“Rock’n Roll Suicide” di Paolo Vites, edito da Caissa (2022), promette di parlare delle morti per suicidio, più o meno certo, di diciotto artisti rock nel periodo che va dal 1967 al 2022, fornendo spunti di riflessione su un fenomeno più enfatizzato che effettivamente studiato. Per quattordici di essi, Luigi Tenco, Nick Drake, Phil Ochs, Judee Sill, Ian Curtis, Richard Manuel, Kurt Cobain, Michael Hutchence, Elliott Smith, Whitney Houston, Chris Cornell, Dolores O’Riordan, Neal Casal, Taylor Hawkins, l’autore traccia una storia individuale più particolareggiata, mentre per quattro di loro, Elvis Presley, Michael Jackson, Prince, Tom Petty, le storie sono accomunate in un capitolo titolato “Dopesick”, dando quindi la tossicodipendenza come causa della morte. Nell’opera vengono anche riportati i testi di venticinque canzoni sulla depressione e sul suicidio.
A dispetto del titolo accattivante, “Rock’n Roll Suicide” e delle frasi enfatiche contenute sia in copertina (“Il lato oscuro del rock”) che nella quarta di copertina (“Quello che accomuna quasi tutti i suicidi è il totale mistero che li circonda”), che sembrano garantire al lettore una sorta di autopsia psicologica sugli artisti citati, dando per certo che la causa di morte sia stata il suicidio, il contenuto non corrisponde effettivamente a quanto il lettore si aspetta. Infatti, a parte il fatto che non tutti i musicisti possono dirsi appartenenti al genere rock, solo per pochi di essi la causa di morte è stata effettivamente il suicidio; per molti si è trattato di circostanze che, per quanto fosche potevano essere, escludevano un atto finale determinato.
Certo vi è l’autodistruzione più o meno volontaria protratta nel tempo, ma non si può parlare di suicidio per artisti come Michael Jackson, morto per una overdose di propofol e benzodiazepine, o per Prince, morto per una overdose accidentale di fentanil, o ancora per Tom Petty, morto, dopo essere stato rianimato, a causa delle conseguenze di un mix di droghe, così come per molti altri citati dall’autore. Lo stesso si può dire per le morti sicuramente ambigue avvenute in vasca da bagno, come quella di Whitney Houston o quella di Dolores O’Riordan. Morte ricercata e voluta, oppure il lasciarsi andare a un deliquio voluto, sconfinato però poi nella morte non voluta?
In definitiva il titolo sembra congegnato solo come un modo per rendere il libro più accattivante per chi lo voglia acquistare, anche perché, al di là dell’aneddotica contenuta nelle singole storie di vita, non si indagano effettivamente le relazioni fra la morte e il vissuto dell’artista come determinante della stessa. Peraltro, anche se non incisivo come si ci aspetterebbe, il libro illustra alcuni aspetti interessanti di queste morti; per esempio si può osservare come il teatro del supposto suicidio fosse spesso un albergo, come per Taylor Hawkins, morto per overdose. L’albergo, luogo senza ricordi o legami, dove finalmente gli ultimi vincoli con la vita personale possono essere lasciati senza qualcosa che ci induca, nell’istante fatale, a tornare indietro.
Sullo sfondo sempre l’assunzione di droghe con uno scopo molto diverso rispetto a quello di anni precedenti, quando gli artisti le usavano per provocarsi sensazioni particolari e quindi ottenere una produzione musicale più intensa: uso di droghe come unica possibilità per affrontare quotidianamente i propri incubi, passati e presenti. Oltre a questo l’assunzione di medicinali per mitigare gli aspetti psicologicamente dolorosi di una vita orientata a un modello tipicamente americano, dove il profitto e il successo personale ed economico sono la modalità vincente e dove l’anestesia psicologica viene garantita da farmaci legali, spesso regolarmente prescritti, come il Fentanil, un oppioide sintetico, vera piaga collettiva. Emblematico sull’uso abnorme di farmaci è il caso di Elvis Presley che il 26 giugno 1977 tiene l’ultimo concerto a Indianapolis e viene trovato morto, caduto in avanti mentre era seduto sul gabinetto; nel suo corpo, da tempo martoriato da varie patologie croniche (glaucoma, ipertensione, danni al fegato, colon ingrossato), vengono trovati ben quattordici farmaci diversi, dieci dei quali in quantità significativa.
Da notare che il pezzo più interessante del libro è scritto da altro autore: Barbara Volpi. Un capitolo di sole tre pagine dal titolo “Down in the hole”, poche ma veramente dense, dove si fornisce al lettore una interpretazione diversa del suicidio dei rocker rispetto alle classiche teorie suicidarie, dalla più datata sull’anomia, di Durkheim, alle più moderne, come quella della mancanza di integrazione di Gibbs e Martin, o del comportamento antisociale di Henry e Short o di Gold. Volpi azzarda l’ipotesi che le morti per suicidio negli artisti siano tutte dovute alla estrema sensibilità di queste persone nel percepire le esigenze umane di felicità, di amore, di giustizia, di libertà, di bellezza e, pur sapendole trasfondere nella loro musica, non riescono a viverle compiutamente e realizzarle. Una condizione umana che procura un dolore devastante, un dolore psichico, una sorta di lutto perenne nel quale l’artista vive e che, non elaborato positivamente, fa vedere come unica via d’uscita il suicidio.
Come dice Bruce Springsteen, che ha sofferto di depressione e che spesso, per sua stessa ammissione, ha pensato al suicidio, nel proprio pezzo “The River”, la title track del suo quinto album: Is a dream a lie if it don’t come true // Or is it something worse // That sends me down to the river // Though I know the river is dry / That sends me down to the river tonight / Down to the river. In definitiva l’artista, quando dal palcoscenico dello spettacolo si ritrova necessariamente sul palcoscenico della vita quotidiana e si guarda allo specchio, non resiste a ciò che vede e, prendendo consapevolezza che il proprio sogno non si è avverato, in modo più o meno consapevole, più o meno lento, pone fine alla propria esistenza.
Un libro comunque da leggere perché, al di là del collegamento o meno al tema del suicidio, traccia le storie di una serie di artisti accomunati, come dice l’autore stesso nel capitolo “Chi ha le mani sul volante”, da solitudine, da traumi e disagi subiti spesso nell’infanzia o nell’adolescenza e, più che altro, dall’uso di droghe e medicinali per sostenere l’incapacità di affrontare i propri demoni. E un libro sul quale meditare: la bellezza che secondo Dostoevskij salverebbe il mondo, non sempre è in grado di salvare chi la produce.
Articolo di Sergio Bedessi