Il libro “Delta Blues” di Ted Gioia, sottotitolo “I grandi musicisti del Mississippi che hanno rivoluzionato la musica”, editore EDT, titolo originale “Delta Blues. The Life and Times of the Mississippi Master Who Revolutionized American Music”, è presentato nella edizione italiana da Francesco Martinelli, giornalista, saggista, docente e conferenziere, nonché traduttore dello stesso libro. Pubblicato per la prima volta nel 2009 a New York da W.W. Norton & Company, il volume italiano è stato realizzato in collaborazione con Siena Jazz, Accademia nazionale del Jazz, Centro di attività e formazione musicale. Si tratta di undici capitoli, molto densi, che percorrono la storia del Blues con particolare riferimento alle origini, e aprono una visione del tutto inaspettata su un genere musicale tanto abusato quanto non compreso appieno, spesso dagli stessi musicisti che lo suonano.
Il lavoro dell’autore Ted Gioia, divulgatore di altissimo livello, che ha scritto l’opera con una reale ricerca delle fonti, operata in modo metodologicamente ineccepibile, è stato arricchito dall’opera del traduttore e curatore Francesco Martinelli con un glossario magistralmente redatto che aiuta il lettore a districarsi fra i termini inglesi, che non sempre hanno una traduzione ottimale diretta in lingua italiana. Si tratta proprio per questo di un testo che non solo gli ascoltatori di musica, ma tanto più chi suona Blues dovrebbe leggere, meditare, rileggere e utilizzare per gli approfondimenti, scoprendo così che quello che spesso viene identificato troppo genericamente come Blues, spesso non lo è, o non lo è nella forma più genuina.
Il testo apre con due mappe, una generale e una di dettaglio, utili a identificare geograficamente i luoghi dove il Blues è nato, ed è composto da oltre quattrocento pagine, dense di informazioni accuratissime, inoltre corredato di una lista degli ascolti consigliati e di una lista delle letture consigliate; in definitiva un vero e proprio trattato che consente al lettore di avere uno sguardo approfondito su questo genere musicale.
Il libro inizia identificando i luoghi del Blues: l’area denominata Mississippi Delta che in realtà non è il delta fluviale del Mississippi, ma è una pianura alluvionale a nord del delta vero e proprio, compresa fra il Mississippi a ovest e lo Yazoo a est, estesa per quasi 18.000 chilometri quadrati, larga 140 km e lunga 320 km nel senso che da nord a sud va da Memphis a Vicksburg.
Nell’insieme dell’opera, peraltro tutta interessante, alcuni capitoli risaltano in modo particolare. Fra questi proprio il primo capitolo “I – Il blues e gli antichi regni”, che svela da subito alcuni fatti poco conosciuti sulla nascita del Blues e alcune particolarità con riferimento allo spirito originario di questa musica. Innanzitutto il paradosso che il genere più importante della musica moderna, quello che andrà a permeare tutti gli altri generi successivi, come per esempio il Jazz e il Rock, nasce da un’area geografica che è in realtà la meno importante degli Stati Uniti; un’area povera che non ha mai dato natali ad alcun presidente USA e neanche a un governatore, un’area dove non sono nati scienziati o altre personalità, e dove non insistevano realtà produttive di rilievo. Insomma un’area pressoché rurale, priva di importanza sociale ed economica, che però ha condizionato, a partire già dal 1850, la musica di tutto il mondo e si può anche affermare che l’influenza del Mississippi Delta sulla colonna sonora delle nostre vite è talmente diffusa e capillare che è divenuto impossibile aver cognizione del suo impatto.
Per rendersi conto di questo, l’autore ricorda come a metà del 1800 nella regione del Delta vi fossero cinque neri per ogni bianco; la vita delle città era totalmente dominata dai bianchi, ma la forza dei numeri era sufficiente ad assicurare che il carattere culturale del Mississippi rurale fosse determinato dalla realtà dei neri, senza alcuna possibile compressione di questo fattore.
Il libro dimostra come l’emergere del Blues, quello più genuino e non quello “colto” che risulterà poi trasfuso nei moduli della musica occidentale, dipese dalla pervasività della visione del mondo dei neri e anche, paradossalmente, dal relativo isolamento di questi dalle consuetudini della vita cittadina. A riprova l’autore porta il fatto che questo fenomeno lo si ritrova anche in altri posti del mondo, come Bahia, Haiti, Giamaica, dove la popolazione di colore a un certo punto raggiunse una massa critica capace di determinare la cultura locale, indipendentemente dalle condizioni di inferiorità sociale.
Sempre nel primo capitolo, dopo aver descritto come il paesaggio della zona fosse stato modificato dall’uomo per introdurre le piantagioni nelle quali poi avrebbero lavorato gli schiavi, si parla dei canti che questi intonavano a bordo delle navi negriere; il fatto è riportato, fra l’altro, da un resoconto di bordo del 1793 dove si spiega come prima della partenza dall’Africa si recuperavano anche i primitivi strumenti musicali di queste persone, incentivandoli a far musica durante il viaggio, se non altro per tenerli impegnati.
L’atteggiamento dei mercanti di schiavi si scontrava però con quello dei successivi proprietari, che non vedevano di buon occhio la vita musicale degli schiavi, per vari motivi; da qui un processo di graduale distacco dalle originarie radici e l’assimilazione di un carattere nuovo: la descrizione in parole e musica della vita quotidiana, con le relative tristezze e malinconie, e con l’uso di un nuovo strumento, la chitarra, unico strumento a basso costo e portatile e che in qualche modo ricordava gli originari strumenti africani.
Il capitolo secondo non è meno interessante, con l’illustrazione della storia remota del Blues in modo più tecnico, proponendo varie ipotesi: eredità dei minstrel show e dei medicine show oppure Blues come “workaday sorrow song”? Vengono riportati anche vari aneddoti, come quando William Christopher Handy, che aveva messo su la Memphis Orchestra proponendo un Blues più sofisticato, in una sera del 1903 si trova in una stazione ferroviaria del Delta mentre un uomo di colore inizia a suonare la chitarra con un coltello strisciandolo sulle corde, usando quella che poi diverrà la tecnica del bottleneck; l’uomo intona un Blues totalmente diverso da quello cui era abituato Handy, un pezzo dal nome “Goin’ where the Southern cross’ the Dog”. Successivamente, un’altra sera, mentre Handy suona con la sua orchestra, dal pubblico gli viene chiesto se ha nulla in contrario a far salire sul palco un gruppo locale, tre neri con una vecchia chitarra, un contrabbasso malridotto e un mandolino. Handy acconsente e si stupisce che il pubblico gradisca più quel tipo di musica piuttosto che quello proposto dalla sua orchestra; si rende dunque conto della potenzialità di quella tipologia di Blues e inizia così a rimaneggiare il repertorio utilizzando quello stile, ottenendo un successo maggiore di prima.
Nel capitolo vi sono poi molti riferimenti ad altri artisti, spesso dimenticati; fra questi Ma Rainey, cosiddetta madre del blues, vero nome Gertrude Pridgett Handy, una cantante con la voce ghiaiosa e un’estensione limitata a un’ottava, ma che affascinava per la potenza emotiva, una cantante alla quale si ispirerà poi la più famosa Bessie Smith. Ancora Lemon Jefferson, che cieco dalla nascita dimostrò che anche il Blues rurale può essere di successo, tanto che su segnalazione di un commesso di un negozio di Dallas Jefferson venne invitato dalla Paramount Records per una seduta di incisione nel 1926. Quell’incisione diverrà il lancio dei suoi primi dischi con la scoperta da parte delle poche case discografiche di allora che il Blues rurale poteva vendere anche di più del suo parente metropolitano, anche se quest’ultimo era più sofisticato.
Interessante il capitolo nel quale si fa capire come molti dei musicisti di Blues provenissero dalla stessa piantagione, la piantagione Dockery, così come il successivo capitolo dove si scopre che molti altri provenivano dal penitenziario Parchman, fra l’altro amministrato in un certo periodo da Joe Dockery, proprietario appunto della vicina piantagione; in definitiva l’area di provenienza iniziale del Blues più originale risultava essere veramente ristretta. Viene ricordato il lavoro di Alan Lomax e di suo padre John che avevano effettuato una ricerca etnografico musicale sul Blues appunto fra i detenuti di undici istituti penitenziari, fra cui il penitenziario Parchman, facendosi guidare da Joe Dockery che solo successivamente, grazie a ricercatori come Robert Palmer, Gayle Wardlow e Stephen Calt, scoprirà che il Blues era nato proprio nella sua piantagione.
Si prosegue con il ricordo di vari artisti, fra cui Charlie Patton, il cui vero nome era Charley, passato alla storia per aver osato per la prima volta fare commenti in musica, lui afro americano, su personaggi bianchi; probabilmente figlio non riconosciuto di Henderson Chatmon, patriarca di una delle più famose famiglie musicali del Mississippi, era stato scoperto da Henry Speir, il broker dei talenti. Il libro mostra anche come in un determinato periodo quasi tutti i cantanti blues del Delta si appoggiarono a Speir e fu proprio grazie al suo lavoro di broker musicale che la tradizione del Delta iniziò a essere rappresentata; emblematico il fatto che fu proprio Speir, malgrado avesse da anni lasciato quel tipo di lavoro, a ricercare e trovare Patton per convincerlo a registrare alcuni pezzi.
Nello stesso periodo si ha tutta una scomparsa e ricomparsa di artisti, come Booker “Bukka” White che registra alcune cose quando è in carcere, per poi riprendere l’attività solo dopo molto tempo quando esce di prigione; di altri di questi, come Mattie May Thomas, si conosce solo la voce registrata in carcere, grazie a Herbert Halpert antropologo e folklorista, così come molte altre volte cantanti straordinari appariranno in un solo disco per poi scomparire per sempre nell’oscurità.
C’è poi la musica che non sentiremo mai, perché mai registrata oppure registrata e andata perduta perché non commercializzata. L’autore fa presente come per molti pezzi del Delta Blues che oggi conosciamo sia stato fondamentale il ruolo dei collezionisti privati, affezionati a un genere considerato di nicchia, poco compreso dal pubblico anche se qualche artista come Bob Dylan userà il pezzo di White “Fixin’ to die” per il suo album di esordio.
L’ultimo capitolo del libro, “XI – Il revival del blues” si focalizza sulle ricerche effettuate nei primi anni ’60 dei superstiti: quei musicisti del Delta Blues ancora viventi ma che già alla fine degli anni ’30 avevano smesso di essere in attività. Per esempio John Hurt, la cui ultima incisione era del 1928, viene ritrovato nel 1963 e viene convinto a esibirsi di nuovo. In questo senso il capitolo fa intuire al lettore l’urgenza di questa operazione di ricerca dei più anziani bluesman del Mississippi, urgenza dovuta al notevole lasso di tempo ormai trascorso dalle loro ultime esibizioni e quindi con il rischio che molti fossero ormai deceduti.
“Delta Blues” è di altissimo livello culturale, arricchito in modo incredibile nella traduzione effettuata da Francesco Martinelli grazie ai consistenti riferimenti in coda al testo, e contribuisce in modo notevole a una visione più scientifica e completa della storia del Blues.
Articolo di Sergio Bedessi