Uno dei migliori libri usciti in questo 2022. Non solo in ambito musicale. Lo dico convinto, dopo aver letto molto in questi 11 mesi, anche se ne manca uno, per chiudere l’anno. Ma l’autobiografia di Mauro Pagani, pubblicata da Bompiani, è sicuramente sul podio dei libri più interessanti usciti quest’anno. Un testo ricco, colto, impegnato, pieno di pensiero, e allo stesso tempo di aneddoti, e con capacità di scendere bene in profondità di situazioni note e conosciute, come la sua amicizia e collaborazione con De André; la costruzione delle Officine Meccaniche; la sua carriera da solista, e ovviamente la nascita e genesi della Premiata Forneria Marconi.
Altro pregio del volume è quello di non perdersi in dettagli accessori. Si va e si bada al sodo, come sanno fare i bresciani. E Pagani è un figlio doc della Leonessa. Nasce a Chiari nel 1946, e vivrà, fino a oggi, in molti posti. Tutti questi spostamenti, figli di quel doppio che genera in lui la personalità nomade e raminga, che lo ha sempre contraddistinto. Non solo, ovviamente, nelle sue scelte di vita, fatti che veniamo a conoscere, quasi nel dettaglio, ora con questo libro. Pagani, infatti, è uno di quei personaggi che ancora resistono ai gironi infernali dei social, al mettere tutto in piazza, e alla visibilità per forza e comunque. Il suo spirito nomade è anche ciò che caratterizza la sua musica.
Capace, cioè, di dare vita a una delle avventure prog più importanti del Bel Paese e del Mondo, e cioè la Premiata Forneria Marconi. Poi, nel momento più alto del successo, salutare tutti e ripartire per approdare nel Mediterraneo, patria d’elezione, e qui, dopo alcuni anni, dare vita a un esperimento che anticipa di alcuni lustri l’avvento della World Music. Il nuovo incontro con De André, la loro amicizia e collaborazione, e da tutto questo il nasce il capolavoro “Creuza de Ma”, poi “Le nuvole”, e alla fine il doppio live. E poi via, ancora una volta. Ripartendo, lasciando il successo sicuro; una via aperta per trovare nuove strade, nuovi luoghi (da New York al Naviglio), e nuove collaborazioni: dal Pop-Rock di Ligabue fino a quello dei Muse. In mezzo le Officine Meccaniche, vero laboratorio artigianale, dove i grandi sanno trovare quel qualcosa che cambia le loro direzioni musicali.
Nel mezzo si scopre che Pagani ha fatto di tutto: dal direttore artistico di grandi festival, all’arrangiatore e collaboratore per Sanremo. Insomma, una vita avventurosa, e soprattutto legata sempre alla musica. Quella musica che, all’inizio, non piaceva alla sua famiglia. È una storia, quella di Pagani, che appassiona, perché dimostra come serve sempre perseverare nei sogni. Allo stesso tempo, animo bresciano nel DNA, serve testardaggine e determinazione, uniti alla voglia di studiare, conoscere e approfondire.
Non deve essere facile, per nessuno, lasciare una strada ben avviata come quella con la PFM prima, e con De André poi. Eppure Pagani ne ha avuto il coraggio. O meglio, più che il coraggio, Pagani ne ha avuto la capacità. Partire, mollare per ricominciare, è segno di grande consapevolezza, e non solo di temerarietà. La voglia di conoscere è il carburante che rende questa storia unica. Per certi versi, vediamola così, Pagani si è conquistato una libertà, elemento che serpeggia in tutto il libro, che altri non sono riusciti ad avere, se non a prezzi alti. Mi riferisco, per esempio, a Robert Plant, che per certi versi (anche se non viene mai citato) ha un percorso simile. Plant, però, non sceglie volontariamente di lasciare la sua band. Ne è costretto dalla contingenza. Eppure il pubblico, ancora oggi, vuole che lui faccia ed esegua i pezzi dei Led Zeppelin, come se la sua lunga carriera da solista non contasse nulla.
Nei concerti di Pagani, invece, nessuno lamenta il fatto che si spazi, nel suo repertorio, dai pezzi solisti fino ai bis della PFM. Ecco, di questa libertà Pagani è consapevole, ed è stato capace di conquistarsela proprio grazie al suo essere giramondo, nomade, e senza patria (però non senza radici).
Un altro elemento di pregio del libro sono le riflessioni che Pagani semina nelle varie pagine. Le rivolte degli anni ’70, fino alla bomba di piazza Fontana, episodio che per Pagani chiude una stagione, e porta via l’innocenza, e apre così un’altra fase. Lo spirito del ’68 vissuto in giro per il Mondo, e nella Comune nella quale vivrà per alcuni anni. Il qualunquismo e l’edonismo degli anni ’80, declinati nei capitoli dedicati al Mediterraneo e al lavoro con De André. Poi, come parte finale di questa parabola, l’11 Settembre 2001, e la fine di una lunga fase di sogni e speranze. Sono pagine, queste, belle, intense, degne di un filosofo. Pagani riflette sul ruolo della collettività e dell’azione del singolo, visto ora come unica possibilità vera d’azione, e di presa di posizione nel Mondo. Un nuovo modo di essere impegnati, senza rinunciare a se stesso, e ai propri ideali. Una vera lezione di vita, si potrebbe dire, che aiuta a capire e comprendere come non sia utile piangere sul latte versato, ma semmai trovare un altro contenitore per salvare il latte rimasto nella tazza che si è rotta, o rovesciata.
Il finale (non del libro) lo lascio per le parole dedicate a De André. Sono pagine intense. Portano alle lacrime. Pagani definisce Fàber come una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto. Non ne parla tanto come musicista, come compagno di lavoro e come artista. Il suo punto di vista è quello dell’allievo che ha avuto la possibilità di seguire, lavorare e stare a stretto contatto con un Maestro. Potrà sembrare strano, ma credo che solo chi ha vissuto questa esperienza possa capire. A scuola, oppure all’Università, o sul posto di lavoro. Quel rapporto, allievo e maestro, è speciale. È qualcosa di più di una semplice amicizia, e non è solo affinità elettiva. Si tratta di un passaggio di consegne, di testimone, alla “Gran Torino”, magistralmente descritto da Massimo Recalcati nel suo “Cosa resta del padre?”. Pagani ha vissuto questa esperienza, unica e rara, che lega per sempre due persone. Sono pagine davvero molto belle. Si dice così, solitamente, per valorizzarle: andrebbero lette a scuola. Ambiente dove oggi, per diversi motivi, questa dinamica non esiste (quasi) più, avvelenata dalla performance.
Lo ripeto, si tratta di uno dei libri più belli letti quest’anno. Un’autobiografia ben costruita, che vale come un romanzo. Mi vien da dire, parafrasando l’autobiografia di un altro gigante (Marquez), vale la pena averla letta, per capire come sia valsa la pena viverla, per avercela potuta raccontare. Così come è stata scritta.
Articolo di Luca Cremonesi