“Dischi da 90” (Bertoni Editore, 2020), un libro dedicato alla scoperta della genesi degli album alternativi degli anni ’90, come suggerisce il retro di copertina. A occhio e croce una specie di album dei ricordi dedicato in particolare agli attuali quaranta/cinquantenni, che quel periodo lo hanno vissuto sguazzandoci fino al collo.
Non si tratta però solo di nostalgia, il punto vero è che in quegli anni si è vissuto un momento di straordinaria (nel senso di fuori dall’ordinario) creatività della musica italiana. A livello internazionale certo non si scherzava, basti pensare al Grunge, al Britpop o alla musica dance, ma il giardino di casa nostra non risultava meno rigoglioso. Mentre i cantautori continuavano dignitosamente il loro incessante lavoro (e ne comparivano di nuovi), nei territori più disparati della penisola sbocciavano senza sosta tanti piccoli fiori dai colori accattivanti, uno diverso dall’altro, alcuni destinati ad avere successo ed essere ammirati dal grande pubblico, altri destinati a rimanere nascosti come preziosi gioielli di cui solo pochi hanno avuto la fortuna di odorarne il profumo. Quel momento fu irripetibile e ritengo che abbiamo scavato il solco dell’indie che è arrivato dopo, ci racconta Ermanno Giovanardi.
Erano cantanti e gruppi che si facevano faticosamente conoscere calpestando palchi nei luoghi più disparati e sperduti del belpaese. Sarà che il passato addolcisce i ricordi, ma occasioni per ascoltare musica dal vivo ce n’erano effettivamente parecchie: concerti più o meno piccoli organizzati sul prato di una zona industriale, sotto il tendone nella piazza del paese, dentro palasport di provincia o negli anfratti rocciosi delle montagne. Il tutto senza bisogno di prevendita, perquisizioni, metal detector o gettoni di plastica da cambiare per riuscire a bersi una birra durante lo spettacolo. Il più delle volte solo un biglietto da cinema tra le dita, di quelli rosa rettangolari con il timbrino rosso della Siae.
Erano gruppi che per il loro pubblico meritavano di essere rincorsi, gruppi per cui valeva la pena spendere piccoli tesori in moderni CD, inconsapevoli che sarebbero morti da lì a poco. Certamente, c’era tutto il tempo per digerirne i pezzi, ripercorrere più e più volte le tracce ordinate in modo tale da avere un senso dentro ogni singolo album, insistere sulle più ostiche, trovarne il senso, la giusta posizione dentro compilation dalle copertine personalizzate.
Si poteva gustare Rock, Hard Rock, Raggae, Ska, Patchanka, Combat Folk, Elettronica, spettatori di una gara tra formazioni che cercavano ognuna una propria specifica identità, più o meno ricca di sperimentazioni. Francesco Andrea Brunale, l’autore del libro, ci porta a scoprire con alcuni dei protagonisti diretti di quella musica la genesi, il senso e le curiosità nascoste dietro ai loro album più significativi (ardua e soggettiva la scelta in molti casi).
Tanto per citarne alcuni, i Marlene Kuntz de “Il vile”, lo splendido “Aria” dei Flor, “Psycorsonica” dei Ritmo Tribale, i Casino Royale di “1995”, “Lingo” degli Almamegretta, “Dentro me” dei La Crus, ma poi i Subsonica, gli Afterhours, gli Estra, gli Ustmamò e i grandi padri CSI, con il loro epocale “Ko de Mondo”. Pur con qualche dolorosa assenza (penso ai Mau Mau, ai Disciplinatha, agli Africa Unite o alla Bandabardò per esempio), il volume sviscera molte delle curiosità che ci sono rimaste dentro, riaprendo pagine di memoria che strappano più di un sorriso.
Brunale ha uno sguardo molto musicale, tecnico, concentrato sulla genesi degli album, sul ruolo, sull’identità e sull’attualità delle singole canzoni, sulla portata dell’opera all’interno della discografia del gruppo. È la sua prospettiva, legittima, forse la maniera opportuna per mettere dei paletti e circoscrivere il discorso tenendo sempre presente il titolo. I “Dischi da 90”. Altrimenti, se non avesse fatto così, con quegli interlocutori avrebbe potuto discorrere per migliaia di pagine, andando a finire chissà dove.
Articolo di Marco Zanchetta