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Massimo Pasquini “La strada, il palco e i pedali”

I Têtes de Bois sono un vero unicum nel panorama musicale italiano, ma si può dire anche internazionale

Materiale delicato questo “La strada, il palco e i pedali – 30 Anni di storie dei Têtes de Bois”, libello (96 pagine) del giornalista Massimo Pasquini e presentato a Roma il 24 marzo. Delicato perché si muove troppa vita importante in queste poche pagine, e forse questa vita importante avrebbe meritato molte più pagine scritte. O quanto meno più dettagliate. Ma la scelta di chi ha prodotto questo distillato lo fa comunque bastare e avanzare, per muovere ricordi, far estrarre dischi dagli scaffali, riaccendere vecchi amori, come quello per Léo Ferré (ed è la giusta occasione per acquistare, a ottimo prezzo, l’ultima raccolta “Les 50 plus belles chansons” oppure il volume 3 dell’ ”Integrale”, opera fondamentale, senza scordarsi di “Mai 1968”).

I Têtes de Bois, dunque, sono un vero unicum nel panorama musicale italiano, ma si può dire anche internazionale. Sono fra i pochi che hanno travalicato i confini portando musica, poesia ed esperienze in giro per l’Europa, e, soprattutto, per la Francia (terreno non facile per la musica italiana). Non capita a tutti questa fortuna, anzi. Solitamente, o esportiamo il bel canto all’italiana (quando ci va bene), oppure esperienze musicali che, in patria, non hanno quella visibilità che meritano. Anzi, diciamolo pure, spesso sono di nicchia. Poi ci sono le eccezioni, ok, ma quelle servono appunto a confermare la regola.

Il breve volume in questione, edito da Squi[libri], ripercorre in meno di 100 pagine, 30 anni di vita musicale fuori dagli schemi di questa band nata a Roma. Non solo perché i fondatori, Andrea Satta e Angelo Pellini, sono già loro stessi anomali musicisti, con vite anomale alle spalle.

Fin dal 1992, data di partenza di questa avventura musicale, tutto è anomalo, e non si lavora come dio comanda, e cioè come impongono le regole del mercato, delle case discografiche, tanto meno come vogliono le dure e severe leggi del showbiz. Ed ecco, dunque, che sappiamo l’anno, ma non di preciso come e quando tutto è cominciato. Si sa che era a Roma, c’era un legame con la Francia già nei primi lavori, e che la ricerca delle location alternative era nel dna della band. Insomma, per usare un’immagine a sua volta anomala, i Têtes de Bois sono dei salti quantici. Non puoi mai, con precisione, definire come, dove e quando. Ma ci sono. Appaiono. Sono presenti. Pur se prima, magari, non sapevi dove stavano. Dove erano. Qualcosa manca sempre. E questo è solo l’inizio.

Poi ci sono le frequentazioni, e queste sono davvero la cosa più interessante che racconta il volume (ovvio, per chi conosce la band). Il legame forte con Francesco di Giacomo andrebbe approfondito, di molto, come d’altronde qualcuno, prima o poi, si prenderà la briga di entrare nelle pieghe della vita di questo straordinario artista. Altro legame intenso è quello con la musica e, poi, con la famiglia di Ferré, che vive in Italia e, precisamente, in Toscana (ha dell’incredibile). L’aneddoto del pianoforte è meraviglioso, e se ne vorrebbe sapere molto di più.

Ma l’elenco è davvero lungo, e va da Daniele Silvestri a Edoardo Sanguineti, da Nada a Vauro, passando per musicisti, attori, scrittori, giornalisti, poeti, comici, militanti e, soprattutto, migranti, lavoratori e lavoratrici, partigiani e partigiane, e tanta gente comune. In sintesi, narratori di storie che hanno avuto nei Têtes de Bois i cantori ideali. Da questo punto di vista il volume è una lunga lista di occasioni mancate. Chi legge, infatti, resta con l’amaro in bocca, perché per molti progetti si può dire, con serenità, visto, c’ero, ascoltato. Per altri, invece, vien naturale affermare, non con una certa dose di amarezza, ma perché non c’ero? ma come mai non l’ho visto?, e perché questo non l’ho ascoltato?.

L’avventura di “Avanti Pop”, grazie anche al supporto dei media nazionali, aveva avuto un ottimo riscontro, come d’altronde il concerto pedalato (che fatica, la ricordo ancora…), mentre la “retromarcia su Roma”, ultimo progetto all’attivo, lo si scopre su queste pagine. Infatti, è anche il capitolo più lungo e dettagliato.

Ne risulta, insomma, una libello importante per chi conosce bene la band, le loro storie, le battaglie e le varie avventure. Per chi è in questa situazione, il volume invoglia a riprendere in mano tutto quanto; e contribuisce a far tirar fuori i dischi, ricordare, cercare video e testimonianze in rete. Ma per chi, invece, è a digiuno di questo mondo alternativo, veramente indipendente non tanto nella produzione, quanto in tutto il resto, forse il libro è un pò troppo sintetico e riduttivo.

Poco male, è di certo una bella infarinatura che permette di scoprire come la musica si possa fare in tanti e infiniti modi. Come, d’altronde la musica si possa diffondere anche su un camioncino, senza per forza essere liquida, condizione ritenuta imprescindibile, oggi, per arrivare ovunque. I Têtes de Bois sono stati capaci di arrivare davvero in ogni anfratto, da Nord a Sud, con treni, su camioncini, con furgoni, con mezzi di fortuna. Il tutto per fare musica solida, non liquida.

E questo, poi, per esportare non tanto la vecchia e vituperata “creatività italiana”. Ricordate la scena del film “Pane e cioccolata” con Nino Manfredi? Quando, cioè, il migrante interpretato dal grande attore romano, apre la porta del treno e lì trova il paesano con la chitarra che suona la solita canzone triste all’italiana? Qui, Manfredi, magistralmente, chiude e sbatte la porta, come a dire “basta rappresentarci così”. I Têtes de Bois hanno fatto la stessa cosa. Hanno chiuso la porta del bel canto all’italiana per non portare in giro l’estro italiota. Sono stati capaci di captare e cogliere flussi musicali, tendenze e filoni artistici che in Italia pochi hanno saputo raccogliere e interpretare. Mettere le mani su Ferré, per esempio, è cosa davvero per chi sa cosa fa. Per chi ne sa. Pochi grandi lo hanno fatto con bravura e stile (da riascoltare il loro “Ferré, l’amore e la rivolta” del 2002).

Quindi, il merito di questo agile volumetto, che si chiude con un apparato fotografico, è di tenere accesa una candela nel cuore della notte, mentre si mette in moto ancora una volta il furgone, per ripartire. Al fianco, ovviamente, dei Têtes de Bois.

Articolo di Luca Cremonesi

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