La pausa Covid ha spinto molti a scrivere libri. Non si è esentato da questo compito neppure l’iperattivo leader dei Foo Fighters Dave Grohl che, presa in mano la penna, ci racconta e snocciola un poco della sua ricca biografia. Ricca sì, perché il ragazzo, va ricordato, a fra i 20 e i 25 anni, praticamente da autodidatta, è stato protagonista dell’ultima grande rivoluzione del Rock, quella targata Seattle. Il resto poi, per dire, è solo storia del Rock ’n Roll post Seattle. E che storia …
Le quasi 500 pagine del volume non possono in nessun modo contenere ed esaurire tutto quello che una personalità così ricca, e un musicista così particolare, ha vissuto e ha saputo incarnare. A poco più di 20 anni, dunque, era il batterista dei Nirvana di “Nevermind”, e del tour di quel lavoro, e co-protagonista degli anni che vennero prima della tragica morte di Cobain. Poi c’è stato tutto il resto e, non ultimo, la fondazione dei Foo Fihgters che, di quella stagione, sono l’ultima incarnazione. La più ruspante e la meno tragica; una band che sa far divertire e che diverte, almeno fino ai fatti attuali, che però non sono narrati in questo libro che, negli Stati Uniti, è uscito nel 2021, ben prima della tragedia che ha sconvolto il gruppo.
Grohl, ben guidato dalla casa editrice (lo riconosce lui stesso alla fine del volume, con grande onestà), ha saputo dosare in modo corretto i tre elementi che sorreggono la sua storia, per quanto è dato sapere a noi comuni mortali: l’amore per la musica, la sua storia di musicista, e quella della sua famiglia. È infatti, è follemente innamorato della sua batteria tanto quanto della sua famiglia e, in particolar modo, delle figlie. Leggerete, con molto divertimento, di quando interruppe un tour in Australia per volare, in 48 ore, prima a casa, negli Usa, e partecipare al primo ballo delle sue figlie alle scuole medie. Poi, accompagnate in palestra, via di nuovo sull’aereo per essere, dopo 23 ore, di nuovo sul palco in Australia. Nel mezzo? Una bella intossicazione da… insalata! Questo per far capire il tono del volume. Niente eccessi, niente stupefacenti a far da collante. Il malessere esistenziale è rimasto fuori da queste pagine, anche quello dell’amico Kurt. Qui si parla di vita, molta vita, tanta vita, che scorre nelle vene di un artista che ha visto, per ben due volte, la morte da molto vicino.
Sono pagine intense, dunque, quelle di “Storyteller – Storia di vita e di musica” (Rizzoli), volume tradotto molto bene da Nausikaa Angelotti, Francesca Pe’ e Ugo Piazza, che ci consegnano un Grohl intimo tanto quanto rockstar “bambino”. Il sottotitolo è quanto mai azzeccato perché in questo libro c’è molto dell’uomo (e del giovanotto) Grohl che, poca voglia di studiare, ma tanta di suonare, decise un giorno che quella sarebbe stata la sua vita. Il tutto non nelle grandi capitale degli States, ma in provincia, fra paesi ruspanti, e città quasi anonime.
Il nostro, infatti, non nasconde mai, in queste pagine, la sua passione di pancia per la musica. Ed eccolo, modello giovane adolescente scapestrato, che prova a frequentare le scuole di musica di paese, che non vuole prendere insegnamenti se non dai dischi che ascolta, tutto il giorno; che, anche una volta affermatosi, si esalta quando sa che incontrerà Tom Petty (e pensare che, a quell’epoca, era già nei libri della storia della musica, perché l’avventura con i Nirvana era da tempo terminata), gli AC/DC, Lemmy Kilmister o Paul McCartney. Pagine davvero belle e intense che dimostrano come Grohl sia un portatore sano di passione per la musica. Insomma, basta vedere i suoi occhi nel famoso filmato di Wembley quando, ad un certo punto, sul palco spuntano Jimmy Page e John Paul Jones. Se avete modo di rivedere quello spezzone, noterete una gioia sana, genuina, da bambino che incontra i suoi idoli. Non è servitù, e neppure snobismo, ma vera passione. E sarà così, in tutte le pagine del volume, ogni volta che il Nostro è chiamato a suonare o a incontrare quelli che sono i suoi idoli.
Grohl è uno di noi. Nel mio caso, è successo quello che lui racconta proprio con… lui! A Cesena. Ero tra quei 2.000. Arrivai davanti alla palestra, dopo 3 giri di controlli. Dalla porta laterale uscivano i giovincelli del mini basket. Mentre li guardavo, pensando alla fortuna che avevano avuto nell’assistere alle prove, arrivò un monovolume Mercedes. Si fermò davanti a me, a pochi metri. Scese, dal posto del guidatore, Grohl. Jeans, felpa nera con cappuccio, e occhiale scuro. Hi guys… e mi guarda, in attesa forse della richiesta di un selfie e/o autografo. Avevo il batterista dei Nirvana a due metri. Allungai la mano, ridotta a seppia. Gliela strinsi e, lui, attese ancora con il sorriso. Poi, visto che ero completamente assente, se ne andò… Ecco, le reazioni di cui parla Grohl nel libro sono esattamente le stesse che avrebbero qualsiasi fan alle prese, all’improvviso, con il proprio idolo. Come successe, appunto, a chi scrive.
Ancora più divertenti, e inattese, sono i passaggi dedicate ai pensieri che il più grande batterista grunge vivente formula quando riceve inviti per eventi speciali. Ogni volta si stupisce, va in paranoia (dice lui), e si chiede come mai capitino proprio a me. In chi legge il volume la risposta è semplice: sei il batterista dei Nirvana, e sei il fondatore dei Foo Fighters. In un mondo povero di rockstar vere, genuine, giovani e capaci di capire la musica, è normale, anzi, normalissimo, che ci si rivolga a Grohl. Ma lo sarebbe anche se fossimo nei ricchi anni ’70. Per il semplice fatto che Grohl non è solo uno capace di suonare, ma è anche una vera e genuina rockstar. E invece il Nostro si stupisce, non capisce, va in paranoia e si agita. Succede – e il racconto è davvero divertente, ricorda quello delle avventure di qualsiasi uomo o donna al cospetto di realtà uniche – quando si reca per la prima volta alla Casa Bianca; stessa cosa per la Notte degli Oscar (dove deve pure farsi fare un vestito su misura) e, ancor più bello come aneddoto e ricordo, al primo concerto della figlia. Lui, Dave Grohl, alla chitarra, per cantare con la figlia un brano degli amati Beatles. Il tutto davanti al pubblico più severo di sempre: quello degli altri genitori della scuola. Sono pagine bellissime, davvero.
Quello che emerge, dunque, da questi quasi 500 fogli è la genuinità di Grohl, ragazzo amante della musica, collezionista di edizioni underground di dischi punk made in Usa, suonatore di cuscini (usati al posto della batteria), musicista senza mai prendere lezioni (solo una, per impostare quanto meno le bacchette in mano) e, soprattutto, inventore di “quel” suono secco, acido e rabbioso che ha sostenuto il canto e la chitarra di Cobain.
La genuinità è la vera nota distintiva di questa autobiografia (onesta) e la cifra di questo ragazzo che ancora oggi, e lo scrive in un passaggio divertente del testo, ama vestirsi con i jeans, la felpa e le scarpe Vans. Eppure questo batterista è stato il responsabile dell’ultima grande rivoluzione, o declinazione, del Rock: quella del Grunge made in Seattle. Ci si aspettava di più dalla parte in questione che, invece, viene risolta in tre capitoli (senza neppure toccare la lavorazione di “In Utero”). Si capisce bene, però, che rievocare questa storia è ancora una ferita aperta. C’è un passaggio, poco dopo la morte di Cobain, che dà la cifra della questione. In sintesi, Grohl afferma di far fatica a suonare senza vedersi davanti Kurt. Non è una frase fatta, e neppure di poco conto. Di quel poco che racconta della fase Nirvana una cosa è chiara: lui e Kurt erano molto, molto legati.
L’amicizia, all’interno di questa genuinità che lo contraddistingue, è un valore assoluto per Grohl. Lo scrive più volte e lo ribadisce quasi in ogni capitolo. Il suo rapporto con i musicisti delle sue varie band si fonda su questo assioma: genuinità e amicizia, vere entrambe. E così s’intuisce come il post Nirvana non sia stato facile. C’era il desiderio di andare a vivere, non ancora trentenne, in campagna. Chiudersi e finire lì la parte pubblica. Poi le cose sono cambiate. Allo stesso modo, però, parlare di quella storia non sembra affatto facile per il Nostro. Suono poche canzone dei Nirvana. Lo dichiara, ma tutti lo sappiamo, anche perché con i Foo Fighters ha suonato cover di tutti… tranne che dei Nirvana.
Questo ci porta ad un’altra consapevolezza. Il libro è stato scritto prima della morte di Taylor Hawkins, batterista dei Foo Fighters e, soprattutto, amico e spalla di Grohl in questa nuova avventura musicale. Le pagine dedicate ai loro viaggi, alla loro complicità e alla loro spontaneità nel lavoro e nello stare insieme, sono davvero belle, intense e cariche di significato per noi che, purtroppo, sappiamo il finale. Sono tutte esperienza raccontate non perché avventure vissute negli eccessi tipici delle rockstar, ma come momenti vissuti di vera e genuina amicizia. Sembra quasi che in Taylor Hawkins, Grohl abbia ritrovato Kurt Cobain. Ed è facile allora intuire il perché dello stop avvenuto dopo la scomparsa di Hawkins. E, soprattutto, di come potrebbe andare a finire.
A pag. 466 Grohl scrive infatti: A travolgere la stanza come un tornado di classe F5 di allegria e iperattività c’era Taylor Hawkins, un vero fratello acquisito, il mio migliore amico, l’uomo per cui sarei disposto a prendermi una pallottola. La nostra intesa era scattata fin dal primo incontro e ci eravamo legati sempre di più, giorno dopo giorno, canzone dopo canzone, nota dopo nota. Non ho alcun timore a dire che il nostro incontro casuale era stato una specie di amore a prima vista, che aveva acceso una “fiamma gemella” musicale che divampa ancora oggi.
Altro, credo, non serve aggiungere. Leggerete una bella storia, che profuma molto di Stati Uniti e di genuinità.
Articolo di Luca Cremonesi