Il volume di Donato Zoppo “CSI. È stato un tempo il mondo”, edito da Compagnia editoriale Aliberti e uscito il 24 aprile, era molto atteso. Un po’ perché questo 2024 sarà ricordato come l’anno dei CCCP e di tutto quello che ruota attorno a quel gruppo di musicisti che, terminata quell’esperienza, hanno dato origine a uno dei gruppi più significativi della musica italiana degli anni ’90; un po’ perché, a conti fatti, dei CSI non ci sono ancora saggi o testi che ne propongano un’analisi dettagliata.
Ora, conviene dirlo subito, proprio perché l’attesa era molta, e perché Zoppo è un critico con la “C” maiuscola, e merita onestà. Allo stesso tempo perché tutte le testate si sono spese in grandi elogi. A dire il vero, molte recensioni mi sono sembrate preconfezionate, e dunque redatte senza lettura effettiva del testo. Per quanto mi riguarda, dato che mentre scrivo ho davanti lo scaffale con tutto quello uscito sul mercato, a oggi, dei CSI, singoli radiofonici compresi, posso dire con rimpianto che il volume non mi ha soddisfatto al 100%. Non è un volume fatto male. Non è un volume poco interessante. E tanto meno è un testo da non avere. Il mio rimpianto sta nel constatare che questo libro ha la colpa di essere figlio di un’urgenza, comprensibile in un’epoca dove vendere libri non è facile, che ne ha forse limitato un poco la ricerca e l’analisi. Mi spiego.
Il testo in questione non si occupa della storia dei CSI, gruppo nato dalle ceneri dei CCCP, e dall’emorragia dei Litfiba. Già questa vicenda, se ben articolata, dettagliata e sviscerata, sarebbe oggetto di un saggio molto interessante. Il volume, invece, è la storia solo ed esclusivamente di come si è arrivati alla creazione, registrazione e produzione di “Ko de Mondo”, primo album in studio dei CSI.
Correva l’anno 1994, e con gli anniversari ci siamo. Il mondo musicale italiano era ben diverso; come l’universo che vi girava attorno. Anche questo altro aspetto meriterebbe un secondo volume di analisi. A costo di essere frainteso, rafforzo quanto scritto solo per aver chiaro che si tratta di un passaggio storico non di secondo piano, ma di un’epoca significativa per la storia, che coincide con l’ultimo decennio nel quale la musica italiana ha saputo produrre per davvero una differenza significativa. Tutto questo si è generato grazie anche ai musicisti che, insieme, diedero vita ai CSI. Di questo fatto, pur se non nel dettaglio, si parla nel volume. Ma resto dell’idea che un saggio, oggi, nell’epoca di Internet, debba dire e raccontare qualcosa di più di quanto si trova, con un po’ di attenta ricerca, in rete. O nelle riviste dell’epoca, materiale che ogni buon collezionista ha in casa. CSI e CCCP, come d’altronde i Litfiba, non hanno solo un pubblico di riferimento. Annoverano fan, adepti, fedeli e collezionisti. Persone che lottano per avere numeri bassi di cofanetti, o delle edizioni limitate e celebrative. C’è da fare i conti con questo pubblico, non lo si può scordare. Ergo: in casa hanno tutto. Il presente volume non aggiunge nulla a quello che già si sapeva.
La novità sta nelle parole dei protagonisti, sempre gradite alle persone delle quali si diceva sopra. Zoppo, e qui di certo va elogiato, porta a casa i commenti di tutti i musicisti. Questi non si dilungano molto a onor del vero, ma è comunque interessante sentire voci inattese, come quella di Giorgio Canali e di Ginevra di Marco. È chiaro che anche in questo caso c’erano margini di lavoro ampi. Si è fatta una scelta, sacrosanta e legittima, ed è giusto che questa generi poi dei commenti.
Preziosa, invece, è la parte delle foto, che testimoniano un poco il lavoro sviluppato nei mesi di agosto e settembre 1993 nel manoir Le Prajou di Finistère in Francia, più precisamente in Bretagna, luogo di pellegrinaggio, tanto per ribadire come vivono la cosa i fan. Anche lo stesso Federico Guglielmi, che firma la prefazione al volume, non si nasconde, e dichiara di aver cercato la casa dove il miracolo è avvenuto.
Un miracolo che Zoppo – e qui invece il testo è davvero interessante – descrive e racconta bene, con sapienza, ampia conoscenza e attenzione. In quelle pagine ci fa vivere un poco l’atmosfera di quella comune creativa che prese possesso, per alcuni mesi, di questo luogo dove si componeva e suonava di continuo, senza orari, insieme e in modo spontaneo. Un processo creativo che oggi non sarebbe tollerato da nessuno, forse neppure negli ambienti indipendenti. Ancor meno se si pensa che dietro a quel progetto c’era comunque un’etichetta e un mondo musicale. Qui Zoppo fa emergere, senza inutili polemiche, uno dei grandi problemi che condannano la produzione artistica, e non solo musicale, della nostra epoca: la mancanza di coraggio e di capacità di dare fiducia. Senza scordare la voglia di cercare qualcosa di nuovo. Che i musicisti fossero degni di fiducia era noto, ma andava sostenuto e riconosciuto questo fatto. Zoppo attribuisce queste doti a Stefano Senardi che, all’epoca, firma un contratto in bianco, ma soprattutto concede fiducia a una band che non esiste, e a un gruppo di artisti che parte, furgone con strumenti e tanto cibo italiano a seguito, per creare quello che non c’è. Un disco nuovo. Con nuovi suoni. Con una nuova poetica. Con un nuovo modo di cantare.
L’esigenza di spazio, ma forse la natura di emergenza che ha generato l’uscita di questo volume, fanno si che si sia optato per tagliare tutta questa parte, quella cioè dedicata alla musica. Cosa e chi ha ispirato i musicisti che stavano lavorando in quella casa. Pochi gli accenni, se non quello che il Consorzio Produttori Indipendenti, con le sue produzioni, sono nel DNA di quei suoni che stanno nascendo. Ferretti, ricorda Zoppo, ascoltava i Marlene Kuntz. Canali era legato ai Noir Désir. Di Maroccolo non si dice nulla, ed è noto che il suo apporto non è affatto secondario, e di certo conoscere i suoi ascolti dell’epoca sarebbe stato un dono prezioso. Stessa cosa per Magnelli e Zamboni. Non è solo Ferretti che cambia modo di cantare e di scrivere; anche Zamboni smette di grattugiare la chitarra, e passa ad un altro lavoro sonoro. Quanto Canali, descritto in modo splendido come mina vagante e agitatore musicale, ha influenzato Zamboni, e viceversa? Aspetti che restano non analizzati, ma sarebbe stato interessante avere delucidazioni in merito.
Ultima nota, che però vede Zoppo in buona compagnia, è l’eccessivo uso delle citazioni di Ferretti. Siamo in tanti a stimarlo, davvero. La sua capacità di scrittura è cifra sua, figlia di una lucidità d’analisi rara (chi ha assistito ai suoi Stati d’Agitazione a Modena lo ha potuto constatare), e di uno sguardo sul mondo sempre attento, interessante e profondo, alla faccia di chi lo vuole etichettare come meglio crede. Capisco anche che sono belle le sue frasi, le sue sintesi e le sue costruzioni. Ma sono e restano sue. Usarle non vuol dire farle diventare nostre. Quindi, fedele a quello che sostenevano i Sofisti, e cioè che chi parla bene pensa bene, si può affermare che Ferretti parla e pensa bene. Lui però. A noi l’arduo compito di storicizzarlo. Per far questo, impresa davvero difficile, serve portalo dentro, introiettarlo, per poi descriverlo con le parole che abbiamo a disposizione. Utilizzare sue frasi, qua e la, è un gioco nel quale si dilettano in tanti. In troppi. Piacevole, per certi versi, ma dopo un pò profuma di fedeli ad oltranza. E pensare che Ferretti, in “A Tratti”, ci aveva avvisato.
Al netto di tutto questo, il volume di Zoppo rende omaggio a un disco epico perché innovativo; capace di essere sintesi e, allo stesso tempo, porta d’ingresso per un nuovo mondo. Per la stima che Zoppo si è conquistato sul campo, con libri che sono tutti presenti nello scaffale dietro alla postazione dalla quale scrivo, spero sinceramente che questo sia un primo capitolo, anzi, un testo di prova, o un lungo articolo trasformato in libro, che faccia da preambolo ad un saggio organico e dettagliato sui CSI, con l’analisi certosina dei tre album in studio. Nel mentre, godiamoci questo scritto che ci permette comunque di riascoltare Ko de Mondo con qualche consapevolezza in più; quelle magari si sono scordate nel lento incedere di questi tre decenni.
Articolo di Luca Cremonesi