Brian Johnson ha due grandi meriti. Il primo è noto. Ha saputo sostituire, e in modo eccelso, Bon Scott, voce degli albori degli AC/DC. Il secondo, dovrebbe essere noto. Se gli eroi son tutti giovani e belli, come recita la famosa canzone, allo stesso modo le rockstar sono immortali, eterne e indistruttibili. Brian Johnson, invece, fra il 2015 e il 2016, ci ha fatto capire che gli eroi del rock non sono tutti giovani e belli; e che le rockstar, come noi comuni mortali, si ammalano. Lo shock è stato disturbante. Vedere, nel giro di pochi giorni, su quel palco, al suo posto, Axl Rose dei Guns N’ Roses, ha generato un turbinio infinito di riflessioni.
Allora tutti siamo sostituibili? Sì, se si tratta di business. Allora un gruppo ormai è un’esperienza? Sì, di certo non c’è più quella purezza che, tolto in studio, c’è stata in poche occasioni. The show must go on? Sempre e comunque, finché questo modello di show sarà quello dominante. Al netto di tutto quello che possiamo dire però, va ricordato che Johnson era già una seconda voce. Quindi, perché disperare quando Axl è salito su quel palco? Io c’ero ad uno di quei concerti. Vienna per la precisione. Al netto di ciò che ho visto e sentito in quell’occasione, una cosa tormentava la mia anima al termine del concerto: Brian c’era ancora. Non era morto. Lo si poteva aspettare. Tuttavia, pensateci bene. Il Covid era molto lontano, e nessuno poteva pensare che ci si sarebbe mai fermati. E invece…
Certo ad averlo saputo … Forse, allora, non era tanto Brian che voleva fermarsi, quanto la macchina degli AC/DC che, con quel tour, perdeva pezzi di giorno in giorno. Fermarsi voleva dire chiudere bottega, e questo nessuno, me compreso, lo voleva. E così si è accettato di tutto, persino Axl che cantava “For Those about to Rock” …
Le pagine iniziali di questa ponderosa, e ricchissima, autobiografia di Brian Johnson sono preziose. Il volume – bellissima edizione quella italiana, pubblicata da Rizzoli, curata graficamente con grande stile – si apre con il dolore per la perdita dell’udito. Veniamo a sapere dettagli che, qua e là, erano trapelati in modo scomposto. Qui la versione di Brian mette ordine, e per certi versi minimizza quello che, all’epoca, sembrava irreversibile. Poi, nel finale, si parla del ritorno. “Power Up”, e la band che si ritrova in studio, a Vancouver. Il risultato è l’ultimo album degli AC/DC, inondato di critiche. Di diverso dagli altri cos’ha? A ben vedere nulla, se non la mancanza, alla seconda chitarra, di Malcom Young. Per gli esperti, è un vuoto incolmabile. Vero, sottoscrivo. Per il risultato finale dell’album, non credo. L’impressione è che ci sia tanto lavoro di recupero. Ma quello che conta non è chi manca, ma chi c’è. E cioè Brian alla voce. Pare poco?
Se si legge con attenzione, e queste pagine la meritano tutta, il volume uscito in Italia il 18 ottobre 2022, si capisce perché non è poca cosa questo ritorno in squadra. La storia di Brian è raccontata con grande onestà, e ruvidezza, anche di linguaggio. A dire il vero, io Johnson me lo figuro proprio così, come appare in questo testo. Non so se è così che lo dipingono, o se davvero lui sia un personaggio ruvido, come la cartavetra a grana grossa. Non lo so. Ma è chiaro che qui, in queste pagine, emerge il ritratto di un uomo colto, nient’affatto sopra le righe, se non il giusto per una rockstar, amante e dedito al lavoro, dal primo in fabbrica a quello di cantante, e, allo stesso tempo, di un artista che ha bisogno di salire sul palco e, scrive, tirare fuori tutta quella rabbia che mi permette per due ore, senza soste e senza ballate, di essere la voce degli AC/DC.
L’infanzia vissuta fra delusioni e povertà; una madre italiana che lo tiene, più che può, legato al Bel Paese; un’adolescenza fatta di sogni in una città (Newcastle) che fa di tutto per reprimerli. O quanto meno per renderli meno luminosi. La scoperta della musica, e poi tanta, tanta, ma tanta davvero, gavetta. Da fans gira locali, ascolta i grandi, si confronta con loro. Poi la storia commovente, se si pensa all’oggi, e a come si muovono e vivono in tour gli AC/DC, dell’acquisto del primo posticcio impianto di amplificazione della voce. C’è poi la mamma che interviene con abiti carnevaleschi; il primo matrimonio, giovanissimo; e le due figlie. La fabbrica, il paracadutismo, e infine, la piccola attività di sostituzione di lunotti e tettucci. Un cantante operaio. Ed ecco perché quando, nei video degli anni ’80, soprattutto quelli dell’epoca di “Flick of the Switch”, quando Brian sembra di fatto un operaio, è comunque molto credibile.
La sua, infatti, è una storia a colori poco intensi. Avete in casa fotografie degli anni ’70? Prendetene alcune in mano, e guardate l’effetto che fanno! Oggi siamo abituati all’HD, al technicolor, e alla qualità digitale. A quell’epoca no, e anche i sogni erano a colori sbiaditi, ma non meno intensi. Quando Johnson racconta il suo apprendistato, sembra davvero di essere dentro foto e filmati di un mondo che non esiste più. Furgoni scassati, autobus, lattine di birra, dopo lavoro ferroviario, circoli e gruppi che suonavano senza impianti, oppure con attrezzature vecchie caricate sui bus. Altro che talent e cacciatori di teste. Nella storia di Johnson tutto ha il sapore del mercatino dell’antiquariato, e Johnson non fa nulla per nasconderlo. Un altro pregio è che qui Johnson non racconta miti, non esagera e non cerca in ogni modo la santa triade del sesso, droga e Rock’n’Roll. La sua è la storia di un ragazzo che, all’estrema periferia dell’Impero, si muove come può per raggiungere il suo sogno. Eccessi non ce ne sono, se non qualche birra di troppo e un matrimonio che va alle ortiche. Fin troppa formalità se si pensa agli eccessi che dominano la recente biografia degli Zeppelin scritta da Bob Spitz (la nostra recensione).
Tutta la storia di Johnson dunque, per 400 pagine, si svolge nella fase che precede la sua entrata nell’Olimpo del rock. La sua, dunque, è la storia di un buon cantante di provincia. Nulla di più, ma è davvero ben fatta e ben raccontata. Gli AC/DC occupano la parte finale del libro e, per di più, ci si ferma agli albori, al via del primo tour, quello cioè di Back in Black.
Non è affatto il libro che ti aspetti e questo lo rende ancora più speciale, davvero. Anche la musica che il nostro ascolta, tolti tre grandi classici, e cioè Bob Dylan, Beatles e Rolling Stones, tutta è musica vintage, pure nei suoni. Mentre leggevo mi sono ascoltato quasi tutto quello che cita. Ho anche fatto spesa: il cofanetto integrale dei Geordie, band che dona una prima fama al Nostro, e quello di Alex Harvey, in particolar modo la Sensational Alex Harvey Band. Cofanetto, quest’ultimo, strepitoso, anche nel prezzo. Insomma, il Nostro eroe, ne giovane ne bello, quando arriva, dopo una telefonata improvvisa e inattesa, alla corte dei fratelli Young, sa da poco che Bon Scott è morto. Non sa di averlo incontrato in gioventù, episodio svelato nei dettagli in questo libro. Canta, da un pò di tempo, la cover di “Whole Lotte Rosie” (magari avere registrazioni di quelle esibizioni). Soprattutto, non fa parte dello star system. Non conosce i “soliti” che, in queste biografie, spuntano sempre. Non cita mai, se non di riflesso, i Led Zeppelin. Inoltre, non ha una band che lo supporta, ma solo un gruppo con il quale si diverte a suonare. Nulla di più di questo. Se non fosse per i 5 mediocri album dei Geordie, si potrebbe dire che Johnson è il classico sconosciuto. Eppure, dopo un piccolo provino, i fratelli Young gli affidano la loro creatura più preziosa, quel “Back in Black” che deve rilanciare la band. Album destinato a diventare uno dei più venduti, in assoluto, del mondo del rock.
Allora si capisce una cosa. La fortuna è necessaria, Johnson lo dice più volte nel corso del libro. Ma serve anche la perseveranza e crederci. Altre due caratteristiche del volume che, da questo punto di vista, è un buon manuale ad uso e consumo di chi, oggi punta solo sui talent come unico trampolino di lancio. Qui, fra queste 380 pagine, c’è molta musica, c’è molto coraggio e c’è molto lavoro. Elementi che non dovrebbero mai mancare. Fa piacere che a parlare di tutto questo sia una star internazionale del rock come Brian Johnson. Senza dimenticare che la sua voce è, con quella di Plant, la voce rock per eccellenza. Da avere, per la bellissima fattura del volume. Da leggere, per avere fra le mani una vera storia rock. Bella davvero.
Articolo di Luca Cremonesi
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