Il 21 febbraio 2023 è uscita, per i tipi di Hoepli, la monografia dedicata al medico e cantautore Enzo Jannacci, morto esattamente 10 anni fa. Il 29 marzo del 2013, infatti, si spegneva una delle voci migliori della scuola musicale milanese, ma anche del cabaret, dell’intrattenimento intelligente, dell’impegno e della cultura della capitale lombarda, dove il peso esistenziale allora era ben diverso dalla dimensione nevrotica, e paranoica, che oggi tutti conoscono. Il libro, infatti, costruito in un modo insolito, racconta la storia di un narratore di storie che ha saputo trovare linfa, e terreno fertile dalla sua epoca, e dalla sua città. Anzi, ha tratto vita proprio da questo connubio. Una città che, non ancora bevuta, non ancora vittima della grande bellezza, era in fase di crescita, e di rinascita. C’erano spazi, ampi, dove muoversi in tutti i campi. Da quello della ricostruzione, post bellica, fino all’arte e, in particolare, alla musica.
Jannacci si muoveva e si nutriva dentro quella Milano. Direte, certo un tempo le scuole cantautoriali facevano questo. Vero. Un tempo, per l’appunto. Oggi si va a Milano per non essere periferia; si va a Milano perché Brescia è già stretta (terra dei Timoria e di Mauro Pagani, non l’ho citata a caso), per non parlare poi dei piccoli paesi di provincia, destinati ormai a scimmiottare le grandi city. E così, nei tempi attuali, si comincia in periferia, per arrivare nella media città, per poi cercare di sfondare a Milano. Un tempo non funzionava così. La storia, insolita, di Jannacci lo dimostra.
Il volume è organizzato per decenni. Si parte dagli anni ’50 e si arriva agli anni ’10 del 2000. Ci si muove partendo dal mondo del Jazz, con atmosfere alla Woody Allen di “Midnight in Paris”, ma anche con quelle evocate dalla canzone di Paolo Conte “Sotto le stelle del Jazz”. Jannacci è, di fatto, un curioso tutto fare in musica. Dalla batteria al piano, passando per ogni strumento che lo attira. Questo lo porta ad acquistarlo, a prenderlo per poi imparare a suonarlo. Sono pagine belle, veloci, ricche di nomi di un mondo musicale ormai estinto e che, forse, ritrova vita, e andrebbe così riscoperto, proprio grazie alle pagine sulla formazione artistica di Jannacci.
Prima di passare agli altri decenni, vale la pena spendere una parola sulla struttura del volume. Alla parte narrativa sulla vita del protagonista nel decennio del quale si tratta, il volume presenta due innesti, graficamente distinti, all’interno di quella macro sezione. Qui ci sono le citazioni e i ricordi di amici, amiche; colleghi e colleghe, giornalisti e artisti di vario calibro e peso. Il tutto ben evidenziato da un tratto rosso. Poi, in coda alla macro sezione dedicata al decennio, c’è una discografia ragionata. Per ogni epoca ci sono le schede dei dischi che contano, e che sono utili per ascoltare, con creanza, il meglio della musica e dell’arte di Jannacci.
Un libro, dunque, ricco di vite, e non solo quelle raccontate nelle canzoni del Maestro, da “L’Armando” a “Vincenzina e la fabbrica”, da “Giovanni telegrafista”, fino a quella che, così appare dal libro, dalle vecchie interviste e da quanto afferma, nei concerti, il figlio Paolo, era la canzone che lui riteneva rappresentarlo di più, e cioè il grande classico “El portava i scarp del Tennis”. A queste storie, si diceva, si affiancano quelle di amicizie importanti. Jannacci ha lavorato, condiviso tempo libero, vissuto e scritto con giganti del calibro, fra gli altri, di Dario Fo (Nobel per la letteratura), Giorgio Gaber, Cocchi e Renato, Luigi Tenco, Paolo Conte, Edoardo Sanguineti, Paolo Rossi, Gino e Michele, Adriano Celentano, e tutto il mondo culturale milanese che, in quei decenni, ha fatto la differenza perché ha saputo raccontare una Milano non sbruffona, arrogante, coatta, sfrenata, tossica e corrosiva, ma una capitale italiana che stava diventando, piano a piano, l’unica città davvero europea del nostro Paese. In questa dimensione non potevano che esserci tutte le contraddizioni del mondo. Ed ecco che la gioia dei ’50 e dei ’60, con l’arrivo del Rock ’n Roll dagli Usa, si trasforma presto nel peso del piombo degli anni ’70 e ’80. Qui c’è spazio per l’impegno, ma anche per la paura e per l’amore, con la stesura di un brano splendido come “Io e te” (da riscoprire, davvero).
Sono anni dove Jannacci è già forte del suo successo per antonomasia, e cioè “Vengo anch’io. No, tu no”, brano che garantisce introiti e successo, ma è anche un’epoca nella quale non si sottrae al giuramento di Ippocrate, esercita la sua professione di medico e, allo stesso tempo, di talent scout. Lancia giovani, crea sinergie, realizza collaborazioni. Si dà vita ad una Milano che ha voglia di raccontare, che si vuole far conoscere, che ha da dire e da proporre al Paese. Non fagocita; non è ancora buco nero che tutto incamera per poi, stando a quanto scrive il fisico Carlo Rovelli, rigettare fuori, come un buco bianco, materia informe che dovrò essere plasmata a uso e consumo di folle, direbbe Bauman, di consumatori non più cittadini.
Quella Milano, quella di Jannacci nel pieno della sua forza creativa, è e resta una città che sapeva guardare all’esterno. Milano, insomma, non era ancora una città che sa solo farsi guardare e desiderare; che si mostra e si trucca per darsi a vedere. Quella era una metropoli dove c’erano i barboni, come nella Genova di De André, nella Livorno di Ciampi, nella Bologna di Dalla. Era una città dove vivere era fatica, come nella Bologna di Guccini, nella Roma di De Gregori, nella Napoli di Bennato. Ed era una città dove sognare e sperare con la musica; o con l’arte in generale, anche quella della risata. Tutto questo mix caratterizzava e ha dato linfa vitale alla musica, e alle canzoni, di Jannacci. Allo stesso tempo, però, è ciò che oggi rende davvero ostico l’ascolto di questo grande artista della musica italiana.
Il libro sembra ricordarcelo perché gli anni ’90, con l’arrivo poi del 2000, isola, nel senso buono del termine, Jannacci. Il pubblico però lo segue, sempre. Il figlio Paolo, al suo fianco come arrangiatore e musicista dal 1994, tesse trame sonore sempre più vicine al Jazz. Jannacci può mettere insieme tutto quello che ha, dal talento, al saper cantare, all’ironia, fino a quello splendido accento milanese (cercate su YouTube il video “Ho visto un re” con Dario Fo) che lo rendeva unico.
Il finale, come da tradizione, non può che essere amaro. Anche se c’è un guizzo di pura bellezza. Si tratta dell’album con il quale i Jannacci, padre e figlio, conquistano la Targa Tenco come miglior album in dialetto (per i non avvezzi alla questione, si tratta del più importante e prestigioso riconoscimento per chi canta in volgare). “Milano 3.6.2005” è un album che non può mancare in casa. Credetemi, ci deve essere, perché è la perfezione di questo mondo musicale. Poi ci sono gli ultimi lavori, fino all’album postumo, e alle infinite raccolte.
La monografia non si chiude, però, con la morte, ma con la vita. Quella delle canzoni, che restano, e delle testimonianze dello stesso Jannacci. Una sorta di condensato del suo pensiero. Prima, in corsivo, una lettera del figlio al padre. Rara bellezza, come tutta questa musica, non di facile ascolto. Oggi, come allora.
Articolo di Luca Cremonesi