La tesi che Oderso Rubini e Ferruccio Quercetti sostengono in “Bologna 1980”, edito da Goodfellas, potrebbe sembrare ardua: può un concerto rock essere considerato uno spartiacque epocale? Può addirittura avere la pretesa di assurgere a momento di chiusura di un intero secolo, vent’anni in anticipo?
Il pensiero vola subito ad altri eventi musicali, a ciò che significò Woodstock, all’impatto del Live Aid … certe esperienze, in effetti, andarono oltre il fattore musica, confluendo nel sociale così in fondo da mutarlo. Ecco che l’invito al viaggio allora si fa interessante, e ci si accorge subito di quanto le pagine si sfoglino veloci, una dopo l’altra, occhi e mente già vittime del salto temporale.
Un balzo che ci catapulta a Bologna, ovviamente, da sempre centro nevralgico di proteste, rivolte sociali, tensioni partite dal ‘68 e deflagrate poi in quelli che sono conosciuti come “gli anni di piombo”. Nel corso dei lunghi ‘70 a Bologna succede così tanto che è arduo racchiuderlo in poche righe: nasce il DAMS (primo percorso universitario che affronta in maniera professionale le Discipline dello Spettacolo), inizia l’avventura del Teatro Sperimentale Delle Moline, apre la Galleria D’Arte Moderna, iniziano a trasmettere Radio Alice e Radio Città, radio libere particolari in quanto veri e propri organi d’informazione del movimento extraparlamentare. Le basi, insomma, ci sono tutte: l’ambito sociale, quello culturale e quello politico sono vivi, e intrecciati in maniera indissolubile.
L’onda dirompente del movimento bolognese si arresterà improvvisamente a causa dei tragici fatti dell’11 marzo 1977, che porteranno a una grande rivolta di massa e alla successiva occupazione militare di Bologna. Ma l’energia e la rabbia accumulate in quel periodo non potevano che sfociare nell’avvento del movimento punk italiano, grazie alla formazione delle prime band di genere e alla creazione di locali pioneristici per la musica alternativa (su tutti, il Punkreas).
“Bologna 1980”, contestualizzando tutto in maniera impeccabile, ci guida in un volo d’angelo sulla nascita di etichette discografiche, di nuovi gruppi, di nuovi festival, che scandiscono il tempo a suon di Punk fino a quell’improbabile idea: ospitare nientemeno che i Clash, reduci dal successo mondiale di “London Calling”, a Bologna. Il Comune, guidato allora dalla fazione comunista, punta senza mezzi termini al colpaccio: avere gratis, in piazza, la prima band del “Punk ‘77” ad essersi schierata in maniera palese con le politiche di sinistra.
Come in tutte le storie più belle, l’impossibile si rivela presto possibile, ed è così che i Clash vengono annunciati come ospiti di chiusura del festival “Ritmicittà”, il primo giugno 1980. Con una narrazione sempre chiara e dettagliata, il testo ci fa comprendere quanto l’obiettivo non fosse solo organizzare una grande giornata di musica. La finalità, non espressa, altissima, era ricucire la spaccatura fra sinistra storica, istituzioni locali e movimenti giovanili, tutto in un solo colpo.
I Clash in quel periodo sono all’apice della popolarità, nel pieno di un tour mondiale che sarebbe andato avanti un anno intero. La verità nuda e cruda che traspare dalle loro canzoni, le invettive rabbiose e realistiche che affrontano problemi condivisi da tanti giovani, li rendono speciali, diversi da ogni altra band. Ma “Bologna 1980” ha il pregio di non rifugiarsi nella semplice descrizione dei fatti, perché nel raccontarci gli eventi alterna sempre diversi punti di vista: quello di esponenti politici, di organizzatori dell’evento, di musicisti dell’epoca o di giornalisti come Red Ronnie. In questo modo il giudizio non risulta mai parziale, e il lettore può assaporare davvero i differenti umori che conducono a quella fatidica sera.
Il capitolo centrale non può che tele-trasportarci lì, alle prime luci dell’alba, nella piazza già piena di giovani punk che hanno dormito in tenda sotto i portici. Il concerto, infatti, è un modo per i movimenti punk sparsi in Italia di conoscersi, di prendere contatti. Non mancano, ovviamente, correnti d’opposizione come i Raf Punk, che accusano l’amministrazione di usare la musica per ottenere voti, nonché la band inglese di essersi venduta alle major.
Tra i pro e i contro, comunque, l’orario del concerto si avvicina, ed è tempo delle band-spalla. I primi sono i Cafè Caracas, gruppo in cui militano nientemeno che Ghigo Renzulli alla chitarra e Raf alla voce. Vengono accolti da insulti, sputi e bottigliette, mentre agli inglesi Whirlwind tocca un’accoglienza (forse) anche peggiore: l’indifferenza.
Il momento tanto atteso è ormai prossimo… momento che, però, tarda ad arrivare, tanto che fra il pubblico serpeggia la voce che il concerto possa saltare. Il reale motivo del ritardo è semplice: il batterista Nicky “Topper” Headon si è perso nelle campagne limitrofe. Prima che la situazione possa degenerare, l’organizzazione fa pressione sulla band, che recluta il batterista degli Whirlwind, e alle 22:20 assalta la piazza con “Clash City Rockers”. I fans sono in delirio, tutti iniziano a pogare e a ballare. Seguono “Brand New Cadillac”, “Safe European Home”, “Jimmy Jazz”, “London Calling”, “Guns of Brixton”, “Train in Vain” ma, anche se il sostituto dietro le pelli se la cava egregiamente, qualcosa nell’impatto sonoro latita. Sarebbe stato impossibile non sentire la mancanza di Headon, uno dei più grandi batteristi della sua generazione, nonché ragione principale del livello di qualità live raggiunto dai Clash.
Per fortuna, a salvare il concerto dalla mediocrità di un’esibizione qualsiasi, ci pensa proprio l’arrivo ormai insperato di Topper, sulle ultime battute di “Spanish Bombs”. Il batterista viene annunciato al pubblico di Piazza Maggiore, e la band al completo incendia Bologna per il resto della folta scaletta. E qualcosa deve accadere anche di fronte al palco, perché durante la successiva ora e mezza non esistono più divisioni, non esistono più fazioni o accuse, non esistono mainstream e indipendenti, tutti si gettano nella mischia con uno scopo unico: ballare e urlare fino allo sfinimento, per esorcizzare tutto ciò che di storto c’è nella vita. Il libro converge proprio in questo spazio magico che apre le braccia a tutti, e nel quale ognuno si sente miracolosamente uguale all’altro, libero, se stesso.
L’ultima parte della pubblicazione cerca poi di raccogliere il miracolo di quella serata nelle testimonianze dirette di chi l’ha vissuta: dallo speciale televisivo “Mixer” condotto da Gianni Minà, alle dichiarazioni degli stessi membri dei Clash, passando per le recensioni dei nostri magazine, finendo con le parole dei fan accorsi da tutto lo stivale.
L’emozione che lascia addosso la lettura di “Bologna 1980” è forte, molto più complessa e sfaccettata di quanto ci si aspetti, proprio perché il testo riesce a mantenere la pretenziosa promessa annunciata nel sottotitolo. Pagine che diventano, più di tutto, una lente d’ingrandimento che viviseziona anni cruciali, che chiusero le porte di un’epoca idealista, più ingenua e consapevole allo stesso tempo; un’era lontana quasi mezzo secolo, da cui dovremmo recuperare un’incredibile serie d’insegnamenti preziosi.
Articolo di Simone Ignagni