Come nascono le canzoni, un tema affascinante. Soprattutto da quando le canzonette, per dirla alla Bennato, sono diventate letteratura, grazie al Nobel consegnato nelle mani di Dylan. Anche prima, a dir la verità. Di certo, però, quel riconoscimento costituisce l’ufficialità, a peritura memoria. Con quel premio ci dovranno fare i conti tutti, anche, e soprattutto, gli stessi insegnanti di scuole e Università, prima o poi.
Per ora, e per fortuna, ci fanno i conti chi le canzoni le scrive. Se negli anni ’80 e ’90 la critica musicale era davvero letteratura di serie B (esclusi pochi nomi), oggi i libri di musica, e la critica in generale, ha fatto un salto di qualità gigante. Non solo perché sono migliorate le penne (o le tastiere, fate voi). C’è anche, per dire, chi, in prima persona, scrive o fa scrivere della propria produzione. Il caso in questione è il volume “Quel giorno Dio era malato”, testo pubblicato dalle edizioni Le Milieu il 16 giugno, scritto con Alberto Sebastiani da Marino Severini, voce e chitarra storica dei The Gang, formazione marchigiana fra le più note, e interessanti, del panorama del Combat Folk, della musica d’autore, del Rock di protesta, e della canzone impegnata del nostro Paese.
Un libro che ricorda, per certi versi, monografie come quella di Carlo Susara dedicata alle canzoni dei Modena City Ramblers (l’edizione originale, della casa editrice presentARTsì, è ancora disponibile online), ma anche il volume di Bono degli U2 (la nostra recensione). Marino, fratello del chitarrista Sandro, e cioè insieme l’asse portante dei The Gang, racconta la genesi della nascita di alcuni canzoni, fra le più note, del gruppo: da “Johnny lo zingaro” a “Bandito senza tempo”, da “La pianura dei sette fratelli” a “Il lavoro per il pane”, passando per brani come “Nel mio giardino”, “Giorni”, “4 maggio 1944 – In memoria”, e tante altre. Fra le particolarità del volume, la presenza di un QRcode al termine di ogni testo. Inquadrandolo con il proprio cellulare si possono ascoltare le canzoni, disponibili gratuitamente su YouTube. Così, mentre si legge si può godere di questo repertorio unico figlio ormai di 14 album, più alcuni live, e di quasi 40 anni di carriera militante, all’interno di un panorama musicale che sembra ormai essere distante anni luce dalla proposta dei fratelli Severini.
Se nei libri fin qui usciti si è parlato, e tanto, della particolarità della proposta dei The Gang (la scelta dell’indipendenza, il crowdfunding, la libertà da case discografiche), qui, in questo volume, Marino Severini racconta di musica e delle storie che hanno ispirato le canzoni. Si parte, cosa ben nota, dall’amore per i Clash e, in particolar modo, per il cantante Joe Strummer. Il live visto da Marino, esperienza che segnerà la coscienza del cantante marchigiano, è l’oggetto che determina il destino della band. A questa pagina nota della storia del gruppo, si aggiunge quella del legame con l’arte di Woody Guthrie. Severini, per chi non lo sapesse, in passato ha scritto anche una prefazione a un libro dedicato alla musica del cantore statunitense (si trova online). A queste due pietre miliari si aggiungono Bob Dylan, al quale non viene dato ampio spazio, e Bruce Springsteen, cantori di una certa America, artisti che riecheggiano spesso nel racconto di Marino. Questi, infatti, opta per una scelta che differenzi il presente volume da quanto già uscito in passato. I racconti proposti, come i riferimenti messi in campo, sono quelli della gente comune, quel popolo che, da sempre, è anima ispiratrice della musica dei The Gang.
Così veniamo a conoscenza del ruolo centrale della madre dei fratelli Severini, donna energica, che ha acquistato la prima chitarra a Marino; della zia che lasciò un’importante eredità (250 mila lire) alla famiglia, e che la madre darà ai due ragazzi che, così, avranno di che pagare lo studio di registrazione per incidere il loro primo lavoro. Allo stesso tempo, importante è il ruolo del padre, ma anche dei nonni, figure centrali nella vita di tante persone, senza dimenticare il sereno clima famigliare e la cultura contadina, realtà che hanno alimentato la creatività dei due fratelli.
Un’Italia, quella raccontata da Marino, che appare davvero lontana da quello che siamo diventati oggi. Non solo sul fronte della quotidianità, ma anche su quello della musica. Un’arte che, nel caso dei fratelli Severini, nasce dalle storie sentite, vissute, raccontate e scoperte con libri, testimonianze, militanza e amicizie. Non di certo brani nati a tavolino per compiacere, anzi. Tutt’altro.
Molto bella la parte dedicata alla genesi di “Il seme e la speranza”, album interamente ispirato alla cultura contadina. Un lavoro che è, senza dubbio, una pietra miliare della loro produzione e, allo stesso tempo, della musica impegnata e colta italiana. Un disco nato in pieno boom della musica commerciale, e che testimonia la volontà di andare non tanto in direzione ostinata e contraria, quanto in quella di raccontare origini comuni che si vogliono dimenticare. Ascoltare quel lavoro, vuol dire capire come certa musica commerciale sia un prodotto imposto dal mercato, e da un’estetica – quella delle metropoli – che non appartiene, del tutto, alla nostra tradizione. Certo, i tempi sono cambiati, ma vale la pena ricordare anche che in Italia, di metropoli, ce ne sono due: Milano e Roma, molto diverse fra di loro, e con una storia alle spalle che, in un caso, è di quasi tre millenni. Ben diversa dalle metropoli statunitensi che, quando va bene, hanno due secoli di vita. Questo non vuol dire che, oggi, una voce l’attuale presente non la debba avere. Anzi… Tuttavia, se questa voce viene comprata e imposta, non sarà mai capace di testimoniare. Questo è quello che priva dell’anima la musica attuale, per renderla solo prodotto commerciale, e di consumo.
Quello che, invece, hanno saputo fare i The Gang, ma ormai per tutti sono semplicemente “Gang”, è stato invece un lavoro importante di testimonianza, figlio della cultura orale, e di chi la storia l’ha fatta per davvero. Questa differenza non è cosa da poco. Fra gli episodi più significativi di questo aspetto c’è la storia di Lucio, manovale che muore di morte tragica, sul posto di lavoro, e che è colui che insegna a Marino a suonare la chitarra per davvero: scale, in primis, e poi accordi e ritmi, oltre a saper tenere il tempo. Si tratta, in questo racconto in modo particolare, di far capire l’importanza del passare un testimone, come direbbe lo psicanalista Massimo Recalcati nel suo “Quel che resta del padre”, operazione quanto mai necessaria, oggi, nell’epoca liquida. Un gesto che consente di avere contatto diretto con la realtà; un’azione vera, non mediata e figlia di storytelling falsi e posticci. Tutto questo consente contatto, incontro e confronto. Non di certo per fare propaganda. Tanto meno per fare politica, nel senso volgare del termine (gestione del potere). Semmai nell’accezione nobile, e cioè condivisione della vita nella “polis”, lo spazio greco dove si con-viveva con gli altri. Raccontare storie ha questo valore. Lo ripete spesso Marino nei concerti dei Gang, non tanto la storia dei vincitori, ma quella dei vinti, e cioè le micro storie, quelle di chi, con atti e azioni, hanno resistito, e così hanno vinto sui vincitori.
Un libro davvero piacevole; una lettura che permette di respirare a pieni polmoni l’avventura di un gruppo che non ha fatto di visibilità, eccessi e divismo il Dna della propria musica. Una storia da conoscere, come dovrebbe essere quella delle nostre origini, del nostro immediato passato, e delle idee che hanno animato i luoghi che abitiamo. Non per erigere nuovi campanili, ma per proseguire, nel viaggio tutti insieme. Senza lasciare nessuno indietro, proprio perché ben consapevoli di chi siamo.
Articolo di Luca Cremonesi