21/11/2024

Dirty Loops, Roncade (TV)

21/11/2024

Giuse The Lizia, Bologna

21/11/2024

Peter Hammill, Padova

21/11/2024

Tapir!, Milano

21/11/2024

Discoverland, Torino

21/11/2024

The Winstons, Milano

21/11/2024

Edoardo Bennato, Catania

21/11/2024

Lucy Gruger & The Lost Boys, Madonna dell’Albero (RA)

21/11/2024

Paolo Benvegnù, Milano

21/11/2024

Corrado Rustici, Pistoia

22/11/2024

Giuse The Lizia, Padova

22/11/2024

High Vis, Milano

Agenda

Scopri tutti

Enrica Orlando “Un dono di suono e visione”

Lavoro che affronta con competenza un’opera che ha ancora molto da dire, sia nella versione italiana sia nella sua versione originale

Della versione italiana dello spettacolo “Lazarus” di David Bowie abbiamo parlato nei mesi passati (la nostra recensione). Attribuendo anche meriti forse eccessivi a Manuel Agnelli, mattatore di questa rilettura italiana, adattata dal regista Valter Malosti. Dico così perché nel volume di Erica Orlando, “Un dono di suono e visione – David Bowie e il teatro di Lazarus” (Arcana, 16,50 euro), uscito nel mese di maggio 2023, a ridosso del debutto del musical, sembrerebbe emerge un’altra verità rispetto a quella della quale abbiamo scritto nel nostro pezzo. Bene, molto bene direi. Altrimenti a cosa servirebbe la critica musicale e, come in questo caso, la ricerca?

Quindi, parlando di questo volume, vedremo se sia il caso di rimettere a posto qualche pezzo, pur se, per quanto mi riguarda, i meriti di Agnelli sono forse più di quelli dei quali si racconta nel volume in questione. Poi, e lo vedremo, ci sono due passaggi discutibili, uno da errore blu, come si faceva un tempo a scuola, mentre l’altro spero sia solo una dimenticanza dovuta, forse, alla fretta di far uscire il volume nel periodo di messa in scena in Italia di Lazarus.

Partiamo, però, da ciò che c’è di positivo, e cioè la bella e lunga analisi, non sempre dettagliata, della penultima opera di Bowie. Il volume racconta molti aneddoti che ruotano attorno allo spettacolo. Pur se l’autrice dichiara amore infinito e sconfinato per Bowie, il materiale proposto, e messo tutto insieme in oltre 160 pagine di testo, è davvero buono, ma non sempre frutto di un approfondimento dettagliato. Nel senso che è davvero piacevole leggere come ha deciso di sviscerare l’opera, pezzo per pezzo, senza tralasciare nulla, dai colori al teatro, passando ovviamente per ogni singolo personaggio.

Tuttavia, questi volumi, nell’epoca dei social e di internet, dovrebbero arricchire quello che, di fatto, con un po’ di ricerca attenta, si può trovare in rete. Non serve farlo, ovvio, ma aiuta l’editoria, differenzia i libri dalla rete, e rende appetibile il volume. Il compito, invece, Orlando lo esegue bene su alcune parti, quella dei colori soprattutto (una sezione molto bella e ben fatta), mentre in altri capitoli, e cioè quella della genesi dello spettacolo, resta alla superficie di quello che già sappiamo, o che, con un poco di sforzo online, possiamo trovare anche noi curiosi lettori. Soprattutto dopo che, come nel mio caso, si è vista la versione italiana, nell’ultima replica di Modena.

Per quanto riguarda, poi, la prima segnalazione, si tratta degli omaggi a Bowie. Orlando cita, giustamente, i Nirvana (e ci mancherebbe), e quella che, ormai, per tutti è la versione di “The Man Who Sold The World”. C’è da dire che nell’esecuzione italiana, Agnelli, e chi ha lavorato sulle musiche, e cioè Gulp Alcaro, mettono in campo la scelta di far dimenticare la versione dei Nirvana. Non deve essere stato facile, ma ci sono riusciti, ed è uno dei momenti più intensi dello spettacolo. Come, d’altronde, lo è il passaggio con l’esecuzione finale di “Heroes”. Non era facile mettere le mani su questi due grandi classici, ma chi ha lavorato sullo spettacolo italiano ha fatto un vero miracolo. Io, però, resto convinto che qui sia stato decisivo Agnelli con la sua sensibilità, e la sua conoscenza della musica.
 
E poi, se si scrive un testo su queste tematiche, non si può affatto scordare l’omaggio realizzato da Andrea Chimenti. Un doppio album live, uscito per Contempo Records, che è un vero gioiello. Rispettoso, ben fatto, ricco e attento a non uscire dal seminato, pur con qualche libertà. Citando i vari omaggi, non ci si può scordare di questo lavoro. Perché le mani su Bowie stanno iniziando a metterle in tanti, ma Chimenti lo ha fatto in tempi non sospetti, e con grande attenzione per il materiale utilizzato. Una citazione la meritava in questo volume, quanto meno per le versioni delle canzoni che appaiono anche nel musical.

Torniamo agli aspetti positivi del testo che, oltre alla sezione dedicata ai colori, porta in dono una bella intervista a Valter Malosti che spiega genesi e origine della sua variante italiana. Elogia Agnelli, come è giusto che sia, e in una battuta porta in paradiso Casadilegno, la vera scoperta di questa versione italiana. Non era facile, si era detto all’epoca, fare questa scelta, eppure il regista ha avuto questo coraggio. Credo sostenuto da Agnelli, e il risultato è meraviglioso. Se avete assistito allo spettacolo, sapete di cosa parlo, e cioè di una voce che incanta davvero. Bello, poi, nel libro, anche il passaggio dove si ricorda la visione della regia di Fellini, applicata alle scelte di questa versione italiana dell’opera di Bowie. Direi azzeccato il rimando al realismo del sogno felliniano.

Altra parte interessante, ma che purtroppo non scende nella vera Fossa delle Marianne di questo spettacolo, è l’attenzione che nel volume si dedica al tema del doppio e della frantumazione delle identità, aspetti chiave del “Lazarus” di Bowie.  Qui c’è, però, un errore che, a scuola, sarebbe da segnare in blu. Il tema del doppio è uno dei grandi argomenti dell’umanità. Dal “Crizia” di Platone, con il paradosso dei gemelli, alle riflessioni di Lacan e, oggi, di Recalcati, passando ovviamente per tutta la storia della cultura mondiale. Anche “Lazarus”, e il suo ideatore, Bowie, si collocano in questo filone culturale. Non è per insistere, ma qui siamo dentro un tema che non è solo legato alle maschere, ai personaggi messi sul palco, ai colori, o alle scelte di interpretare dei ruoli. “Lazarus” rimanda alla resurrezione e, come ben sottolinea Orlando, al tema del dopo. Quando si torna, decostruiti e, pertanto, risorti / rinati, che succede? Non vedo la necessità di soffermarsi così tanto sul Lazar-us, questione che lascerei ai giochi di parole che piacevano a Heidegger, ma di certo c’è in gioco un tema chiave: quello del chi siamo, tutti noi, quando capiamo di essere davvero molteplici, e non monolitici.

Orlando sceglie di riassumere il tutto citando Arthur Rimbaud, il poeta maledetto francese. La scelta cade su uno dei testi fondativi del tema della frantumazione dell’identità, e cioè la “Lettera del Veggente”. Ora, nel testo si cita il famoso – credevo – passaggio: Je suis un autre. Il testo di Rimbaud, però, è Je est un autre.  La chiave è il verbo essere alla terza persona singolare. In sostanza, IO È UN ALTRO. Non IO SONO UN ALTRO. In questo modo Rimbaud stava sottolineando quello che, a ben vedere, racconta il musical in questione, e cioè che noi siamo identità multiple. Questo è il gioco del verbo Essere che mette in risalto il poeta francese. Io sono un altro, invece, rischia di deviare l’attenzione su un tema ben diverso, e cioè quello della schizofrenia e della patologia, ben altra cosa rispetto al tema, affascinante, della molteplicità.

Al netto, però, di questo passaggio, il libro resta un buon lavoro che affronta, con competenza, un’opera che ha ancora molto da dire, sia nella versione italiana, fresca di messa in circolazione, sia nella sua versione originale. Orlando, dunque, ha il pregio di essere stata fra le prime che ha messo le mani in questo materiale delicato, e aver provato – con buoni risultati, lo ripeto – a rendere chiara un’opera complessa, stratificata e che tocca temi non di certo facili. La molteplicità, la scissione dell’io, il divenire e la fluidità, oltre al tema del viaggio come ricerca di identità, non sono banalità da affrontare non senza, sulle spalle, un ampio zaino, o un paracadute, che ci tuteli bene dal rischio di precipitare nella banalizzazione. Qui, infatti, si entra nel cuore pulsante della riflessione del ‘900, secolo che ha avuto in Bowie uno dei suoi massimi rappresentanti. Sempre che si capisca, finalmente, che serve andare ben oltre le canzonette.

Articolo di Luca Cremonesi

© Riproduzione vietata

Iscriviti alla newsletter

Condividi il post!