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Gabriele Marangoni “Rock Keyboard (R)Evolution”

Interessante excursus dell’argomento partendo dall’uso del pianoforte

Il testo di Gabriele Marangoni, edito da Arcana (2022), è una breve storia del “tastierismo” rock in Italia e all’estero, dove con questo termine l’autore intende l’insieme della musica prodotta dagli strumenti a tastiera, chi la suona e gli strumenti con i quali viene suonata. Marangoni traccia un interessante excursus dell’argomento partendo dall’uso del pianoforte in quei generi musicali che possono essere considerati gli antenati del Rock, il Ragtime e il Boogie-woogie, con la progressiva sostituzione di questo strumento con strumenti musicali dapprima elettrici e poi elettronici, nel contempo facendo vedere, come rileva Donato Zoppo nella prefazione del libro, che la musica Rock è stata eccessivamente incentrata sulla figura del chitarrista o del cantante.

L’autore illustra, con riferimenti accurati, l’importanza quasi sempre non riconosciuta del ruolo del tastierista all’interno dei gruppi rock, dimostrando come questo ruolo sia stato al contrario basilare per lo sviluppo di questa tipologia di musica, con particolare riferimento alla fase del Progressive rock. Chiude il testo una piccola appendice con un’elencazione dei principali strumenti a tastiera elettrici ed elettronici dagli anni trenta a oggi.

L’inizio del libro (“Anni d’oro dal 1967 al 1977”) cattura subito l’interesse del lettore spiegando come sia nata la figura del tastierista rock, agli inizi solo pianista, come si legge nel capitolo “Great balls of fire – Dal ragtime al piano rock”, non essendo ancora comparsi gli strumenti prima elettrici e poi elettronici che modificheranno enormemente le modalità espressive. Agli albori del Rock tutto ruota intorno al pianoforte, strumento acustico che continua a permanere per un po’ sulla scena musicale di questo nuovo genere, grazie ad artisti come Jerry Lee Lewis e Little Richard, mentre compaiono le prime chitarre elettriche che successivamente toglieranno al pianoforte il ruolo principale. L’autore suggerisce che l’embrione del “tastierismo rock” possa essere individuato fra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, in particolare con il Boogie-woogie, genere che proviene dal Barrelhouse, e il Ragtime, entrambi sviluppati da musicisti di colore il cui riferimento più conosciuto è Scott Joplin.

Secondo Marangoni è Antoine “Fats” Domino il primo pianista della storia del Rock e il pezzo “The Fat Man” la prima hit rock’n roll in assoluto, grazie al ruolo che la mano sinistra ha nello sviluppo del pezzo, con un andamento a cavallo fra i tempi di 4/4 e 12/8. Nel capitolo “Great balls of fire – Dal ragtime al piano rock” l’autore azzarda che tanto la progressione armonica di tre accordi, quanto l’alternanza fra i modi maggiore e minore, ambedue frequenti nel Rock, siano dovute all’influenza della Country music. Sempre nello stesso capitolo si suggerisce che la progressiva diminuzione di importanza dei tastieristi agli occhi del pubblico sia stata dovuta anche al fatto di non potersi muovere liberamente sul palco, da cui una minore spettacolarità rispetto ad altri artisti come i cantanti e i chitarristi, sicuramente facilitati dal punto di vista scenico.

Il libro si muove quindi lungo una scala temporale che arriva fino ai giorni odierni mostrando come la figura del tastierista sia stata spesso bistrattata dagli stessi musicisti e, con l’avvento della musica elettronica, quasi considerata meno professionale; emblematico in questo senso il caso dei Queen che sui primi dischi apponevano il disclaimer “… nobody played synthesizer”, caso che provocò una sorta di vendetta da parte di Larry Fast, compositore e tastierista, che sui propri dischi apponeva un “… nobody played guitar”, a voler riconfermare invece l’importanza assoluta degli strumenti a tastiera nella produzione musicale. Del resto gli stessi Queen successivamente al 1984 utilizzeranno molto spesso il tastierista nascosto Philip “Spike” Edney, come al concerto di Wembley, senza per questo dare il giusto risalto all’importanza di questo componente nei loro pezzi.

L’autore mostra come anche nella stessa saggistica sul Rock i suonatori di strumenti a tastiera non abbiano mai avuto il dovuto risalto. Magari esaltati come virtuosi dello strumento (si pensi solo a Keith Emerson e Rick Wakeman), ma certo meno considerati rispetto ai chitarristi dello stesso genere, scordandosi che spesso i tastieristi sono stati addirittura i padrini se non il veicolo per il successo dei più grandi chitarristi: basti pensare al caso di Little Richard al pianoforte che nel 1964 assumerà, salvo licenziarlo di lì a poco, un giovane e allora sconosciuto chitarrista: Jimi Hendrix.

Nel capitolo “What I’d Say – Le prime tastiere elettroniche” si ripercorrono i passaggi, fondamentali per lo sviluppo successivo del Rock, relativi alla comparsa intorno alla metà del XX secolo delle prime alternative al pianoforte, necessarie sia per il problema delle difficoltà di spostamento di questo strumento, sia per avere nuove possibilità espressive. È nel 1951 che Jimmy Smith, musicista jazz, si avvicina all’organo Hammond (Hammond B3), peraltro inventato ben prima (1934) dall’ingegnere Laurens Hammond e già in uso negli anni ’40 anche se solo in contesti religiosi, rendendolo popolare grazie all’uso contemporaneo della pedaliera per il basso, della tastiera inferiore per gli accordi e di quella superiore per le improvvisazioni melodiche.

Nel 1965 viene immesso sul mercato il Fender Rhodes Piano, anche questo inventato molto prima (1949) dall’americano Harold Rhodes, al quale era venuta l’idea di un pianoforte elettrico che usava denti di metallo (tines); questa sonorità diverrà popolare pochi anni dopo, nel 1969, grazie al pezzo “Come Together” dei Beatles. Altri strumenti che nello stesso periodo introducono nel panorama musicale rock nuove sonorità, dopo l’Hammond e il Rhodes Piano (l’aggiunta del nome Fender fu dovuta all’acquisizione della Rhodes da parte della azienda Fender), sono il piano Wurlitzer e il Clavinet.

Nel primo caso la Wurlitzer, azienda di Cincinnati che produceva jukebox e organi da teatro, nel 1954 ha l’idea di un piano elettrico che, a differenza del Rhodes Piano, produce i suoni tramite ance (reeds); nel secondo caso, nel 1964, la tedesca Hohner, produttore di armoniche a bocca e poi di fisarmoniche, esce con il Clavinet, uno strumento a tastiera dove le corde sono percosse da martelletti in gomma. Infine, sempre in quegli anni, nel 1963 esce il Mellotron, strumento a tastiera capace, grazie a nastri preregistrati, di riprodurre le voci di altri strumenti, in qualche modo antesignano degli odierni sintetizzatori con suoni campionati.

L’autore del libro mostra come il vero potenziale di questi nuovi strumenti si cominci a intuire solamente dall’inizio degli anni ’60; in particolare l’uso dell’Hammond, con quel glissando effettuato con il palmo della mano che diverrà caratteristico di questo strumento, e dovuto essenzialmente a musicisti di estrazione R&B. Nel libro si fanno riferimenti interessanti anche ad altri strumenti, che pur più evoluti rispetto ai primi elettromeccanici, rimasero meno conosciuti, e paradossalmente con meno successo, pur avendo notevole importanza nelle fasi successive; fra questi organi come il Farfisa, il Vox e il Lowrey. In particolare il Vox, organo a transistor prodotto dall’omonima azienda inglese, alternativa economica e più maneggevole dell’organo Hammond (nel quale la produzione del suono era invece elettromeccanica, dovuta alla variazione di campo magnetico delle ruote foniche, tonewheels),  e che risulterà caratteristico delle band inglesi di allora, fra cui i Beatles.

Interessante il concetto che l’autore suggerisce al lettore: è quando il Rock passa dalla sfera corporale, confinata essenzialmente dal ballo e dallo stimolo fisico creato da questa musica, alla sfera mentale, passaggio incentivato dalle prime droghe sintetiche, che cercando di tradurre in musica nuove sensazioni per aprire quelle porte della percezione teorizzate da Aldous Huxley (cfr. The Doors of Perception, Aldous Huxley, Chatto & Windus, 1954) che sono necessarie nuove tavolozze timbriche.

Proprio per questo viene a crearsi un ambiente favorevole alla ricerca di nuove sonorità, e quindi alla ricerca su nuove strumentazioni, ma anche l’apertura a un diverso modo di intendere il tastierista: non più solo come un pianista o un organista che suona Rock, ma come un interprete meno settoriale, capace di fornire una nuova musicalità grazie alle nuove strumentazioni, mentre la maggioranza dei chitarristi del tempo dovrà continuare ad accontentarsi di distorsioni e di wah wah. Da notare che la psichedelia britannica, peculiare di quel periodo e certamente più sofisticata di quella americana, sarà l’antesignana del Progressive rock con tastieristi di riferimento come Richard Wright dei Pink Floyd e Mike Ratledge dei Soft Machine.

Nel capitolo “Switched-on Bach – La rivoluzione del sintetizzatore”, predominante per corposità rispetto agli altri del libro, l’autore procede a un’analisi serrata della nascita e dell’evoluzione dei sintetizzatori, a partire da quando Robert A. Moog nel 1964 presenta i suoi Voltage-Controlled Music Modules alla Annual Fall Convention of The Audio Engineering Society, senza neanche avere idea dell’impatto che le sue applicazioni avrebbero avuto nel mondo musicale.

L’idea di incrementare o decrementare la tensione elettrica per agire sul suono in realtà era molto precedente, ma è proprio l’intuizione di Moog, di usare come dispositivo di controllo una tradizionale tastiera cromatica del sistema temperato, in pratica di fornire un dispositivo di controllo da musicista e non da ingegnere, che decreterà il ruolo fondamentale del sintetizzatore. Successivamente si muoveranno sul mercato altre aziende, come EMS, ARP ed Eminent; quest’ultima l’azienda che farà arrivare sul mercato i primi sintetizzatori polifonici. Ed è l’uso di questi nuovi strumenti che fornirà ai tastieristi un motivo per tornare alla ribalta; i sintetizzatori infatti stimoleranno la fantasia dei tastieristi europei, la maggior parte dei quali gravita in quel periodo intorno a Londra: fra questi, solo per citare i più famosi, Keith Emerson, Rick Wakeman, Tony Banks, Richard Wright.

L’autore nota come prima dell’avvento dei sintetizzatori molti album inglesi, come per esempio “In The Court of the Crimson King” (1969) dei King Crimson e “Trespass” (1970) dei Genesis erano già densi di sonorità derivanti da strumenti come il Mellotron e altre tastiere elettromeccaniche, a dimostrazione che il passaggio sul fronte della ricerca delle nuove sonorità aveva costituito una sorta di viatico per i nuovi strumenti, insieme al fatto che sempre in quel periodo alcune band di estrazione beat, R&B e psichedelica (Moody Blues, Nice e Procol Harum) iniziano a fondere rock e musica classica dando luogo a quello che sarà il Progressive rock. Il campione di quel periodo abbastanza complesso è una figura che non ha eguali: Keith Emerson, vero paradigma dell’importanza del tastierista nei gruppi rock.

Emerson esordisce con i Nice (1968) gruppo senza chitarrista, una formula con evidenti radici nel jazz, poi va avanti con altri gruppi dove la figura del tastierista diviene centrale, come negli Emerson Lake & Palmer; si può dire che sia stato proprio Emerson a scrivere il manuale del tastierista rock, fatto di virtuosismi, influenze di ogni genere, timbriche e armonie intricate. Il libro riporta come la prima apparizione pubblica del Moog sia stata dovuta proprio a Emerson, che lo utilizzò al festival dell’Isola di Wight con gli ELP (1970).

L’autore illustra poi molto bene tanto le singolarità quanto l’importanza dei tastieristi di quel periodo: da Rick Wakeman, tastierista degli Yes che poi intraprenderà una carriera solista notevole, a Tony Banks dei Genesis che inserirà timbriche particolari, come quelle presenti nell’assolo di sintetizzatore in “The Cinema Show”, ricordando anche i meno conosciuti ma non certo meno importanti come Geoffrey Downes e Eddie Jobson, fino agli sconosciuti ma importantissimi, come Matthew Fisher dei Procol Harum, che trasformerà l’aria sulla quarta corda di Johann Sebastian Bach nel famosissimo “A whiter shade of pale”.

Marangoni cita poi molti altri tastieristi, come Tony Carey, Dave Stone, Don Airey, facendo vedere come questo mondo non sia, come spesso si è pensato, relegato semplicemente alla Gran Bretagna e agli USA, citando i casi dello svedese Jens Johansson e del polacco Józef Skrzek, tastierista progressive degli SBB. L’autore ci dice che l’Italia non è da meno, con vari esempi: primo fra tutti Gian Piero Reverberi, nome spesso associato a Gino Paoli, Luigi Tenco, Fabrizio De André, Mina, e Lucio Battisti, ma che ha notevole importanza nel Progressive rock, basti pensare alla collaborazione del musicista con i New Trolls.

Altri grandi tastieristi italiani del mondo rock citati nel testo sono Flavio Premoli (PFM), che userà magistralmente il Moog in “Impressioni di settembre”, i fratelli fondatori del Banco del Mutuo Soccorso Vittorio e Gianni Nocenzi, Patrizio Fariselli degli Area e, pur essendo transitati su generi più melodici, Roby Facchinetti dei Pooh e Beppe Carletti dei Nomadi. Interessante nel libro l’aver fatto notare il forte legame che si instaura fra sintetizzatori e cinema, rimarcando la figura di un grande artista, purtroppo meno famoso di quanto il suo valore meriterebbe: Claudio Simonetti, che con i Goblin scrive ed esegue la colonna sonora di Profondo Rosso, il più famoso film di Dario Argento e che certo non è da meno del più osannato famoso Mike Oldfield (Tubular Bells – 1973).

L’autore del libro fa comprendere al lettore un passaggio storico importante: mentre i tastieristi anni ‘70 risaltano spesso come mostri di tecnica, virtuosismo e anche esibizionismo, il tratto saliente di quelli degli anni ’80 è la creatività, grazie all’uso specifico degli strumenti elettronici, la creazione di strumenti innovativi, l’accoppiamento dei sintetizzatori con la voce. Esempi notevoli Howard Jones, che rappresenta il lato più impegnato e solistico del synth pop, oppure l’uso della Laser Harp da parte di Jean-Michel Jarre o, ancora, gli indovinati accoppiamenti con voci particolari come nel caso del pezzo “Sweet dreams” dovuto agli Eurythmics, al polistrumentista David Stewart e alla voce di Annie Lennox.

In definitiva il senso del libro sta tutto qua: dimostrare al lettore come il musicista spesso meno appariscente e meno conosciuto della maggior parte dei gruppi rock, il “tastierista”, è spesso l’elemento più importante del gruppo. Complessivamente il libro è ben congegnato, anche se sarebbe stato opportuno ampliare l’appendice che si ferma a troppo poche strumentazioni, non citando produttori importanti, quanto meno per le sonorità, come Kurzweil, e comunque rimanendo ferma agli anni novanta per quasi tutti i produttori, arrivando all’odierno solamente con riferimento a Korg, tralasciando così strumentazioni importanti di altre case, come Yamaha o Roland.

Inoltre sarebbe stato interessante approfondire, sia pure se in modo divulgativo, alcuni aspetti relativi alle modalità di produzione sonora dei vari tipi di sintetizzatori con riferimento alle modifiche del ruolo del tastierista, che da artista capace di padroneggiare tecniche musicali pianistiche od organistiche ha dovuto acquisire capacità che sono più vicine a quelle di un programmatore che di un musicista.

Articolo di Sergio Bedessi

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