Quello che sto per dirvi potrebbe turbare la vostra sensibilità. Uso questo noto adagio per introdurre la recensione ad “Atom Heart Mother – Il cuore nuovo dei Pink Floyd” di Giovanni Rossi, edito da Tsunami il 7 aprile 2023, riprendendolo dalle frasi che vengono poste in apertura di filmati con immagini forti. Il perché è presto detto: quello che andrò a scrivere potrebbe far del male a qualcuno. C’è stato un tempo, infatti, nel quale “Atom Heart Mother” non convinceva; un tempo nel quale questo album era pure considerato il canto del cigno dei Pink Floyd; un’epoca nella quale il lavoro era valutato, detto in modo schietto, brutto.
Caotico.
Confusionario.
Incompleto.
Povero.
Privo di idee.
Vi rendete conto? Eppure, leggendo il volume in questione, è questa la particolarità che emerge. Se pensiamo alla musica di oggi, o meglio, alla musica che si ascolta oggi, sembra impossibile che si sia arrivati a tali valutazioni. Quando “cuore, sole e amore” è la vetta della poesia, e gli accordi maggiori sono l’unica triade possibile, ascoltare “Atom Heart Mother” ha il valore di una tisana detox. Eppure….
Eppure un tempo, un’epoca nella quale si era abituati bene, e nel caso dei Pink Floyd vuol dire i primi lavori sotto la guida di Syd Barrett, questo disco poteva davvero apparire come minoritario. Rossi, che ha già scritto un bel volume su “Animals”, evidentemente ama le svolte, e non i vertici dei Nostri. Condivido, perché i due dischi che prende in considerazione sono fra i miei preferiti – suggerirei anche un lavoro simile su “The Final Cut”, un album avvolto nel mistero totale -, e poi, in fin dei conti, dei grandi capolavori tutto sappiamo, più o meno, comprese le iniziative di varie riletture (ma chi elogia il lavoro di Waters, ha mai sentito la rilettura che ne hanno fatto i Flaming Lips & Stardeath & White Dwarfs?). Quindi meglio concentrarsi sui margini della storia.
Il libro di Rossi ha un solo difetto, si dilunga troppo nei primi capitoli con ciò che serve per inquadrare il contesto, a discapito delle pagine che si vorrebbero leggere in questi casi, e cioè come è nato davvero l’album. Su questa parte, purtroppo, Rossi ci mette impegno, ma molte cose sono già note. Il pregio è di averle raccolte qui tutte insieme, e non disseminate in giro nel web. Ed è cosa buona e giusta. Ma si vorrebbe di più.
In primis, è importante la ricostruzione che Rossi fa della vicenda che porta alla nascita di quella che, solo alla fine, sarà intitolata “Atom Heart Mother”, la suite cioè che occupa il lato A dell’album originale. Un lungo pezzo di 23.38 minuti, che ha avuto una gestazione molto particolare. Nasce dal vivo, come molte delle canzoni dei Pink Floyd per un certo periodo della loro produzione. Il tutto, oggi, lo si può trovare nel materiale che è stato pubblicato nella Summa “The Early Years 1965-1972”. Nel “Volume 4: 1970: Devi/ation” si può ascoltare quello che Rossi racconta: la gestazione della colonna sonora “Zabriskie Point” (ecco, un altro spunto interessante per un nuovo libro, perché Rossi ci mette davvero molte pulci nelle orecchie, che meriterebbero di essere approfondite e sviscerate bene); le prime esecuzioni live di “The Amazing Pudding”, il brano che poi diventerà la famosa suite. Oltre a questo cofanetto, basta cercare su YouTube per sentire molte versioni del brano originario. Senza dimenticare i molti bootleg, tanti di ottima fattura.
Certo, Rossi spiega bene che si tratta di una versione grezza, che sembra non stare insieme, che genera problemi di ogni sorta, fino all’arrivo di Ron Geesin che, da quanto emerge, sarebbe il salvatore di capra e cavoli. Personalmente, non credo molto alla teoria che nel blocco di marmo sia già contenuta l’opera d’arte. Come non concordo affatto con la teoria che, data una penna in mano a una scimmia, basti aspettare 1500 anni per avere l’Amleto. Credo, invece, nell’originalità e nell’unicità dell’artista. Quindi, che Ron Geesin sia stato importate è fuori dubbio; ma la il lavoro lo hanno fatto i Pink Floyd. Senza “The Amazing Pudding” non ci sarebbe stato nulla. Tanto meno i temi di Ron Geesin. Ecco perché avrei dedicato più spazio a questa parte e, da quello che si intuisce, al legame fra le sessioni del disco e il lavoro fatto in studio a Roma, per Antonioni. Forse – ma qui solo uno specialista come Rossi può confermare o smentire – un legame forte c’è, ed è ben più importante di quanto si creda. Dalla lettura del testo, invece, emerge che “The Amazing Pudding” è sì importante, ma alla fine dei conti è Ron Geesin che fa la differenza.
Come d’altronde la copertina, con la famigerata Frisona. Tutto è assolutamente vero, ma un testo ci deve dare sempre quel quid in più che ne giustifichi la lettura. Per questo trovo davvero molto interessante la parte centrale del volume, dove Rossi mette le mani nel processo creativo, pur se non ne va a fondo, perché predilige l’aspetto narrativo a quello di ricerca. Scelte, senza dubbio legittime, ma dopo aver letto il volume dedicato ad “Animals”, sinceramente avevo molte aspettative.
Non si tratta comunque di un libro che delude, sia chiaro. La storia di quegli anni è ricca. Siamo agli albori della grande carriera dei Floyd. Sono anni fluidi, e la band sta emergendo. “Atom Heart Mother” cristallizza una carriera che, da lì in poi, decollerà per non atterrare mai più (in tutte le sue evoluzioni). Ecco perché stupisce – ed è la cosa davvero più interessante del libro – venire a conoscenza del fatto che questo album abbia, all’epoca, suscitato perplessità, dubbi e, soprattutto, critiche. Con il senno di poi, spero che qualcuno si sia mangiato le mani, come accadde a Gide nei confronti di Proust, al quale cioè Gide bocciò il primo volume della Recherche perché, più o meno testuale, troppo lungo e noioso. Qui è la stessa cosa: avercene oggi di album così problematici.
Ultima nota positiva, che dimostra come Rossi i numeri per scrivere un testo più approfondito sul tema li abbia, è la spiegazione tecnica della registrazione. Che si trattasse di sovra incisioni era ben chiaro ed evidente. Che, però, ci fossero stati limiti oggettivi – rumori di sottofondo – non era così evidente. Ed ecco perché, nonostante le varie edizioni (e le ho tutte), e i vari remaster (pure quelli), il suono non diventa mai nitido e pulito. Forse la registrazione migliore la si trova nel già citato mega cofanetto, dove abbiamo l’esecuzione del Live in Montreux, del 21 Novembre 1970.
Nell’insieme, è un libro per chi non conosce bene l’opera in questione, ed è un buon modo per avvicinarsi al suo ascolto. Ecco, detto in altri termini, è una guida a un primo contatto con questa opera, così ricca e complessa e, allo stesso tempo, meravigliosa. Al di là della mucca, e della vicenda con Stanley Kubrick, che ha dell’incredibile… cosa intendo? Leggete il volume, e lo scoprirete…
Articolo di Luca Cremonesi