Non sarà una recensione lunga. Il motivo è presto detto. Il volume in questione, pubblicato da Baldini + Castoldi, è troppo breve. Ed è il grande difetto di questa bella autobiografia di Angelo Branduardi, uno dei musicisti a tutto tondo più importanti del nostro Paese, e uno di quelli che più di tutti ci invidia il Mondo intero.
A Mantova, al Festivaletteratura, dove Branduardi ha presentato il volume, è stato spiegato il motivo della brevità del testo in questione. Si tratta di una sbobinatura, rivista di poco, se non quel tanto che serve, di circa 20 ore di un’intervista al cantautore. Da quel materiale, sistemato in forma di libro, nasce questa autobiografia. Il pregio di essere un libro breve fa da contro altare al fatto di essere una storia poco approfondita, e di avere la forza dei dialogo. Si viaggia veloci fra queste pagine, ed è un peccato perché ci sono storie, situazioni e riflessioni che, invece, richiederebbero maggior profondità. Il problema è tutto qui. Si tratta di un volume che non è stato lavorato, dove la ricchezza degli spunti di una vita straordinaria e lontana, da sempre, dai riflettori, non vengono scandagliati in profondità.
Certo, si apprendono molti fatti che, di riffa o di raffa, si sapevano sulla vita del Nostro. Branduardi da piccolo è a Genova, poi arriva a Milano. Impara giovanissimo a suonare il violino, e poi giunge agli altri strumenti, dalla chitarra al pianoforte. Il successo non è immediato, ma neppure si fa troppo attendere. Le collaborazioni sono tante, come quella, fra le ultime, con Ennio Morricone, ma anche con molti colleghi, per i quali ha fatto il turnista in studio. La sua musica travalica le Alpi quasi al suo debutto. In Francia lo adorano, in Germania pure. La sua musica spazia dal Medioevo e dal Rinascimento fino all’elettronica e alla sperimentazione. La sua conoscenza della musica è reale, non posticcia e neppure da saccente. I suoi progetti sono molteplici, come d’altronde la sua produzione discografica e musicale (su tutti basti pensare agli otto volumi di Futuro Antico, splendidi).
Insomma, tanti fatti, troppi però per solo 170 pagine. Tutti questi passaggi andrebbero aperti, fatti brillare e sviscerati. Il suono dello Stradivari ad esempio, che Branduardi boccia, categoricamente, è uno di questi episodi. Messo lì, spiegato con questa velocità, non rende giustizia a nessuno. Peccato. Come d’altronde il suo legame con il violino.
Il rapporto d’amore e all’inizio d’odio, con quello che sarebbe diventato i suo strumento par excellence, meriterebbe d’essere maggiormente indagato, spiegato, narrato e compreso a fondo. Allo stesso tempo la spiegazione – bellissima, e spesso proposta nei live – di che cosa sia la musica popolare. Riflessione che Branduardi applica anche alle canzoni dei cantautori. Ecco, questo è un tema che non andrebbe risolto in poche righe, alla fine del testo. Sono pensieri che meriterebbero ampie praterie. Perché qui sta la differenza, come afferma lo stesso Branduardi, fra l’inutilità, come dice Guccini, della musica contemporanea rispetto a quella precedente.
Gli incontri poi, dato che non sono affatto banali, sarebbero tutti da conoscere nel dettaglio. Mai saputo che Branduardi avesse un rapporto di lavoro con Carmelo Bene. Sarebbe bello saperne di più, e invece… L’amicizia con Faletti è più dettagliata, ma poco si dice del perché Branduardi ami così tanto la sua musica. Solo l’importanza della relazione, e non solo amorosa (quella è del tutto blindata), con la moglie, musa e complice, è, qua e là, spiegata con attenzione. Insomma, un’occasione persa per noi lettori di entrare davvero in una delle pochissime botteghe musicali che restano nel nostro Paese.
Le pagine finali, poi, toccano il tema delicato della depressione, il sole nero che ha scavato nell’animo di Branduardi. Veniamo a sapere che il Nostro ci ha lavorato, anche da solo, e ne è uscito vincitore, con nuova voglia di fare. Anche questa fase della sua vita sarebbe degna di maggior approfondimento. Potrebbe servire a molti, essere utile a chi ne invischiato… Certo, che Branduardi sia un autore anomalo e molto riservato è sempre stata cosa nota. Tuttavia, nel momento in cui si accetta questo gioco, galateo impone che se ne rispettino le regole. Non vale far assaporare e poi portar via di colpo il ricco piatto. Peccato, davvero.
Non resta che accontentarsi di quello che c’è. Si sa, chi si accontenta gode, ma fa comunque arrabbiare. Poi, a carte ferme, ci si pensa. Forse la soluzione ce l’ha detta lo stesso Branduardi. Io sto bene davanti al mio pubblico – riassumo vari passaggi per comodità – e tutto quello che ho da dire è nelle mie canzoni e nella mia musica. A questo punto non serve altro. Però resta il fatto che ci poteva spiegare molte cose, fra le quali il lavoro di studio e di composizione, curiosità di molti, soprattutto quando si parla di un artista completo come è Branduardi.
Articolo di Luca Cremonesi
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