Nuova monumentale biografia dedicata agli dei del Rock uscita per Rizzoli nel mese di maggio 2022. A scriverla una vera autorità, e cioè quel Bob Spitz autore della biografia di riferimento dedicata ai Beatles. Un malloppone, questo volume sui Led Zeppelin, impegnativo perché si tratta di 600 pagine (alle quali se ne aggiungono altre 100 di bibliografia e fonti) di grande formato. L’attesa c’era perché, appunto, l’autore ha già dato ampia prova di essere autorevole, dettagliato e a conoscenza di aneddoti e retroscena. In passato Spitz ha fatto parte di quel mondo, e cioè quello della musica che conta, perché è stato manager di Springsteen e di Elton John. Ergo, ha conoscenza della materia e, soprattutto, vanta contatti che i più non possono avere. Il giudizio, dopo una lettura davvero avvolgente – non potrete che leggere queste pagine, vi assorbiranno tempo e spazio mentale – è, in termini numerici, un bell’otto. Nelle griglie di valutazione scolastica vuol dire che la materia è conosciuta e che c’è anche una rielaborazione, senza eccedere, che rende propria la disciplina di cui si tratta. Pregi e difetti, dunque, si bilanciano. Vediamone alcuni.
Per quanto riguarda i pregi c’è sicuramente la scansione temporale, anno per anno, della grande parabola artistica, e non solo, della band. Di fatto Spitz sembra seguire, modello diario, in presa diretta, le vicenda del gruppo. Il suo sguardo sembra essere una telecamera nascosta nelle retrovie e nei retroscena di quella che è stata una delle storie rock più analizzate e indagate del genere. A questo si aggiunge un’accurata e maniacale attenzione alle fonti. Se un saggio vuole essere tale, allora va fatto in questo modo. I ricordi dei libelli anni ’90 sono ben chiari nella mente di noi lettori. All’epoca si mettevano insieme dicerie, voci, rumors, sentito dire e così via, e la biografia era fatta. Oggi, in epoca di blog, gruppi di appassionati, collezionisti, collezionisti completisti, social e accesso diretto alle fonti, è dura far finta di nulla e scrivere solo per sentito dire. Oltre al fatto che, nello specifico, sui Led Zeppelin si è scritto di tutto e di più. Spitz, grazie al lavoro certosino di recupero delle fonti, dimostra che ci sono ancora margini per indagare questa storia.
Altro elemento importante del volume in questione è l’apparato fotografico. Certo, si poteva fare di meglio, ma è anche vero che di volumi cartonati con le foto degli dei sono pieni gli scaffali e così questa selezione è ben fatta e predilige i primi anni di carriera. Cosa buona.
Il taglio, poi, non viene nascosto, e anche questo è un bene. Il politicamente corretto sta rendendo sterile tutto quello che si legge e, invece, dato che ogni biografia, come ebbe a dire Carmelo Bene, è sempre immaginaria, serve prendere una posizione, occupare un punto di vista, dichiararlo e proporre, alla luce di questo, con onestà, il proprio lavoro. Qui, e cioè in queste pagine, Spitz è chiaramente un partigiano – ben armato – di Jimmy Page; allo stesso tempo è un detrattore dell’uomo John Bonham (non del musicista); poi è neutro rispetto a quell’uomo e musicista straordinario che è John Paul Jones e, infine, non nutre grandi simpatie per Robert Plant. Morale della favola: questa storia è focalizzata tutta sulla parabola di Jimmy Page e poi, a rimorchio, sull’apporto degli altri tre alla vicenda narrata. Sul finale, però, Spitz si ravvede e ammette che la magia era a quattro, ma per tutto il libro non ha indagato in nessun modo questa alchimia. Poco male, resta spazio per altre biografie a venire.
Sempre sul lato del foglio delle cose positive c’è il racconto della casa di produzione fondata dagli Zeppelin, e del loro rapporto con le band amiche e prodotte. Pagine interessanti, davvero, e ricche di stimoli per chi ama completare discografie.
Stessa questione per i primi capitoli. Un’analisi dettagliata degli albori, delle collaborazioni – soprattutto di Page ovviamente – con il mondo della musica che diventerà la storia del Rock britannico che tutti conosciamo, da Eric Clapton a Jeff Beck, arrivando ai Rolling Stones e ai Bad Company. Bello, davvero, perché è uno spaccato interessante dove si capisce come quella Londra era davvero genuina e ruspante e dove, in piccoli pub e bar, o club, potevi imbatterti in concerti che oggi fanno sognare i fan duri e puri. Quelle pagine, di fatto una bella parte corposa (150 almeno), sono davvero molto interessanti anche perché indagano bene i rapporti e le relazioni fra i quattro dei e, allo stesso tempo, le loro influenze musicali. Da una parte, dunque, Page e Jones, turnisti già affermati quando la magia si concretizza del 1969, e dall’altra Plant e Bonham amici uniti da tempo e di altra astrazione musicale, più selvaggia e libera di quella degli altri due compagni d’avventura. Qui – ma ne parleremo nella sezione difetti – si poteva andare ancora più a fondo, soprattutto nella fase di ascesa e, non da meno, nella fase di caduta degli dei.
Altra nota molto positiva è quella di aver mostrato come una band formata da inglesi sia stata capace di conquistare gli Stati Uniti con il loro sound, e non viceversa. Se guardiamo a come è andata poi la storia del Rock vediamo che, non solo non si è più verificato un fenomeno di tale portata, ma anche che la direzione è sempre stata dalle Ex Colonie verso la Madrepatria.
A tutto questo, però, fa da contro altare una serie di difetti, o meglio, una serie di elementi che lasciano un poco con l’amaro in bocca alla luce delle garanzie che offre – o dovrebbe offrire – un lavoro di Bob Spitz. Vediamone alcuni.
Il libro si concentra su infiniti gossip e sulla vita dissoluta della band e del suo entourage. Bene, molto bene. Tuttavia, a 42 anni dall’ultimo show a Berlino che ha visto sul palco i quattro dei uniti, davvero si pensa che i fan vogliano leggere solo i dettagli e gli aspetti della loro vita dissoluta? Sesso e droga non mancano in queste pagine, anzi. Abbondano. Manca però il Rock’n’Roll! Su 600 pagine, se si fa la tara con attenzione, 300 sono dedicate solo a questi aspetti. Mi chiedo: il pubblico ormai maturo dei fan e, allo stesso tempo, le nuove generazioni che quegli anni non li hanno vissuti e poco ne sanno se non per i racconti di genitori, film e media, sono davvero interessati a sapere se Page defecava, o meno, in testa alle sue donne; se nelle vagine delle groupie sono davvero entrati pesci; di donne legate nei bagni; di 14enni date in pasto ai musicisti da madri dissolute; di sesso orale diffuso; di camere segrete e di riti magici? Allo stesso tempo, sono davvero interessati i fan a conoscere pesi e misure di cocaina, erba ed eroina? Di quanta vodka veniva consumata? E così via… Non so, personalmente direi di no, ma se uno come Spitz ha scritto 300 delle 600 pagine su questo tema, mi vien da dire che i fans dei Led Zeppelin siano interessati ancora a queste vicende.
Sinceramente mi sarei aspettato un lavoro minuzioso – e in parte c’è, non lo nego, ma non è predominante – su come nascevano le canzoni; su come i quattro lavoravano e su come venivano scelti determinati arrangiamenti e mood musicali. Non basta, per un lavoro di tale respiro, licenziare la faccenda con un ci pensava Page. Troppo facile. O almeno, Page era e resta un genio, ma non era l’unico fra i quattro… alla luce delle carriere post Led Zeppelin. Eh!
Appunto, il post. La magia finisce nel 1980, storia nota. Di fatto, e queste pagine sono chiare, nel 1977. Ecco, questi tre anni ora, dopo 42 anni, andrebbero ben indagati e chiariti. Come mai, dal 1977 al 1980, non c’era più quell’amalgama così forte fra i quattro? Page e Plant quanto erano di fatto legati? Cosa è successo alla loro magia? E con l’ultimo album in studio dove si voleva andare? Cosa si stava indagando? Allo stesso tempo, dato che si accenna a idee di un nuovo album (sostituito da “Coda” per ovvi motivi), quali erano le direzioni che si volevano prendere? E, soprattutto, cosa è successo dal 1980 al 2007? Come mai solo quattro reunion, delle quali solo due pubbliche, e l’unica degna di nota è quella del 2007? Perché non c’è stato verso di far rivivere la magia? Questa è una parte della storia che tutti vorremmo fosse indagata e sviscerata. Un po’, per fare la tara, come per gli ultimi anni di Battisti in Italia, dei quali non si sa nulla.
Certo, serve coraggio e metodo – direbbe Polonio – ma questo, credo, serva fare e proporre ai fan dopo 42 anni e, soprattutto, forti del fatto che i protagonisti sono ormai affermati, tranquilli e sereni. Oltre che vivi! O forse no e, dunque, tutto questo non si può ancora raccontare? Ancora più interessante dunque… Ma tutto questo manca! Però sappiamo quasi tutto, con tanto di testimonianze, di sesso, droga e alcool. Mah…
Il far pendere la bilancia dal lato di Page fa da contraltare con la descrizione di un Bonham quale anima nera, dissoluta e anello debole del quartetto. Da un lato alcolizzato cronico, devastatore di hotel, rissaiolo e dissoluto e, dall’altro, uomo fragile che è in tour con donne, droghe, alcool a fiumi e denaro ovunque (e non è una battuta), ma gli manca casa, famiglia e figli. Beh, una delle due eh! La domanda, banale, vien da sé: se questo era il problema perché non portarsi la famiglia in tour? Fuori dalla battuta, questi aspetti – dato che sono determinanti per il punto di vista di Spitz – andavano indagati bene e a fondo. Altrimenti, detta come battuta, fossi in Jason (figlio ed eccellente batterista), mi rivolgerei a un bel team di avvocati…
Ultimo (ma ci potrebbe stare ancora qualcosa) il Plant che ne esce alla fine delle 600 pagine è un uomo debole e, soprattutto, un artista di spessore inferiore al dio Page. Insomma, vorrei ricordare che dopo la parentesi Led Zeppelin, durata 10 anni, Plant ha alle spalle 42 anni di ottima ed eccellente carriera musicale. In questi decenni non ha voluto rimettere in moto la macchina Led Zeppelin – e devo dire che Spitz fa capire bene il perché, a voi scoprirlo… – ma non si è ridotto a scrivere poche colonne sonore di film di serie B e ad annunciare tour mai portati a termine, o a realizzare un mescolone ignobile di “Kashmir” con Puff Daddy. Diciamolo… Poi se i fan, che portano avanti un ingiustificato rancore verso la stampa che, per motivi diversi, non amava i loro idoli, si arrabbieranno, poco importa. Questi sono i fatti. Avete ascoltato – e comprato – il cofanetto delle colonne sonore di Page? Ecco, siate onesti: quante volte lo avete ascoltato e lo ascoltate? Mentre la discografia di Plant? Ecco, questo basta a dire che Spitz forse avrebbe dovuto andare a fondo – come ha fatto per Page in apertura, nelle famose 150 pagine – delle scelte e della vita di Plant post 1980. Ne sarebbe uscito un libro da 10 e lode. Perché se i Led Zeppelin nascondo dal parto della mente della divinità Page, allo stesso modo si esauriscono e finiscono con il dolore e, il chissachecosa (scritto così), di Plant. Chiudiamo così.
Nel libro si parla dell’eterna diatriba con i Rolling Stones che, per chi scrive, si può risolvere in questo modo. Nel testo, infatti, c’è un passaggio nel quale Page e Plant (in parte) sono infastiditi dal fatto che i Rolling Stones siano icone riconosciute da tutti mentre loro, e cioè gli Zeppelin, non hanno mai avuto questo appeal. Letta questa biografia, messa poi sul comodino e fatta un’attenta riflessione si capisce che i Rolling Stones sono (ancora adesso) pop-star, dove il termine “pop” non sta per “musica pop”, ma – nell’accezione di Andy Warhol – per “popular”, popolari dunque e cioè alla portata di tutti. I Led Zeppelin sono (stati) rock-star, divinità del Rock insomma. E lì, sia chiaro, non c’è trippa per gatti. Ancora oggi. Ma tutto questo è ben distante dall’essere popular.
Leggete, e vedrete che questo è ciò che vi resta dentro. Pur se con rabbia e con amore, infinita, per i quattro dei del Rock.
Articolo di Luca Cremonesi
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