Il volume “The Rolling Stones” edito in allegato al Corriere della Sera è una buona guida, condensata (pure troppo), per ripercorrere i 60 anni di carriera della band di Jagger, Richards e Wood. Viviamo in un mondo dove gli Stones ci sono sempre stati è la sintesi perfetta espressa in uno dei cinque saggi che compongono il volume in carta pattinata e grande formato. Questo permette alle fotografie – alcune storiche e note, come quelle del live ad Hyde Park, o a Rio de Janeiro – di esprimere tutta la loro potenza. Non solo, questo volume a più riprese ricorda che la band è anche un grande fenomeno di massa a 360 grandi. Il libro, infatti, non tratta solo della loro carriera musicale. E la scelta è giusta perché gli Stones sono sempre stati, fin dai loro esordi, un fenomeno anche di moda, di costume e artistico, nell’accezione più alta del termine.
Il perché è presto detto, e non è legato al fatto che Andy Warhol aveva già capito le loro qualità e doti e aveva così deciso di collaborare con il gruppo. Gli Stones sono arte perché sono riusciti a diventare eterni in vita, cosa che si vede bene nel documentario di Martin Scorse. Inoltre, sono riusciti ad aggiungere quello che mancava alla musica prima del loro avvento. L’artista, lo diceva Picasso (ci possiamo dunque fidare) è colui che crea gli occhi per vedere ciò che prima era invisibile, e cioè un’opera che non esisteva. Cézanne, un altro del quale ci possiamo fidare, scriveva nella sue lettere che l’arte deve rendere visibile. E così hanno fatto gli Stones, nel mondo della musica, e non solo, in tutti i loro 60 anni di carriera. Il primo saggio di Vito Sinopoli è ben fatto, chiaro e utile per capire questo fenomeno. Anche Andrea Milanesi nel testo “Il riff di successo” ricostruisce la carriera dal 17 ottobre 1961 ai giorni nostri. E per gli scettici basti pensare che questa band, dopo 60 anni di carriera, è ancora in giro per il mondo con un concerto a matrice blues niente affatto scontato. Si vedano le scalette, ad esempio, di quest’ultimo tour europeo.
Il testo di Milanesi condensa – per ovvi motivi – ma ruota attorno al fatto che i riff di Richards e il modo di cantare di Jagger hanno modificato la musica che, ricordiamolo, fino a quel momento era fatto locale, nazionale al massimo, e per niente legata ai fenomeni sociali. Beatles e Rolling Stones in Inghilterra, come Dylan negli Stati Uniti, stavano cambiando il mondo, e non è un’iperbole.
E se gli Stones, come raccontano le pagine dedicate alle hit, hanno nella loro faretra frecce preziose (qui nel libro se ne citano “solo” 60, ma se ne potrebbero elencare altre 60 senza sfigurare), è altrettanto vero che la differenza la band l’ha sempre fatta dal vivo. Ed ecco un altro valore artistico degli Stones: la performance live. La musica degli Stones, generata dal lavoro in studio, viene da sempre affinata nei concerti dal vivo. E così la musica si fonde con corpo e movimento, diventa fisica, e cioè fatto concreto, show e happening.
C’è grande disonestà quando, nelle critiche ai live di questi ultimi anni, si riduce il tutto alla dicitura “standard”. Sì, è chiaro, per certi versi è vero, non lo si può negare. A quasi 80 anni suonati ci si può permettere, ogni tanto, di utilizzare il mestiere. E così ci sta pure che la ripetizione di certi brani, e la loro variazione da parte però dell’autore, sia presente in molti live. Ma se in questi anni si sono acquistati i cofanetti usciti (pregevole iniziativa quella di rendere disponibili molti concerti in qualità audio ottima e ripulita) e, allo stesso tempo, li si è ascoltati dal vivo, ci si è accorti che la differenza gli Stones la sanno fare, e la fanno sul palco. A partire dal fatto che, nei concerti, non ci sono quattro (ormai tre, purtroppo) quasi ottantenni, ma l’eternità degli Stones. In poche parole, sul palco ci sono davvero gli eterni Rolling Stones. Si tratta di una transustanziazione, e cioè di un cambio di sostanza, fenomeno tipico del divino. E qui ne siamo in presenza, non si può negare.
Il caso migliore per capire quello che il libro mostra e racconta è il concerto di Milano del 21 giugno 2022. I brani in scaletta sono stati 19, 17 cantati da Jagger e 2 da Richards, per l’unica pausa che si è concesso il cantante che, ricordiamolo, era reduce da contagio Covid e da un’operazione al cuore. Siamo felici di essere qua, anche se sembra di essere nei gironi dell’inferno per il caldo dichiara a metà concerto. Tuttavia il caldo e il cantare, uniti a una scaletta lunga e articolata, con l’aggiunta del muoversi, senza sosta, su un palco lungo come tutto il lato verticale di San Siro (quasi 90 metri) e con una passerella che arrivava al centro dello stadio, non hanno minimamente intaccato la performance del quasi 79enne Mick Jagger.
La prima parte dello show, per sfatare il mito di una band che ormai esegue solo standard, è di fatto una sorpresa per tutti. Gli Stones pescano nella loro lunga carriera e così il concerto non sarà la solita celebrazione di se stessi, ma una cavalcata nei 60 anni di una band che ha un repertorio che non sarà più possibile produrre nel mondo della musica contemporanea.
La serata si apre con “Street fighting man” del 1968 e con “19th nervous breakdown” brano del 1966. Si pesca lontano, nel passato glorioso degli inizi. Il messaggio è chiaro, questo è un tour che celebra i 60 anni di carriera e, pur se il palco non è dei migliori (a Lucca era davvero magnifico, qui è quasi ridotto al minimo sindacale, con tre schermi e qualche colore), ciò su cui punta la band è la musica, la scaletta e, almeno per quanto riguarda la data di Milano, il grande coinvolgimento del pubblico. Jagger si conferma grande uomo da palco e di spettacolo. Sa come dettare i ritmi di applausi, di mani al cielo e di onde; sa quando e come riattivare la folla e concede a questa riprese di canzoni (mai successo negli ultimi concerti italiani, e cioè Roma 2014 e Lucca 2017). È lui, infatti che chiama i ritornelli e li abbozza al microfono. I 56 mila di San Siro lo seguono, come la band, senza sbavature. Non pago, Jagger si lancia nel mezzo del campo quasi ad ogni canzone e, dopo circa un’ora, sul finale di “Honky tonk women”, è pronto anche a correre dal centro dello stadio fino sul palco, per poi girarsi e cantare la parte finale della canzone.
Allora, vien da sé, che ci si chieda chi ci sia davvero sul palco. Il signor Michael Philip Jagger, detto Mick, nato a Dartford il 26 luglio del 1943, oppure Mick Jagger, il cantante dei Rolling Stones? Cosa intendo? Cerco di spiegare… Prima puntando in alto, poi abbassando il tiro. Chi ha scritto la “Recherche”, la grande opera che fonda la letteratura contemporanea? Proust. Vero. Tuttavia, l’uomo Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust era, a detta dei suoi contemporanei, persona fastidiosa, riservata e mediocre. Nulla a che vedere con l’artista che, dopo aver scritto il suo capolavoro, è diventato il Proust dei salotti letterari. Come possono essere la stessa persona? E’ semplice: è sempre l’opera che crea l’autore, e non viceversa. La tesi è di Michel Foucault nella prima lezione che tenne al prestigioso College de France. Sposiamola dunque, e applichiamola ai Nostri.
Avete visto il documentario di Martin Scorse “Shine a light”? Chi lo ha presente ricorderà che, all’inizio, sul palco, mentre tutto viene allestito, ci sono quattro vecchietti che chiacchierano con i tecnici, con il regista e non ultimo con il presidente degli Stati Uniti. Questi quattro uomini anziani sono Michael Philip Jagger, Keith Richards, Ronald David Wood e Charles Robert Watts. A un certo momento, però, si deve entrare in scena e così i quattro vecchietti salutano tutti e, come per incanto, si ri-materializzano in scena e si trasformano nei Rolling Stones. Sul palco avviene la metamorfosi, e cioè la transustanziazione. Ed ecco che un conto sono i quattro uomini, quasi ormai ottuagenari, e altra faccenda sono i Rolling Stones. Il fatto straordinario è che anche i quattro vecchietti sono consapevoli di questo. E così martedì 21 giugno a Milano, nella calura di un’estate iniziata a maggio, i tre Rolling Stones sono davvero saliti sul palco non per fare le cere di se stessi, ma regalando una performance che non ha mostrato cedimenti dovuti all’età anagrafica. A essere onesti onesti, però, Wood – almeno nella prima parte – si è fatto carico di quasi tutti i soli, tranne di quelli che Richards non può non eseguire. Tuttavia, questi cedimenti sono stati presentati come normale alternanza fra le uniche due chitarre che c’erano sul palco. Dei tre, poi, Richards – sempre nella prima parte – è quello apparso meno coinvolto. I due piccoli errori lo hanno reso ancora più umano (uno su “Honky tonk women” e l’altro in “Living in a ghost town”) e mostrato a tutti come la band stesse davvero suonando. Tuttavia è bastato poco, e cioè la pausa di Jagger e le due canzoni cantate – “You got the silver” del 1969 e “Connection” del 1967 – per dare energia a Richard che, solo in mezzo a San Siro, è stato accolto da un urlo durato diversi minuti. A quel punto, voglia o non voglia, Richards non ha più sbagliato una virgola.
La prima parte, dunque, ha dimostrato quello che anche il libro sostiene, e cioè che Viviamo in un mondo dove gli Stones ci sono sempre stati. La seconda parte, invece, regala i grandi classici della band e anche due esecuzioni da manuale di “Miss you” e “Midnight rambler”. Due brani lunghi, rispetto alle scelte di scaletta fatte fino a quel momento, e che Jagger decide di allungare più che può giocando con il pubblico. La bellezza di questo momento ripaga di tutte le critiche di chi li vuole solo macchine per far soldi. Peggior critica non ci può essere se si pensa davvero che a quasi 80 anni ci si prenda la briga di salire, al caldo, su un palco per dar spettacolo. Per 13 date. In giro per l’Europa. Che dire? I 20 anni dei tre Rolling Stones sono passati, e sono alle spalle, ma Jagger, con i suoi compari, sa ancora divertirsi su quel palco. Questa è la differenza con il far soldi. E tutti i 56 mila di Milano non possono non essersi accorti che stavano impazzendo non perché un quasi 80enne stava facendo la mossa e il verso al rocker, ma perché su qual palco c’era, in quel preciso momento, la storia del rock. Immortale ed eterna. Questa è un’esperienza che un giorno, per il triste destino comune che ci aspetta, le persone racconteranno ai nipoti, stile scena iniziale di “Titanic” di Cameron.
E così ancora una volta vien da sé un’altra riflessione. In molti, infatti, si sono lamentati dei prezzi dei biglietti. Scusate, cosa paghereste per vedere una mostra personale di Picasso con Picasso in galleria? O per assistere a una “Prima” con Fellini in sala? O per vedere Leonardo che dipinge la Gioconda? Ecco, altro non c’è da dire. Il paragone non è azzardato. Non si tratta, seguendo le tracce colte di Roland Barthes, di celebrare miti d’oggi, o di avventurarsi in pellegrinaggi dovuti. Nessuno è chiamato a cercare la bellezza. A nessuno è imposta l’arte. C’è chi può vivere senza. E’ e resta un suo problema perché la vita, per molti, non è fatta solo di attese e di noia. C’è anche, infatti, chi sa godere dell’arte e della bellezza. Queste cose sono rare e preziose.
In questo tour, dunque, non c’è nulla de celebrare e neppure da impomatare. Ed ecco che il palco scarno diventa significativo. Non si tratta affatto della fine di un viaggio. E’ solo un nuovo tour, e di certo non è l’ultimo. Non lo vogliono per primi loro tre. La scelta di mettere alla batteria Steve Jordan conferma che c’è la chiara volontà di non portare in giro l’ectoplasma degli Stones, ma la musica e l’arte di questa band straordinaria. “Paint it black” e “Sympathy for the Devil”, classici fra i classici, lo confermano perché la parte ritmica è davvero potente e le variazioni sonore – rimbalzo di riff fra Wood e Richards – mostrano che c’è ancora tanta voglia di stupire il proprio pubblico, come c’è ancora molto da dire e tanta strada da fare insieme. Questo è chiaro: l’energia è scambio positivo e reciproco. Gli Stones vivono con il pubblico e questo necessita dei suoi idoli. Vivi ed eterni.
Milena Ardesani nel suo contributo scrive: Con loro un genere musicale diventa un autentico stile di vita: artistica e notterà, pubblica e privata, oltre ogni eccesso e al limite di qualsiasi legge di gravità. Sintesi perfetta. Il libro si chiude con una carrellata di immagini iconiche. Come lo show di Milano non può che salutare il pubblico con una voce nera potente che fa da contro altare a Jagger, in mezzo al campo di San Siro, sulle note di “Gimme shelter”, prima di chiudere definitivamente e ricordare a tutti e a tutte che “(I can’t get no) Satisfaction”
Articolo di Luca Cremonesi
Setlist Rolling Stones Milano
- Street fighting man
- 19th Nervous Breakdown
- Tumbling dice
- Out of time
- Dead flowers
- Wild horses
- You can’t always get what you want
- Living in a ghost town
- Honky tonk women
- You got the silver
- Connection
- Miss you
- Midnight rambler
- Start me up
- Paint it black
- Sympathy for the Devil
- Jumpin’ Jack Flash
- Gimme shelter
- (I can’t get no) Satisfaction