori del libro non stanno navigando a vista, e neppure nell’alto mare aperto, ma c’è da dire che, ad oggi, un lavoro certosino di questo tipo non è ancora stato fatto. D’altronde, e lo dico per esperienza, anche la storia del Mediterraneo come luogo fisico e geografico, non è ancora stata scritta, se non in poche occasioni (consiglio la lettura di Abulafia, di Albanse, e di Vanioli e Fenelio, per cominciare), quindi quella della musica è ancora lontana da venire. Anche perché, ad oggi, come d’altronde negli anni ’80, il decennio della new wave, del rock plastico, e dell’elettronica, i lavori che, per convezione, vanno sotto l’etichetta World Music, non erano di certo maggioritari. Certo, ed è ciò che stupisce De André nell’intervista che chiude il volume, un pubblico, e numeroso, per quel lavoro discografico comunque lo si è trovato. Tuttavia, molto di questo pubblico – in parte lo lasciano capire anche gli autori del volume – era comunque affezionato a De André. Senza dubbio il cantautore genovese è riuscito a far passare questa proposta, che ha generato figli e fatto proseliti. Ma, se guardiamo con onestà ai lavori anticipatori di Pagani, non erano di certo opere che hanno tracciato solchi.
L’alchimia è ciò che ha fatto la differenza, e in questo il volume è davvero onesto rendendo a Cesare quello che è di Cesare. Anche la parte più macchinosa del testo, e cioè quella dedicata alle testimonianze, che si dilunga un po’ troppo, con personaggi che, certe volte, hanno qualcosa da dire, e in molti casi, non hanno nulla da aggiungere (si veda la strana intervista a Patrizio Fariselli degli Area), rende giustizia ad un lavoro di perfetta fusione di due musicisti che hanno saputo arricchirsi a vicenda.
Posso testimoniare, dato che ho avuto un privilegio, e cioè un concerto di Pagani solo, con l’esecuzione integrale di “Crêuza de mä”, a Volta Mantovana (Mn) nel 2006, nei giardini rinascimentali di palazzo Gonzaga, e, allo stesso tempo, a Brescia, anni dopo, dove ho assistito ad un concerto di Pagani con la sua band, dove l’album è stato eseguito integralmente, con l’aggiunta di altri suoi successi, che questo disco ha mutato anche lo stesso Pagani. Quando interpreta questo repertorio si cala in un mondo dove si sente a casa, si muove a memoria, sicuro e profondamente fuso con questi suoni. Per questo motivo che l’edizione di “Crêuza de mä” del 2004 è di fatto speculare a quella di vent’anni prima. Consiglio di recuperare il volume, uscito alcuni anni fa, che raccoglie i due cd, con un apparato critico e fotografico eccezionale.
L’alchimia, si diceva, è l’arte di trasformare una materia in un’altra. Ed ecco che il Prog di Pagani si è fuso con il cantautorato di matrice statunitense di De André, per diventare altro, grazie proprio ad una materia e un luogo magico: il Mediterraneo. Tuttavia, per chiudere, l’acqua, e cioè il mare, come i fiumi, non sono la terra. Per descriverli, e per capire la loro storia, civiltà e musica, serve guardare dal mare, e dai fiumi, e non dalla terra. Pagani e De André lo sapevano, ed erano partiti in barca, prima di scrivere questo album. Il volume, se proprio si vuol trovarvi un difetto, è figlio di uno sguardo di chi ha studiato la materia stando, però, a terra. Scava nei rimandi, ricostruisce vita e miracoli, genesi e ricezione, vicende e aneddoti. Tutto molto interessante, soprattutto per i cultori di questo capolavoro. Ma non è certo quello che voleva De André che, nell’intervista, non è affatto interessato a tutta questa vicenda…
Manca giusto il sapore del mare, quel quid che fa la differenza. Sarebbe molto più interessante capire e comprendere il suono musicale dei pescivendoli che aprono, ad esempio, “Jamin-a”. Pura melodia, di cui nessuno parla… eppure i due musicisti hanno inserito queste espressioni all’inizio del lavoro. Perché? Cosa c’è dentro a quel suono? Cosa ha generato? Da dove arriva? Tutto questo manca, a favore di dati, preoccupazioni di discografici e reazioni di musicisti, colleghi cantautori e voci di interpreti.
Non è colpa di nessuno, è una storia, si diceva, ancora tutta da scrivere. Il volume resta comunque una buona lettura, che si aggiunge ai molti studi su questo capolavoro della musica italiana che ha saputo trascendere i confini della nostra produzione. Tanto che la nota introduttiva, non a caso, è di Peter Gabriel. Estimatore del lavoro di De André e Pagani.
Articolo di Luca Cremonesi