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James L. Dickerson “Elvis e il Colonnello”

Scopriamo il desiderio di Elvis di fare tour, di fare concerti, di viaggiare con la sua musica e di far sognare i molti fan

Ha davvero dell’incredibile leggere questa storia. È un libro che lascia a bocca aperta. Il perché è presto detto: Elvis non ha mai fatto un tour in Europa, e neppure in giro per il mondo. Basta questo, ma ci possiamo aggiungere un’altra questione: come mai il Re del Rock non è mai uscito dagli Usa? Gli esperti lo sanno bene, dato che ormai Elvis è oggetto di culto, con tanto di religione annessa, e avvistamenti vari. Se però restiamo ai fatti, e mettiamo da parte la leggenda, tutto ruota attorno alla figura di Tom Parker, il mitico Colonnello, e cioè l’agente, il manager, il responsabile, la balia, il deus ex machina del fenomeno Elvis.

Nella nostra epoca, figlia dello showbiz, quella raccontata da James L. Dickerson in “Elvis e il Colonnello – L’incredibile vita di Tom Parker Lo spregiudicato manager di Elvis Presley” (edizioni BUR, traduzione di Sara A. Benatti) è una vicenda davvero incredibile. Oggi nessuno firmerebbe mai i contratti che ha firmato Elvis all’epoca. Nessuno concederebbe quello che è stato concesso, da parte di Elvis, a Parker. E oggi, allo stesso tempo, stanti così le cose, e cioè come vengono raccontate e descritte nel libro in questione, Parker avrebbe guadagnato il triplo, e solo con i diritti d’immagine.

Al netto di questo, però, nel libro serpeggia molta amarezza. Quella per un grande artista, forse uno dei più grandi, che è stato sfruttato al 35%, forse 40%, delle sue reali possibilità. O meglio, quando si decideva di sfruttarlo, lo si faceva al 200%. In questo modo si è portato un uomo all’autodistruzione. Quando, invece, non serviva, allora lo si lasciava a riposo. Che spreco se si pensa al talento, puro, di un artista come Elvis.

E così leggiamo del desiderio di Elvis di fare tour, di fare concerti, di viaggiare con la sua musica e di far sognare i molti fan. Invece i soldi di Parker erano molto più importanti, soprattutto se poi dovevano essere spesi nel gioco. In futilità. Il talento di Elvis, dunque, sprecato per far posto, nei tavoli dei casinò di Las Vegas, a questo Parker, personaggio del quale, ancora oggi, poco si conosce. Immigrato, Parker compare all’improvviso negli Usa e diventa poco più che un giostraio. Traffica, si muove in un mondo non regolamentato da niente e da nessuno, e presto passa dal vendere zucchero filato e biglietti per spettacoli con fenomeni da baraccone, a gestire grandi artisti. Nel suo raggio d’azione entra il giovane Elvis.

Il merito di Parker? Averne visto la potenzialità da un punto di vista solo economico. Forse di musica Parker sapeva poco, ma conosceva bene i meccanismi della vendita, del commercio e di quelle che oggi si chiamano le dinamiche della psicologia delle vendite. Capisce che il Rock ’n roll è una bestia, parafrasando il nostro Piero Pelù, e che Elvis è il re di questa foresta incantata che è la neonata musica rock. I fenomeni d’isteria collettiva sono ancora lontani; i Beatles devono ancora arrivare, i grandi raduni pure, gli eccessi dei costi dei biglietti anche, come d’altronde le pre-sale dei siti online. Tutto questo delirio, al quale siamo abituati, non esisteva. Elvis è agli albori di questo mondo futuro a venire. Ne diventa il precursore. E Parker, nato nei luna park, figlio di un american dream datato, pensa che le uova d’oro siano nel cinema.  E non del tutto nella musica. E così, incarnando sia il Gatto che la Volpe, chiede ad Elvis, moderno Pinocchio, di seppellire nella celluloide i suoi zecchini.

Il Re del Rock diventa la star di una serie infinta di filmetti cantati che si sfornano senza sosta. Elvis incassa, ma Parker ancora di più. Ottiene così il miglior risultato possibile, a quell’epoca, senza muoversi, senza spese e senza sfondare in un mondo che, da lì a poco, renderà casse di soldi a gruppi quali i Beatles, i Rolling Stones e, soprattutto, i Led Zeppelin di Peter Grant. Lui sì che aveva capito e sapeva cogliere al volo le praterie che ci sono in questa nuova terra promessa, quella della musica. Parker invece resta ancorato al passato, che è una terra straniera (gli Usa appunto). Il cinema consente massima visibilità, fa sognare (senza dubbio) e rende inavvicinabile la star (e, dunque, oggetto di desiderio… è sempre stato, e ancora così, il sogno di Hollywood), che è chiamata solo a dedicarsi, a tempo pieno, a quel mondo.

Ne deriva che Elvis suona poco, molto meno di quello che avrebbe potuto. Uno dei suoi più grandi successi è una trasmissione televisiva, quella del suo ritorno nel 1968, e non di certo una tournée. Quella avrebbe implicato costi, impianti, palco, personale, musicisti. Tutti elementi che avrebbero messo in difficoltà le casse non certo di Elvis, ma quelle di Parker. D’altronde, è un uomo, quest’ultimo, che si metterà a vendere t-shirt mentre la gente attende il funerale del Re. È un uomo che non si spaventa a licenziare i musicisti che hanno creato il mito. Non ha paura di mettere a pane e acqua coloro i quali volevano lavorare con Elvis, e coloro con i quali Elvis voleva collaborare. Allo stesso tempo, è l’uomo che preferisce fare esibire Elvis nei casinò piuttosto che davanti al Colosseo, o all’Arena di Verona, o davanti a Versailles e così via. Ci pensate? Provate ad immaginare, oggi, una situazione del genere. Fatelo con qualsiasi vostro idolo. Sarebbe impensabile. Eppure è andata così.

Il libro, dunque, lascia molto amaro in bocca, da questo punto di vista. Sia chiaro, solo per il contenuto di questa storia, che ha visto un talento letteralmente sprecato perché messo nelle mani avide di un faccendiere, che guardava solo alle proprie possibilità di sperperare denaro, non suo possibilmente. Ciò che emerge dalla lettura di questo libro, ben documentato (la parte finale, ricca di note, è davvero molto interessante), e che denota una ricostruzione non facile dei fatti (Parker non lasciava molte tracce), è che Parker non aveva nessuna consapevolezza del valore artistico di Elvis. Per lui, il Re del Rock era solo l’ennesimo fenomeno da baraccone da vendere al pubblico, grazie al mezzo che richiedesse meno fatica e, allo stesso tempo, garantisse massimi guadagni.

Non va poi dimenticato, ma questa è tutt’altra storia, che è sempre comunque colpevole chi tiene aperto il sacco, e chi ci mette dentro il gatto. Fuor di metafora, a Elvis, e alla sua famiglia, tutto quello che succedeva, e allo stesso tempo non accadeva (e cioè i concerti limitati all’osso), andava bene così. Credere alla favola che Elvis avesse paura del Colonnello è difficile. Il potere che aveva Elvis (ne era consapevole?) lo avrebbe potuto portare ovunque. E una sua parola avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. Invece, ed è quanto traspare dal lungo capitolo centrale – quello dedicato all’apice della carriera di Elvis – il cantante sembra del tutto complice, anche se un po’ inconsapevole, del suo mentore e manager. O meglio, forse non sapeva tutto. Forse non gli interessava. O, forse, gli bastava comunque quello che aveva: fama, gloria e fan comunque deliranti. Però è un peccato, davvero. Perché se Elvis avesse potuto lavorare, e fosse stato guidato da qualcuno in grado di capire un poco d’arte e di musica, di certo avremmo molto più materiale di quello che ognuno di noi ha nella sua collezioni di dischi.

Parker, si legge nel finale, se ne va nel 1997, e, in piena sintonia con il mondo che circonda Elvis, pare che si sia portato via dei segreti (forse quello che Elvis era vivo?) e, allo stesso tempo, che ne abbia lasciati da rilevare (forse che Elvis era stato davvero vivo?). Una bella lettura, densa, ricca di dettagli per chi ama la musica e il mondo di the King of the Rock’n’Roll.

Articolo di Luca Cremonesi

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