Il legame fra musica e riviste era, e per certi versa resta ancora oggi, vitale. I social network hanno sicuramente cambiato il modo di fare anche questa esperienza. Le nuove tecnologie, e i suoi derivati, sono state capaci, cioè, di ridurre le distanze, hanno fatto dialogare artisti e pubblico in modo diretto, e hanno quasi azzerato quello spazio che, un tempo, qualcuno chiamò fra palco e realtà. I social, inoltre, anno anche permesso una conoscenza diretta del mondo musicale. Si entra nei camerini, dietro le quinte, negli studi, nelle stanze dove si crea e si compone. Insomma, c’è di fatto una vita musicale in diretta che, un tempo, era appannaggio solo ed esclusivamente di poche persone, o degli addetti ai lavori. Questo consentiva di alimentare un immaginario generato e sostenuto, appunto, dalla distanza, uno spazio che le riviste colmavano con qualche immagine e con la potenza della parola.
Tuttavia, non dobbiamo scordare quello che sosteneva Jean Luc Godard, a proposito del cinema, l’arte che crea un immaginario per eccellenza: è questione di riuscire a produrre non un’immagine giusta, ma giusto un’immagine. La traduzione? Semplice, ogni narrazione è per sua definizione un’immagine, e cioè un taglio interpretativo. Ecco perché le riviste musicali sono sempre state così importanti, perché non solo tracciano solchi e direzioni, ma alimentano, con il loro taglio, un immaginario. Motivo per il quale essere neutri è difficile. Allo stesso tempo, fare giusto un’immagine è difficilissimo. Insomma, una rivista musicale non si inventa in un pomeriggio. Non basta entrare nei dietro alle quinte per avere la realtà vera della musica. Perché anche questa narrazione, all’apparenza diretta, figlia dell’esperienza social, ci mostra come musica e musicisti, autori e autrici, e tutto lo showbiz delle sette note che vi gira attorno, non sia altro che una costruzione.
Morale della favola: mai come oggi, in mezzo a mille difficoltà tipiche della carta stampata, testate, giornalisti, critici e chiunque sappia tracciare una rotta nel mare infinito della comunicazione, sia prezioso. Anche quando, come nel caso del libro del quale andremo a scrivere, si tratta di una miscellanea di una rivista che ha fatto davvero un pezzo di storia della musica e del suo immaginario. Si tratta di “Puncture”, fanzine che seppe raccontare la scena rock indipendente che si era sviluppata fra gli anni ’80 e ’90, soprattutto nel mondo di lingua inglese, e di matrice prevalentemente statunitense. Musica, certo, ma anche tutto quello che vi girava attorno. “Puncture” era quel tipo di rivista, e ne restano ora davvero poche, che erano fondamentali come l’ossigeno nell’aria per far conoscere artisti, libri, album, suoni, sonorità, e tutto quanto girava attorno a quel mondo. Perché la musica è un’arte che, come tutte le arti, pesca a piene mani da quello che accade nel mondo. Anzi, senza un contatto diretto con tutto quanto succede nel globo, non potrebbe neppure esistere. O meglio, dato che nei tempi attuali ne siamo testimoni, possiamo affermare che l’arte (e la musica) esisterebbe solo come semplice oggetto di consumo. Ed è un po’ quello che sta accadendo infatti…
E così “È tempo di inventare – Cronache dalla rivoluzione Indie Rock” (BigSuR), è un’antologia preziosa. Curato da Katherine Spielmann, con l’ausilio di Steve Connell, Jay Ruttenberg e J. Neo Marvin, il volume è un condensato di ottima musica raccontata, sapientemente tradotto da Alessandro Besselva Averame, Antonio De Sortis, Assunta Martinese, Anna Mioni, Francesca Pe’, Michele Piumini, Milena Sanfilippo e Chiara Veltri. Il volume, in formato A4, ripropone una serie di pezzi che uscirono durante l’avventura della pubblicazione di “Puncture”. Piccole monografie, recensioni (bellissime quelle dedicate a PJ Harvey), profili, ritratti, e anche interviste a una scena musicale variegata e variopinta che rappresentava un momento musicale felice, quello post anni ’70 e che cercava, negli ’80 e ’90, non tanto di evitare lo showbiz, ma di smarcarsi da quel mondo musicale commerciale che iniziava ad essere sempre più dominante.
La scelta, dunque, di Spielmann, e di chi con lei ha composto questo volume, serve per fornire al lettore una sintesi variegata del lavoro fatto all’epoca, con Patty Stirling, per comporre la rivista, ma anche per far conoscere gli albori di alcuni artisti, e gli inizi di grandi nomi come Nick Cave, PJ Harvey, Pixes, Jeff Bucley, che sarebbero diventati fari di questa espressione musicale. Si tratta di pagine belle e intense, per citarne alcune fra quelle presenti in questa ricca antologia. Poi ci sono altri nomi, altri ritratti e altri recensioni, che servono a far comprendere il lavoro in essere a quell’epoca. E così si va da Cat Power a Will Oldham, da Meet Puppets a Lester Bangs, da Will Oldham a Bill Callahan (Smog). Insomma, c’è davvero da divertirsi nello sfogliare prima, e poi nel leggere con attenzione queste 230 ricche pagine che raccontano quanto di buono e di meglio girava negli Usa (e non solo) in quegli anni. E, come già detto, ne emerge anche un immaginario solido fatto di fumo, scantinati, locali, suoni duri e non raffinati, anime salve e anime dannate, musica per tanti e musica per pochi. Il tutto nell’insegna di ciò che non doveva essere scontato.
“Puncture”, nata nel 1982, è uscita per la prima volta nel novembre di quell’anno, di fatto in formato e con grafica ruspante, per non dire fatta in casa, e voleva già da subito fare la differenza. Il suo obiettivo era raccontare un mondo che restava lontano dai riflettori, e da quel business che avrebbe poi decretato la nascita se non di un genere, quanto meno di un filone, quello cioè della musica commerciale, del suono morbido ed edulcorato.
Baricco, ne “I Barbari”, saggio da riscoprire, spiega il concetto in modo semplice. La musica che stava diventando dominante era come il vino della California che descrive lo scrittore piemontese. E cioè un vino neutro, buono per tutte le stagioni, adatto per essere sorseggiato nei bar. Il vino americano, insomma. Un prodotto sostanzialmente anonimo, senza dubbio buono, e uguale dall’Alpi alle Piramidi, per citare il poeta, proprio perché di fatto innocuo. Ecco, la musica che stava diventando dominante in quegli anni, e che veniva fagocitata dai grandi gruppi, e dalle case discografiche, andava in quella direzione, aveva quelle caratteristiche. E i risultati finali sono sotto gli occhi, e nelle orecchie, di tutti.
In “Puncture”, invece, si raccontava e si parlava d’altro. Di musica altra. Di suoni differenti. Di esperienze non innocue. Non era solo questione, si legge nella ricca prefazione, di parlare e trattare di ciò che ci piaceva. Già questo sarebbe comunque un sacrosanto principio capace di reggere e tenere in piedi riviste, radio, network e tv. Quello che la redazione sapeva esprimere era la volontà di dare spazio a ciò che era ignorato e, però, fermentava, fremeva, bussava alle porte. Il tutto sostenuto e sorretto da una buona capacità di scrittura, cosa che fa da sempre, la differenza. In totale furono 47 numeri che seppero, dal 1982 al 2000, fare davvero la differenza, partendo dalle esperienze locali con i primi esemplari, per arrivare poi al nazionale e, ben presto, lo testimonia questo bel volume, superare i confini degli Stati Uniti e diventare faro nella notte dove le vacche erano ormai tutte nere. Musica, certo, ma anche mondo musicale a tutto tondo, come dimostrano le molte interviste, le recensioni, i racconti, e i pezzi alla new journalism che compongono questa antologia.
Volevamo anche occuparci di altri argomenti oltre alla musica si legge nella prefazione. E così trovavano spazio rubriche, pezzi che analizzavano gruppuscoli di artisti (qui si trovano articoli come “Le donne del rock – Una lettera aperta”, “Sesso droga e rock’n roll” – pezzo magnifico davvero -, “Indie rock. Razza in estinzione o argomento chiuso”, per fare degli esempi), o che entravano direttamente nella vita della band o del gruppo, alla maniera del cinema dei Fratelli Dardenne, e cioè in presa diretta, e a gamba tesa. È il caso dei pezzi, per esempio, dedicati ai Pavement, a Vic Chesnutt (che artista meraviglioso), o ai Belle e Sebastien.
Insomma, davvero, c’è da divertirsi nel leggere questo volume che consente anche una consultazione disordinata, non ordinaria. Lo si può sfogliare, dall’inizio alla fine; oppure partire dai più noti ai meno conosciuti, oppure spiluccare e spizzicare (come dicono il Gatto e la Volpe di Garrone) qua e là, senza temere di perdere il filo. È un libro con molte porte insomma, tanti ingressi e altrettante vie di fuga.
Un consiglio, vero. Tenete lontano il cellulare mentre lo leggete. O quanto meno tutto quello che vi può portare su store online. Il salasso, infatti, è assicurato. Perché vi verrà voglia di comprare tutto quello che non avete in casa. Cd o vinile che sia. Ne sentirete il bisogno, perché leggendo queste pagine molto materiale del quale si parla sembra essere davvero imprescindibile. E il senso e la peculiarità dei recensori e dei critici di “Pucture” stava proprio nel far capire perché dovevi avere a che fare con quell’album, o con quell’artista; e vien naturale chiedersi come mai, fino a oggi, tu sia riuscito a farne a meno. Soprattutto come sia stato possibile evitare quegli artisti, quegli album e parte di quella scena, quando poi si scopre che, leggendo queste pagine, in casa abbiamo gli album più commerciali, o, peggio ancora, i lavori di chi ha ripreso quei suoni, quegli album e quelle esperienze, e le ha rese innocue. Come è successo con il vino americano raccontato da Baricco.
Articolo di Luca Cremonesi