“L’anello di Bindi” di Ferdinando Molteni (Vololibero edizioni, 2023) è un libro che mostra, in modo obiettivo e con riferimenti precisi, come l’accettazione dell’omosessualità nella canzone e nell’ambiente musicale italiano, su un percorso temporale di oltre sessanta anni, sia stata difficoltosa tutt’altro che facile e coerente. L’autore, oltre che giornalista professionista e saggista, è conferenziere e docente in varie Università anche straniere, ha lavorato per vari giornali, fra cui “La Stampa”, “Il Secolo XIX”, “Il Foglio”, “Diario”, e si occupa da tantissimi anni della canzone d’autore italiana e ha all’attivo molti altri libri.
Il libro porta come sottotitolo “Canzoni e cultura omosessuale in Italia dal 1960 a oggi) ed è diviso in due parti, oltre un’introduzione e un epilogo: nella prima si ripercorre la storia di Umberto Bindi, grande musicista, che a causa della propria omosessualità, peraltro all’epoca neanche dichiarata, fu emarginato e progressivamente escluso dal mondo musicale italiano; nella seconda si analizzano tutta una serie di casi di altri musicisti e del loro rapporto con l’omosessualità, ma anche del rapporto con il pubblico e con la musica in funzione di questa condizione.
Il titolo del libro, “L’anello di Bindi”, richiama al motivo scatenante dell’astio sottile, nascosto, ma proprio per questo più vergognoso, segnale dell’omosessualità di questo musicista: il 26 gennaio 1961 a Sanremo Umberto Bindi si esibisce con la canzone “Non mi dire chi sei”, portando all’anulare della mano destra un anello d’oro con un solitario, qualcosa abbastanza fuori delle righe per quell’epoca. Al Festival di quell’anno Bindi è l’esponente più prestigioso dei cantanti-autori e quindi dopo la serata il suo nome finisce per riempire molti giornali; a dispetto della bellezza del pezzo e dell’esecuzione perfetta iniziano le critiche gratuite, fra le quali quella di Gino Nebiolo, su “La Stampa”, che dirà come il pezzo sia solo uno zibaldone messo su con furbizia in occasione della manifestazione. Nei giorni successivi Bindi si esibisce ancora molto bene, ma la sua canzone arriverà comunque penultima nelle finaliste.
È da quel momento che Bindi ha la percezione che qualcosa non vada per il verso giusto: insinuazioni su qualche giornale di provincia, nessun passaggio televisivo o radio, la copertina de “La Domenica del Corriere” del 5 febbraio 1961, disegnata da Walter Molino e dedicata al Festival, che rappresentando tutti insieme vari protagonisti lo raffigura seduto al pianoforte, che si sorregge la testa con una mano, a significare una diversità rispetto a tutti gli altri artisti. Insomma, come qualcuno scriverà poi, Bindi aveva avuto l’ardire di portare la propria omosessualità, manifestata peraltro in modo delicato e signorile, nel tempio della canzonetta rassicurante e spesso sciocca; latore non gradito di una problematica esistenziale nella cattedrale del nulla, il luogo dove si valorizzava e si valorizza ogni idiozia musicale e non, prova ne siano gli ultimi eventi di Sanremo 2023. Eppure Bindi non aveva mai nascosto niente; nel 1958 aveva scritto la canzone “Il confine” e quell’anello lo portava da molto, era già visibile nella copertina a colori de “Il nostro concerto” (1960), ma da quel Festival di Sanremo per Bindi inizierà un calvario silenzioso, fino alla morte.
I vari tentativi di riportarsi alla ribalta, come il disco di duetti del 1985, con molte cantanti importanti (Loredana Bertè, Antonella Ruggiero, Anna Identici, Fiorella Mannoia, Ornella Vanoni, Celeste, Sonia Braga, Kapp y Nerey) e, malgrado la valorizzazione che alcune di loro (Bertè, Ruggiero, Mannoia, Vanoni) faranno dei pezzi, sarà un fallimento, complice l’uso di musica elettronica anziché dell’orchestra. Il disco diverrà l’ennesima delusione; fuori da ogni classifica, fuori dalle programmazioni radiofoniche. Bindi passerà altri anni fra concerti, vivendo delle royalties che però diventeranno sempre più ridotte, e qualche apparizione in televisione, pensando sempre a un rientro a Sanremo. Malgrado la sua partecipazione al Maurizio Costanzo show del 2 dicembre 1988, dove avrà modo di parlare della propria storia, scuotendo il pubblico, la sua canzone “C’è voluto tempo (per imparare a vivere da solo)” verrà esclusa da Adriano Aragozzini dal Festival di Sanremo, preferendole pezzi di inferiore valore artistico, come “Il babà è una cosa seria” di Marisa Laurito e “La fine del mondo” di Gigi Sabani.
Molto dopo Umberto Bindi scriverà insieme a Renato Zero “Letti”, destinata al festival di Sanremo del 1996 e dove sarà interpretata da Bindi stesso insieme ai New Trolls, una canzone che sembra essere una definitiva “confessione” di Bindi sul tema dell’omosessualità, ma proprio per questo anche una rinascita. La canzone arriverà ultima al Festival e con la sua signorilità Bindi, intervistato da un giornalista per sapere come l’ha presa, dirà che il successo dei pezzi lo si deve vedere sul lungo tragitto e non subito. Dal 1996 in poi l’oblio artistico, con Bindi che pian piano diventerà un pianista da piano bar, una sorta di sole che tramonta, con la bellezza di tutti i tramonti, ma anche l’inesorabilità della notte incombente. Poi arriveranno le difficoltà economiche e infine i problemi di salute.
Nel 2002, grazie all’interessamento di Maurizio Costanzo, Gino Paoli e qualche altro amico, Bindi riceverà i benefici della legge Bacchelli, ma sarà troppo tardi, sono le ultime settimane di vita per un uomo che aveva la Bentley con l’autista e il solitario al dito e che, per sua ammissione, aveva sperperato tutto facendo un sacco di debiti. Morirà il 23 maggio 2002 per una crisi cardiaca. Giampiero Boneschi, direttore d’orchestra, che spesso aveva lavorato con lui, lo ricorderà come una persona con una sensibilità straordinaria, una persona non comune, con una musicalità naturale e straordinaria.
Dopo esser partiti dalla storia di vita di questo grande musicista nella seconda parte del libro si vanno ad analizzare, incrociandole, le storie musicali e di vita di altri artisti, ottenendo alla fine un quadro abbastanza completo dell’evoluzione della visione dell’omosessualità nella canzone italiana fino ai giorni nostri. Si prendono anche ad esempio innumerevoli canzoni che a vario titolo, sono legate al tema dell’omosessualità, interpretate da artisti che in modo diverso, e con approcci differenti, hanno raccontato questo mondo; si passa da Ivan Cattaneo a Gian Pieretti, da Alfredo Cohen a Gianna Nannini, da Renato Zero a Lucio Dalla, e molti altri, fra cui Raffaella Carrà, assurta addirittura a icona gay e molti altri.
Alcuni capitoli risultano estremamente interessanti, come quello su Lucio Dalla. Intervistato nel 1979, si rifiuta educatamente di fare dichiarazioni sulla propria sessualità, e fa qualcosa di ben più importante: parla di coerenza con sé stessi, richiamando in questo modo la lezione del grande filosofo Johann Gottlieb Fichte.
Lucio Dalla parla di “organizzare” la propria sessualità per quello che sono le proprie richieste personali, in pratica afferma che le persone di cultura, in senso lato, devono semplicemente essere coerenti con il proprio sistema di valori, senza farsi classificare per il loro comportamento. Nelle espressioni che usa Dalla può apparire ingenuo, ma in realtà rifiuta le etichette; rifiuta quell’identità di genere che oggi invece spasmodicamente si cerca di trovare, senza avvedersi che può diventare una nuova etichetta. Pur rimanendo nell’ambiguità, ma privilegiando la coerenza, Dalla non usa mai questa ambiguità nella sua musica e nel suo modo di fare spettacolo, a differenza di quanto farà invece Renato Zero, sia pure in modo estremamente intelligente.
Sempre a proposito di Dalla nel libro si evidenziano i suoi collegamenti con Luigi Tenco; non solo sarà lui a trovare Tenco morto, ma successivamente dichiarerà che per lui Tenco “era molto importante” e inserirà nelle sue canzoni molti riferimenti a questo rapporto, il più evidente dei quali nel testo de “Il cielo”. Il capitolo su Dalla prosegue poi analizzando i rapporti con altri personaggi del mondo dello spettacolo, come quello con Ron e quello con Marco Alemanno.
Altro passaggio interessante il capitolo su Charles Aznavour che, pure eterosessuale, nel 1972, in una Francia che penalizza ancora fortemente l’omosessualità, interpreta volutamente una canzone come fosse lui il protagonista gay, divenendo quindi un pioniere su questo tema. Nello stesso capitolo si accenna all’asimmetria fra la situazione francese e quella italiana, con riferimento a Charles Trenet, una sorta di Bindi francese, che molto prima aveva vissuto una vicenda simile, ma aveva saputo in qualche modo resistere, così che la sua carriera non ne aveva risentito, pur essendo stato incarcerato nel 1963 per atti osceni, contro natura e con minori.
Emblematico nel capitolo “«Fuori!»” il riferimento all’articolo apparso il 15 aprile 1971 su “La Stampa” a firma di Andrea Romero, primario di neurologia dell’Ospedale Mauriziano di Torino in sintesi si dice che dall’omosessualità si può guarire con la psicanalisi; in realtà questo articolo riprendeva le idee contenute in un libro di Giacomo Dacquino (“Diario di un omosessuale”, Feltrinelli, 1971) psicanalista cattolico, di fatto la recensione di un libro abbastanza discutibile, capace di far nascere il Movimento gay lesbico bisessuale trans/gender in Italia.
Quante cose sono cambiate dal 1961 quando la presupposta, non dichiarata, ma educatamente palesata omosessualità valse a Bindi l’intera carriera, ad oggi? Al Festival di Sanremo 2023 l’omosessualità è stata utilizzata per motivi di spettacolarità da Rosa Chemical, al secolo Manuel Franco Roncati, che scesa (o sceso) dal palco, mima prima un rapporto sessuale con Fedez, pseudonimo di Federico Leonardo Lucia, poi lo porta sul palco e quindi lo bacia sulla bocca. Ci si dovrebbe ricordare che Fedez è lo stesso personaggio che nel 2011 se la prese con Tiziano Ferro e con la sua omosessualità: “Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing / ora so che ha mangiato più würstel che crauti…”; Ferro giustamente definirà questa cosa un atto di bullismo, e in effetti tale era, tipica di un personaggio che gioca sull’argomento facendo poi retromarcia per motivi di convenienza commerciale, come appunto all’ultimo Festival. Dunque dal 1961 a oggi l’atteggiamento verso l’omosessualità nel mondo musicale italiano è sicuramente cambiato, ma anziché spostarsi verso quella coerenza che Dalla avrebbe voluto e verso quel rispetto che tutti speriamo, ha preso la china pericolosa della spettacolarizzazione a oltranza, non per motivi di protesta ma di convenienza.
In definitiva un libro interessante, scorrevole, piacevole e ben scritto, che non scade dell’aneddotica di per sé, ma anzi utilizza in modo intelligente i fatti per ricostruire la situazione e arrivare a un’analisi approfondita. Alcuni punti non convincono del tutto, come il fatto che l’uso di alcune frasi nelle canzoni, come “Ti ho guardato” al posto di “Ti ho guardata” costituirebbe una chiara indicazione di un rapporto omosessuale fra i soggetti rammentati nella canzone; accordare il participio con il complemento oggetto, anche se raccomandato, non è obbligatorio dal punto di vista linguistico, anzi risulta desueto. Egualmente il fatto che “Attenti al lupo” possa essere effettivamente una metafora del rapporto fra Dalla e Ron.
Molto bello e nobile, il fatto che l’autore abbia avuto lo stimolo per scrivere il libro da un ricordo personale di Bindi: Molteni parla, a proposito del grande musicista, di “umiliazione delle serate nei locali estivi all’aperto, giganteschi, che ospitano, in un angolo, un vecchio arnese della canzone” e lascia quindi trasparire la voglia di restituire a Umberto Bindi ciò che in vita non ha avuto.
Un libro da leggere, rileggere, sul quale meditare.
Articolo di Sergio Bedessi