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But we're not the same

Daniele Funaro “But we’re not the same”

La storia che ruota attorno all’album “Achtung Baby”

Il 18 novembre del 1991 esce in tutto il mondo, per la Island Records, “Achtung Baby”, l’album della rinascita degli U2. Nel novembre del 2021, esattamente 30 anni dopo, Daniele Funaro, insegnante di inglese e in forza a Il Manifesto, pubblica “But we’re not the same(edizioni Arcana), il libro cha racconta la storia che ruota attorno a quel disco, e non solo.

“Achtung Baby” e il successivo “Zooropa”, oltre allo ZooTv tour, sono, usando le parole dell’autore, gli anni più visionari degli U2. Già, chi c’era lo ricorderà bene. O meglio, lo dovrebbe ricordare; così vuole la prassi e, direbbe il filosofo tedesco Walter Benjamin, il modo di fare esperienza prima dell’avvento dell’era digitale. Ha senso, infatti, in questa nuova epoca barbarica – alla Baricco – scrivere libri sulla musica? Tutto sembrerebbe votare per un “no” categorico, dai dati di vendita dei libri alla fruizione che ormai caratterizza la musica. Eppure questo “But we’re not the same”, titolo preso da un verso di “One”, brano fra i più noti di questo lavoro degli U2, serve per capire e conoscere una delle ultime rivoluzioni della musica rock capace di essere universale e, allo stesso tempo, commerciale senza per questo svendere merce, musicisti e tutto quanto annesso e connesso.

Che la storia e la quotidianità abbiano a che fare con la musica non è prassi di tutte le epoche. Anzi. L’era che ci troviamo a vivere lo dimostra. Come, per contro altare, lo dà a vedere la stagione felice che va dagli anni ’60 ai ’90. Certo, con alcune e poche eccezioni ci si può spingere pure fino ai ’00. Maurizio Galli lo dimostra nel suo “I solchi della storia – Gli avvenimenti che hanno ispirato grandi musiche” (Volo Libero): l’uragano Katrina (2005) è l’ultimo grande evento che ha saputo far parlare di sé nella musica rock. E prima invece?

Beh prima era un’altra cosa. Nostalgia dei tempi andati? No. Semplicemente, ed è ancora Benjamin a guidarci, prima si faceva esperienza (anche) della musica in modo diverso. Un disco si acquistava all’uscita e il pre-order, tanto in voga oggi, era la parola detta al negoziante di fiducia: “me lo tieni da parte?”. Per saperne di più sull’album in uscita c’erano poche possibilità: leggere le note contenute nel vinile o nel cd, aspettare le interviste sui quotidiani o gli approfondimenti presenti nelle riviste di settore. Oppure era necessario leggere i libri.

Con questa concezione alle spalle, Funaro ha composto un testo che riesce, in 310 fitte pagine, a darci tutto quello che serve e che ci manca: informazioni, ragionate e ponderate; aneddoti ricchi, gustosi e che spingono agli acquisti, spesso compulsivi; dettagli, precisi e mai banali; chiavi di lettura, senza imporre nulla a nessuno; strade senza nomi per nuovi ascolti, senza rovinare gusti ormai sedimentati; riflessioni sul pre, sul post e sull’avvenire del gruppo che ha composto quell’album; racconti e retroscena del tour che spingono a riguardare e riascoltare il tutto, ancora una volta, con occhi e orecchie nuove; nessuna nostalgia e tanto meno nessun rimpianto su un’era che è stata tale perché figlia di ciò che stava accadendo; e, infine, tanta voglia di restare attaccati alle pagine, fino alla fine. Sembra poca cosa? Beh, per un libro che parla di un album noto ai più, sul quale si è detto e scritto di tutto, e che gli stessi U2 hanno deciso di celebrare con un semplice vinile da 180gr rosso e blu, senza tanti fronzoli ed extra (ma nella versione online c’è, finalmente, di tutto e di più), è davvero molto. Ciò che questo libro racconta è quanto di meglio si potesse desiderare per gli amanti di “Achtung Baby” e della band.

E così, per tracciare qualche percorso fra le 310 pagine, è davvero interessante leggere la parte del libro che spiega come dal fallimento – per la critica – di “Rattle and Hum” si sia passati al successo – di pubblico e di critica – di “Achthung Baby” che, di fatto, non viene registrato a Berlino, ma solo in parte concepito nella capitale tedesca. Ben descritti e documentati sono i passaggi che mostrano come dalla nascita di One si siano generati il sound e il mood che andranno a caratterizzato l’album, il tour, il periodo e l’epoca. Pochi secondi che, come per incanto, o come per i colpi di scalpello di Michelangelo, imprimono l’eterno nella materia, trasfigurandola. Pochi tocchi, un giro di chitarra che si incastra, un sorriso e una frase dettano il ritmo e tutto inizia a scorrere. La materia prende forma, il magma si sedimenta, finalmente. La pietra c’è; ora deve essere levigata dai quattro musicisti.

Altrettanto meticolosa – a ben vedere è ciò che interessa chi legge testi dedicati ad album e gruppi – è la genesi storica, quasi descritta in presa diretta, della ricerca di quel sound. Un’operazione che parte subito dopo il successo statunitense, e il ritorno in Europa della band, nella prima parte del 1990.

Bono, The Edge, la musica elettronica e i primi esperimenti. Non c’è un album e neppure un tour tra il 1990, e cioè il LoveTown tour, e il 1992, il via dello ZooTv tour. Non c’è neppure un album, ma semmai take, singoli dispersi nei lati B o in raccolte di vario genere. Materiale sparso al vento, non organizzato insomma e che non è concepito neppure per lasciare grande traccia. Tuttavia, questa produzione disordinata denota un surplus di creatività che, progressivamente, porta e spinge in studio i quattro irlandesi.

A Berlino, citando il nostrano Garbo, che giorno è quando gli U2 arrivano… Il Muro è caduto da poco. Questo è quello che conta. Il quartier generale è a cavallo fra le due ex città. Gli U2 respirano, sentono, vedono e vivono. Tuttavia non creano molto, ma assorbono e tutto questo, come sintesi hegeliana, sfocia poi nei suoni che sono forgiati e rinascono in Irlanda, in casa dei quattro.

Funaro sembra aver seguito la band, da vicino, ma senza mettersi in mezzo ai quattro. Legge i fatti con gli occhi del fan, ascolta da critico, descrive e racconta da cronista. Il risultato è un libro che si può permettere anche di lanciare alcuni messaggi. Non è cosa di poco conto.

In apertura si racconta del rapporto fra il sogno americano e l’immigrazione, letta e analizzata con la lente d’ingrandimento fissa sulle comunità irlandesi che fecero gli Stati Uniti. Poi, ed è uno dei punti di forza del libro, serpeggia la grande domanda se il Rock sia ancora capace, oggi, di raccontare i cambiamenti epocali. E, allo stesso tempo, l’altra grande questione, e cioè la domanda delle domande, posta in maniera diretta dall’autore, e cioè se il Rock sia destinato, da quel 1991 in poi – con l’aggiunta ovvia del 1992 marchiato “Never Mind” – a diventare musica di nicchia. La risposta è seminata nelle 310 pagine, ed ecco perché vanno lette. Spoiler: nessun catastrofismo, Funaro non scade mai neppure in quello.

Fra i pregi di questa lettura c’è senza dubbio il fatto che l’autore, pur se non se ne dimentica, non punta tutto sull’ovvia e scontata casella della sperimentazione. Certo, negare questo aspetto per l’album in questione e per quello che ne è seguito – il tour di due anni, e cioè 1992 e 1993, e “Zooropa” – sarebbe da folli. Far capire, però, come gli artisti siano sempre artigiani costantemente al lavoro e capaci, quando ispirati, di cambiare direzione e scegliere strade nuove, è privilegio di chi sa ascoltare, e valutare, non un singolo lavoro bensì un percorso evolutivo che ha partenze, picchi, cali e involuzioni. Il successo di “The Joshua Tree”, e siamo alla fine degli anni ’80, poteva cristallizzare la band. Per certi versi è stato così con il successivo ibrido – live e studio – “Rattle and Hum”. Su questo aspetto il lavoro dell’autore, che si trasforma quasi in un medico legale che detta i risultati della sua autopsia, è davvero ben fatto. Lo studio dettagliato di quella fase di passaggio targata Stati Uniti e ritorno in Europa, porta Funaro a descrivere, con carotaggi  certosini, gli show americani, le prove in studio e sul palco, per cercare in quelle faglie e spaccature l’accadimento che cambia la storia e ne impone una nuova. Anche in questo caso Funaro ne esce vincitore e trova il bandolo della matassa.

La storia, infatti, aveva ben altri progetti per gli U2 e di queste trame Funaro non  trova fossili in quel biennio statunitense. La ricerca è più in profondità e parte, come accade nella nota parabola evangelica dell’olio gettato nelle sterpaglie, dal Live Aid. Qui Bono prende coscienza di essere frontman vero; la band capisce che la musica può fare la differenza se non si trasforma solo in continui sermoni e, allo stesso tempo, i quattro capiscono che la comunicazione digitale ha enormi potenzialità e rappresenta il futuro. I capitoli dedicati allo ZooTv tour, che arrivò in Italia a Milano, nella seconda parte (21 e 22 maggio 1992, 30 anni fa), e poi a Verona, Roma, Napoli, Torino e Bologna nella quarta parte (dal 2 al 18 luglio del 1993), sono un’attenta analisi delle implicazioni di quella che sarebbe diventata la comunicazione globale via internet. Quelle pagine del libro trattano del mondo del web e dell’esperienza degli schermi – maxi soprattutto – e del modo di fruire e di comunicare di uno show che, da quel momento in poi, diventa altro da un semplice concerto dove ascoltare musica.

Che cosa resta dopo quell’esperienza? Di prender atto di quello che non è successo dopo. Da “Pop” in poi le cose cambiano. Funaro non giudica. La strada poteva essere altra, ma la storia, ancora una volta, ha dettato i suoi ritmi e gli anni ’90 sono stati altro da quello che si pensava potessero essere dopo la caduta del Muro. Lo sappiamo anche noi che abbiamo letto Fukuyama, ascoltato il sound di Seattle e vissuto l’avanzare inesorabile della musica commerciale, oggi predominante.

Articolo di Luca Cremonesi

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