Ernesto Assante, fra le firme più prestigiose della critica musicale nostrana, aveva messo le mani su Lucio Battisti. Basta questo perché il libro sia un classico contemporaneo da avere in casa. Il suo “Lucio Battisti”, uscito per Mondadori il 28 febbraio del 2023, è una pedina nello scacchiere, infinito, di biografie di una delle voci e delle storie musicali più particolari ed enigmatiche del nostro Paese? Non solo. Vediamone il perché.
Sulla parte che lega Mogol a Battisti, Assante fa la differenza sullo sguardo d’insieme. Quello che c’è da sapere lo si sa, da tempo. Più o meno tutto, poco c’è da aggiungere. Diversa invece la questione sul contesto. Assante, come direbbe Sartre, mette in situazione il Lucio nazionale, e lo fa reagire con la società italiana che cambia, evolve, involve e si trasforma. Con essa la musica, che è canto libero, nel senso che diventa forma d’arte, di comunicazione, grido generazionale e specchio di un reame che non è di certo il più bello che ci sia. Ma è quello che ci meritiamo, e cioè un dopo Guerra ricco di volontà di fare, di giovani che si muovono, si animano, dando e creando vita. La musica è la benzina di tutta questa forza. Ottani contenuti in una miriade di anime che fanno esplodere tutto: usi, costumi, modi di pensare, di essere e di vivere.
In questa sarabanda, come direbbero i Litfiba, Battisti vince la scommessa che fa con la sua famiglia; e fa vincere la scommessa a Mogol, che da subito crede in questo giovane amante della musica. Inciso: Vandelli, nel suo libro (la nostra recensione), afferma di essere stato lui ad aver portato Battisti da Mogol, la prima volta. Assante non cita neppure l’episodio, e collega Vandelli ad altro: un incontro importante per la magica coppia, ma di certo non come il motore del loro sodalizio. In altre pagine il mistero verrà chiarito. Chissà.
Al netto di questo, Assante costruisce un libro che è certamente la storia critica di Battisti, ma è anche uno spaccato del costume italiano: il beat, Tenco, Sanremo, le case discografiche, i concerti, i rapporti con l’estero; la musica italiana che sa fare la differenza. Tutto entra nelle pagine di Assante, che ci regala così un libro capace di emozionare, e allo stesso tempo costruito come un giallo: c’è la giusta tensione, capitolo dopo capitolo, per andare avanti e conoscere il finale.
Certo, lo confesso, mi ero illuso. Forse Assante riuscirà a svelare il mistero, mi dicevo. Mi riferisco agli anni degli album bianchi. La produzione più incredibile della musica italiana. La meno nota. La meno citata. La meno cantata. Eppure una delle più interessanti. Una delle più enigmatiche. Una delle più ricche. Tutto questo va di pari passo con un velo di silenzio che stupisce. Nel Bel Paese nessun segreto tiene. In questo caso, a 26 anni dalla morte di Battisti, avvenuta nell’agosto del 1998, il velo steso su questo periodo, durato di fatto 18 anni, e cioè dal 1980, la rottura con Mogol, pagine che Assante spiega bene, facendo capire che non si è trattato di un litigio, al 1998, il velo, si diceva, non si riesce a sollevare. Neppure Assante ci mette mano, e non solo non ci si cimenta, ma manco ci prova. Non fa neanche lo sforzo. Le pagine dedicate alla vita pubblica di Battisti sono 270. I famigerati 18 anni ne occupano 40, con capitoli di fatto striminziti.
L’autore tiene fede a quanto sostiene, forte della parole di Panella, e cioè che Battisti, in sintesi, abbia voluto smontare il mito di se stesso. Detto in altro modo, sradicare Battisti dai falò e dagli autobus che lo cantavano durante le gite. Tutto vero. Però mi sono chiesto come mai Assante non ci abbia provato. A far cosa? Ad andare oltre. Forse davvero non si può. Forse davvero, dato che gli eredi sono vivi, il silenzio è imposto. Sacrosanto diritto, dato che ognuno, nell’epoca della sovra esposizione mediatica, può e deve gestire al meglio la propria privacy. Battisti, come Mina, Gianna Nannini, per certi versi Vasco Rossi, De Gregori e, in vita, Battiato, sono l’esempio che, se si vuole, non si fa parlare di sé.
Però Assante ha l’autorevolezza per lavorare attorno al mistero. Perché non lo ha fatto, con profondità? Mi sono riletto quelle quaranta pagine, e in realtà qualcosa si dice. Senza eccedere, usando il bisturi e il cesello. Mettiamola così, giochiamo, come credo abbia voluto fare Assante.
I dieci comandamenti del Battisti 1981 – 1998, secondo Assante, sono:
- Non avrai altro Dio al di fuori di Battisti, e Lui si è negato. Presente e assente allo stesso momento. Geniale, in un’epoca dove ormai iniziava a contare solo l’apparire, al posto dell’essere.
- Non nominare il nome di Battisti invano. Così via tutto: dalla promozione ai live; dai testi negli album alle fotografie. Iconoclastia pura.
- Ricordati di santificare le feste con le canzoni di Battisti. Quindi, diamo alle persone, al pubblico, testi che non si possano cantare. Si può fare musica differente? Certo. Anche Dylan ha deciso per certi versi di intraprendere questa strada.
- Onora il padre e la madre, e cioè Battisti e Mogol. Allora rompiamo la coppia, e crediamone un’altra, ma che non sia la bella o brutta coppia della coppia. No. Deve essere altro, il totalmente altro che spiazza. Seguiranno Battiato e Sgalambro. Oggi, spero, Morgan e Panella. Si, certo l’amore… verrebbe da commentare.
- Non uccidere il tuo idolo. Tranquilli, ci pensa l’idolo stesso. Non ci si deve neppure sporcare le mani. Non fare di me un idolo mi brucerò; se divento un megafono m’incepperò, cantavano i C.S.I. Battisti, nella prima traccia di “E”, canta: Fare si può fare ed anche disfare / Ma è un’impalcatura / Dipende da chi sopra ci sale / E tu dicevi “Ancora un poco / E se non tutto, e se non tutto / Almeno l’inizio.
- Non rubare più le canzoni di Battisti. Così Panella e Battisti non solo, come scrive Assante, si allontanano da autobus, falò, feste e chitarre in spiaggia, ma neppure più si possono cantare le loro canzoni. Se non a opera dello stesso Battisti. Mi ha fatto pensare molto il tornare, in queste 40 pagine, sul fatto che solo Battisti poteva cantare quelle ultime canzoni. Così è; così è stato; e così permane. Nessuno ci ha messo le mani, a oggi. È significativo. Come d’altronde, già lo dicevo, su questi 18 anni: tutti tacciono. Eppure, tolto Battisti, molte altre persone sono ancora vive, e potrebbero spiegare. Raccontare. Interpretare. Nessuno, però, ruba nulla a Battisti. Una fedeltà che ha pochi eguali in Italia. Fatto che ci porta diretti al prossimo comandamento di Assante:
- Non dire falsa testimonianza, e resta alla superficie con quello che si sa. Non aggiungiamo nulla, se non qualche piccolo sassolino. Nulla di più.
- Non desiderare la donna d’altri. Nessuna canzone degli ultimi album può essere fatta propria. Non resta che ascoltare, ascoltare, ascoltare. Assante lo ripete all’infinito. Che sia questa, alla fine, l’unica verità che conta di quei 18 anni?
- Non desiderare la roba degli altri, e Battisti lo ha fatto. Non ha impedito a Panella di trionfare, in vario modo, per esempio, a Sanremo, e nella musica di consumo; di scrivere uno dei primi tormentoni della kermesse ligure, con tanto di trottolino amoroso, dimostrando che se avessero voluto – lui e Battisti – di canzoni alla Mogol e Battisti ne avrebbero scritte tante altre ancora. Ma Battisti voleva la sua roba, alla Mazzarò. Solo sua, che doveva andar via con lui. Il rimpianto è che quei tesori si siano fermati a soli sei album. Un vero peccato.
Alla fine, insomma, Assante, di sponda, qualcosa ci dice su quel periodo, ma non vìola quello che Battisti non voleva che fosse messo in bella mostra e in pubblico. Pur se doloroso, è forse un atto d’amore a uno dei più grandi artisti italiani. Messo in scena da uno dei più grandi critici musicali del Bel Paese. Ha ragione Assante, in conclusione. Non resta che ascoltare. Così voleva Battisti. Così ci dice di fare Assante. Ascoltiamo, dunque. Ascoltiamoli.
Articolo di Luca Cremonesi