Finalmente un libro che non si può leggere. Era ora. E averlo in mano, vuol dire accettare di tornare là dove l’arte era voglia di osare, capacità di andare oltre, volontà di potenza di affermare una differenza. Quindi, negli anni ’70. Un decennio dove non contava la bella presenza, l’essere bravi bambini pronti ad andare a scuola, sul modello di Pinocchio (la lezione di Carmelo Bene era attuale…), ma fare la differenza, nell’etimo, producendo cioè quello che Benjamin chiamava, leggermente ritoccato, l’apparire incontenibile di una lontananza. O meglio ancora, l’essere sensibile di un’idea. Sia chiaro, il libro in questione si legge. Ma siamo chiamati a farlo in maniera diversa, e questo è già un atto rivoluzionario, per l’epoca composta e caratterizzata da un’arte Conforme a chi? Conforme a cosa? Conforme a quale strana cosa?… Cantava qualcuno.
“Un anno, a partire da lunedì”, Shake edizioni, scritto da John Cage, e tradotto e curato, con molta sapienza, da Giancarlo Carlotti ed Ermanno “Gomma” Guarneri, uscito il 20 ottobre (e andato subito in ristampa), è prima di tutto un oggetto artistico. Basta sfogliarlo, come hanno scritto in tanti, per rendersene conto. Vero. Poi però serve leggerlo, perché se questo volume, uscito nel 1979, appare oggi così strano, è perché abbiamo dimenticato e scordato (mai termine fu più appropriato, parlando di Cage) la lezione del musicista e compositore statunitense.
In un mondo capace diverso, e cioè non dominato dal mercato dell’arte, questi contenuti oggi sarebbero ampiamente superati. Invece risultano essere così attuali perché la scelta è stata quella, nella musica e nel suono (oggetto del volume), ma nell’arte ingenerale, di omologare. Peggio ancora, di rendere l’omologazione l’unica forma d’arte riconosciuta. Un disco deve avere canzoni; una canzone deve durare fra i 3 e i 4 minuti; servono singoli da far ascoltare; l’importante è non deludere il pubblico, che ha sempre ragione. Eppure è cosa nota: il popolo sceglie sempre Barabba, lo dovremmo aver capito.
Ed ecco alcune parole di Cage, sulle quali riflettere: La musica europea ha commesso un errore fondamentale: la separazione fra l’esecuzione e l’ascolto delle performance. Leggi: talent e affini. E dato che è arte, che arte è? Cambia la tua mente oppure cambia il tuo apparecchio televisivo. Vedi quanto sopra, ma anche il turismo dell’arte, come il business dei concerti, dei grandi eventi, delle fiere o mostre, dove si deve andare, come in Tv, per difendere l’interesse… delle fiere e delle Tv.
Non sappiamo più che farcene del funzionale, del bello, o di sapere se qualcosa è vero o meno. Abbiamo solo tempo per chiacchierare. La filosofia del chiacchiericcio, anche Gilles Deleuze l’aveva rigettata, e non a caso era un ascoltatore di Cage. Parlare, parlare, parlare, senza ascoltare, niente e nessuno, se non se stessi. Arte da social, ormai. Ovviamente possiamo infilarci in un angolino a parlare da soli. Lo si legge a pagina 71, ed è stato scritto da Cage negli anni ’70. Incredibile vero? Non è questione di essere profeti, ma di capire la propria epoca, e quelle a venire.
Siamo in grado di vedere in una luce diversa quello che gli altri fanno, senza che facciamo nulla. Voglio dire che oggi i musicisti compongono influenzati dal modo in cui noi ascoltiamo e apprezziamo la musica di Ives, più di quanto la musica di Ives ci influenzi a fare quello che facciamo, pag. 43. Vado a braccio: si pensi a quanto inutile parlare della svolta di Battisti, anziché ascoltare con attenzione capolavori quali “E” (Hegel) e C.S.A.R; l’inizio della svolta di Battiato e Sgalambro, e cioè “L’ombrello e la macchina da cucire”; per arrivare a Morgan, del quale siamo capaci di dimenticare tutto, solo per alcune piazzate in Tv. Allora è giusto così: che si dia al pubblico quello che vuole il pubblico stesso, se è questo è l’unico criterio che comanda, e detta il ritmo della nostra capacità di godere dell’esperienza artistica.
Per fare sintesi di un volume che, volutamente sfugge di continuo, e comporta e vuole un modo di lettura diverso, che non sia dall’inizio alla fine, su un divano, con coperta e tisana, o dopo il tempo, ormai morto, del lavoro, direi di prendere in esame le frasi che tanti hanno citato, e che si trovano nella prima pagina (che sia un caso…mah!): Ci stiamo liberando della proprietà, sostituendola con l’uso, testo del 1966 (pensate voi), che richiama, in estrema sintesi, “Comune” di Hardt e Negri; e Oggi la nostra poesia è capire che non possediamo nulla perché, aggiungo io, con un corto circuito fra Carmelo Bene, Kafka e il dittico Deleuze e Guattari, non si sfugge alla macchina.
Siamo parte del mercato, e criticare con i buoni sentimenti non ha mai aiutato l’arte, anzi. Non è un caso che Cage dedichi, in questo volume, pagine struggenti, talmente cariche di pensiero, da richiedere ore (si, ore), di riflessione, a Marcel Duchamp. La rivoluzione vera l’ha iniziata lui. Infatti, diciamola così, Duchamp è grande, e Cage è uno dei sui profeti.
Ed ecco la soluzione, che va ben oltre il mercato, i talent, la musica come oggetto di consumo, o come forma d’arte che serve più a noi, che a se stessa, e cioè in quanto arte. Anche in questo caso Cage lo scrive in varie parti del volume, anche poco dopo le frasi citate e abusate: Il motivo per cui sono sempre meno interessato alla musica non è solo perché trovo più utili in senso estetico i rumori e i suoni ambientali rispetto ai suoni prodotti dalle culture musicali del mondo, ma perché, se andiamo al sodo, un compositore è semplicemente uno che dice agli altri cosa fare. Non credo serva aggiungere altro. Semmai possiamo cambiare la parola compositore con produttore, e siamo nel 2023, anziché nel 1979. Fa differenza? Non credo.
Vale la pena chiudere così.
Cage fa sua la nozione d’arte che, ad esempio, ha coniato Maurice Merleau-Ponty, e cioè – cito a memoria, e non con “Il visibile e l’invisibile” sotto mano – che le idee estetiche hanno come caratteristica quella di essere sensibili, di avere carne, pelle e corpo. Dunque, a differenze delle altre idee, di farsi vedere, di mostrarsi. Come accadde per Narciso. Ciò che conta, nell’arte, è non cadere nel lago, dentro cioè al proprio riflesso, per annegarci. Un conto è il gusto, altra questione è l’arte, e cioè ciò che esprime un mondo. La funzione dell’Arte è imitare la Natura – e vi chiedo attenzione a queste parole – nelle sue modalità operative. La nostra comprensione delle “sue modalità operative” cambia a seconda dei progressi in campo scientifico. […] Ogni punto della tela può essere usato per avviare, proseguire e concludere la nostra osservazione.
Proviamo ad applicare questa frase alla musica, a quello che ascoltiamo oggi. C’è dà farsi violenza, lo so bene. Ma poi questo pensiero si apre, e tutto diventa chiaro. Cage ce lo dice così: Il ritardo della musica rispetto alle arti appena citate è la sua fortuna. Essa può dedurre dalle loro esperienze e combinarle con le esperienze necessariamente diverse che nascono dalla sua natura speciale. In parole povere, per capirci, la musica è sempre ricerca sonora. Il suono, poi, è formato da tutto ciò che ci circonda, rumore compreso. Ciò che non conta, invece, è il chiacchiericcio, il pettegolezzo, perché non sono neppure rumore, ma solo disturbo. Per questo – interpreto le parole dell’epoca di Cage – abbiamo sempre più bisogno, oggi, per produttori e case discografiche, oltre alle radio di flusso, di una musica che dia sempre tranquillità. Nella forma, nei suoni e nelle parole. Come per i libri: serve poterli leggere dall’inizio alla fine.
Cage, in queste pagine, ci re-insegna un senso della musica, del suono, dell’arte in generale, e del libro, diverso. Ricordo, così, a titolo di paragone, che Cage in Italia partecipò al Rischiatutto, con un incredulo Mike Bongiorno che lo derideva. Abbiamo sempre la verità che ci meritiamo, scrisse Deleuze. Soprattutto in un Paese senza cultura musicale. Un libro non facile. Una sfida per il pensiero che arriva, pensate un po’, non dal presente sonnolente e bolso, ma direttamente dal passato prossimo.
Davvero incredibile.
Articolo di Luca Cremonesi