Un bel libro “Freewheelin’ in Rome. La vera storia della prima volta di Bob Dylan in Italia”, che merita tutti gli onori e i premi che sta ricevendo al giro di boa del primo anno di pubblicazione. Non è facile scrivere di Dylan, perché ci sono in commercio davvero molti titoli. Tutta la storia del Bardo di Duluth è stata analizzata. Restano le micro storie che, come sempre accade, si intrecciano con la macro storia. Ne chiariscono aspetti, ne danno nuove sfaccettature, arricchiscono. È il caso di questo volume scritto dall’ottimo giornalista Francesco Donadio (Edizioni Arcana, 15 euro), pubblicato nell’ottobre 2022. ‘Ottimo’ è riferito al fatto che Donadio non solo scrive in modo splendido, ma si muove con grande dimestichezza fra documenti, fonti scritte e orali. Insomma, un vero e proprio ginepraio. Non solo. La storia di Dylan, con lui ancora in vita, è la vicenda più complicata da ricostruire. Lui non parla, camuffa; è sfuggevole, si maschera, non si lascia prendere; ama mescolare le carte. Camaleontico e sotterraneo, senza possibilità di avere accesso diretto alla sua storia, pur essendo uno degli artisti più significativi del XX° e di ciò che, ad oggi, è il XXI° secolo. Tutto comunque è pubblico, si pensa solitamente. Tutto è sotto la luce del sole. Non è così. Questo libro lo dimostra.
Il motore di questa narrazione, un vero e proprio saggio, con struttura narrativa, a tinte gialle, è l’enigma – pensate voi – della prima e vera esibizione live di Dylan in Italia. Tutti lo sanno: era il 1984, a Verona. Questo è quanto consegnato alle cronache. Nell’anno, poi, del suo ritorno in Italia, con un bel mini tour estivo, buio e senza immagini concesse alla stampa e ai fan, viene normale chiedersi se un tempo fosse già così. Evidentemente sì, perché questa vicenda, e cioè il fatto che, negli anni ’60, Dylan sia stato a Roma (certo), e avrebbe suonato forse (da verificare) due canzoni (altra cosa da verificare), non è chiara. O meglio, a fans e giornalisti senza scrupoli basterebbero le poche fonti orali in circolazione. E la questione sarebbe risolta. Dylan era a Roma, è stato al Folkstudio, e ha suonato alcune canzoni. La chitarra gliela ha passata Toni Santagata, e tutto è andato come doveva andare. Ci sono alcune testimonianze. C’erano delle persone che hanno visto. Questione chiusa.
Eppure… Eppure il buon giornalista sa che servono varie fonti per affermare la certezza. Non bastano le fonti orali, servono dati oggettivi. Soprattutto se si ha in mano la storia di un personaggio chiave dell’epoca in cui si vive. Aver suonato per la prima volta in Italia negli anni ’60, o negli anni ’80, non è questione di lana caprina, e neppure di poco conto. L’Italia degli anni ’60 era un Paese appena uscito da una guerra distruttiva, da una dittatura, e si avviava agli albori del boom economico. Lo stesso Dylan lo scrive in una lettera: è un paese povero, dove con pochi soldi si può essere felici. Vero. O forse no? Di certo era così per un americano a Roma… Gli anni ’60 sono stati quelli della gioia e del beat, della spensieratezza; l’epoca nella quale anche un giovane menestrello all’inizio della sua carriera poteva passare inosservato.
Negli anni ’80’, invece, era tutt’altra storia. L’Italia era ricca; Dylan aveva già ispirato tutti i giganti della musica nostrana, e arrivare in quell’Italia, dopo gli anni del boom e quelli di Piombo, non era la stessa cosa di giungervi vent’anni prima. Era ormai l’epoca dell’edonismo, dello showbiz ormai avviato, e il concerto di Dylan era un evento, con tanto di conferenza stampa finale. Pensate voi, un’epoca incredibile. Qui sta l’epica della vicenda narrata a cavallo fra sogno e realtà. Dylan avrà davvero suonato quella sera, a Roma, al mitico Folkstudio? Oppure è solo una bella favola? O si tratta di un mito da perpetrare per aggiungere un tassello ad una storia che, da sempre, è tutto e il contrario di tutto? Chissà. Di certezze ce ne sono poche. Manca la prova incontrovertibile, quella che fa dire ad un giornalista “si stampi”.
Donadio intervista chiunque, e cioè chi c’è ancora e, soprattutto, è intervistabile. Certo, poter chiedere a Dylan sarebbe perfetto. Sempre che risponda. Sempre che ricordi, e sempre che voglia ricordare. Non dimentichiamoci che non si è presentato a ritirare il Nobel. Insomma, non deve essere un personaggio malleabile. Quindi, non resta che far torto o subirlo. Il che equivale a dire, scegliere da che parte stare. Nel mito, e cioè credere che un giovane Dylan, innamorato di Suze Rotolo, che si trovava i Italia, e poi deluso dalla stessa, menestrello in cerca d’autore, viaggiatore solitario, sognatore agli albori della sua gloriosa carriera, sia venuto in Italia e, da bravo, ammmmericano (detto all’Alberto Sordi) abbia suonato in uno dei tanti piccoli locali dei quali è costellata questa storia. Oppure nella realtà, e cioè nel fatto che non sapremo mai la verità, sempre che un giorno non spunti la famigerata prova, e cioè, fondamentalmente, una fotografia che ritrae Dylan al Folkstudio, con tanto di chitarra in mano. Basterà? Non saprei, per un giornalista in gamba come Donadio servirebbe anche la prova audio, che testimoni in modo certo che Dylan abbia suonato, e lo abbia fatto proprio quella sera a Roma, in quel locale. Solo un video amatoriale potrebbe, insomma, chiudere definitivamente la questione.
Ci state pensando anche voi vero? Un video, con Dylan? Se consideriamo che oggi, 2023, Dylan ha fatto blindare i cellulari duranti suoi concerti… figuriamoci negli anni ’60, quando per filmare serviva un’apparecchiatura pesante e ingombrante. Tutti dobbiamo rassegnarci e fare una scelta di campo. O con il mito, o con la realtà. Personalmente sto con il potere del mito, che Donadio condisce bene e con grande sapienza. Alla fine è questione di lana caprina, da tombaroli. Sarebbe invece più importante conoscere il perché Dylan sia arrivato in Italia solo negli anni’80. Per poi tornarci spesso. Certo, Donadio lo racconta, e lo dice: la questione delle proteste, le risse, il Vigorelli e così via. Tutto vero. Ma Dylan è Dylan, ed era, ed è, e resterà per sempre, la voce della rivoluzione. Non avrebbe avuto nulla da temere. Chissà, forse si tratta di un altro mito che Donadio potrebbe analizzare.
Io, nel mentre, vi consiglio di leggere questo bel volume, e di godervi la bella scrittura, e la capacità di essere giornalista vero. Così si scrive un saggio. Così si fa una vera inchiesta.
Articolo di Luca Cremonesi