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Warren Zanes “Liberami dal nulla – Bruce Springsteen e Nebraska”

Summa di tutto quello che c’è da sapere su questo lavoro discografico uscito nel 1982

Warren Zanes racconta l’affascinante storia di “Nebraska”, l’album più sorprendente di Bruce Springsteen, svelandone la centralità nell’intera carriera del rocker americano. Il tutto in un testo ben curato, ben fatto, di non agile lettura per la ricchezza dei rimandi, che è una vera summa di tutto quello che c’è da sapere su questo lavoro discografico uscito nel 1982. “Liberami dal nulla – Bruce Springsteen e Nebraska” (JIMENEZ, 22 euro), stampato e messo in vendita nel marzo 2024, racconta davvero una bella storia. E lo fa con grande grazia, compostezza e sapienza. Non si occupa solo di come sia nato quel lavoro che, al tempo, era un unicum nella discografia del Boss, ma anche tutto quello che vi è ruotato attorno. Come spesso accade, la differenza fra quanto si può trovare facendo un’attenta ricerca, in rete, e quanto scritto e narrato da un critico, la fa tutto quello che esula dalla semplice cronologia dei fatti. Ben inteso, anche su questo fronte Zanes fa un ottimo lavoro, figlio di una formazione accademica che è nel suo Dna.

Zanes si è preso la briga, in primis, di intervistare Springsteen, e non solo da fan, ma da persona che voleva sapere e conoscere come fossero andate effettivamente le cose. In questo caso non si lascia parlare la persone interessata finché ha voglia, e come gli pare e piace, ma si lavora di sponda e ai fianchi, con domande formulate per effettuare quel carotaggio necessario al fine di scoprire cosa c’era davvero in profondità, e cosa abbia ispirato la gestazione di un lavoro. Solo andando in profondità si fa zampillare la fonte. Celebrare non serve a nulla e a nessuno; scandagliare bene il fondo sì, è lavoro utile e necessario. In questo modo la falda viene raggiunta e la sorgente emerge, con potenza, mentre l’acqua, zampillando, diventa chiara, dopo una prima fase decisamente torbida. Così quello che tutti sappiamo, e cioè il torbido appunto, il fatto che dopo “The River” avrebbe dovuto esserci “Born in The U.S.A”, acquista un senso e un valore differente da quello che già si conosce. Non solo perché in mezzo a “The River” e “Born in The U.S.A.” ci sia “Nebraska”, ma perché c’è stata una storia che si è stratificata, e che va seguita sui tre fronti che la caratterizza.

Quella storia, infatti, prevede, nell’ordine, il post-The River appunto, album doppio, che però ha lasciato indietro molte canzoni, ora edite in un cofanetto magnifico; la gestazione di Nebraska, che combacia con la nascita di parte di “Born in The U.S.A.”, quanto meno del singolo che, nella sua prima versione, trovate ora in “Tracks”; e, infine, in quello che è il vero senso di tutti questi anni, e cioè la ricerca di un suono, quello della band, e cioè di Springsteen e la E-Street Band, che doveva caratterizzare quel sodalizio. Insomma, siamo nel cuore della carriera di uno degli artisti più amati e più anomali dello star system del globo terrestre. Materia che scotta, e che va trattata con delicatezza, competenza e senza urgenze.

Zanes non ha di questi problemi e si dilunga anche quando non serve, senza però mai diventare pesante e pedante. I capitoli sono brevi, e questo agevola molto la lettura, soprattutto nella prima parte dove, di musica, si parla poco, ma si studia il contesto. Sul fronte del post “The River” la questione viene risolta in modo signorile. “The River” era, ed è, un buon album – per Zanes – ma a suo dire mancava di una precisa identità sonora. C’era da trovare la quadra di un solista che suonava bene solo con una band (è così ancora oggi). Inevitabile il paragone con Tom Petty, ma di fatto è solo accennato, senza diventare mai termine di paragone. Qui, in queste pagine, c’è tutta farina del sacco di Springsteen che, con i suoi tempi, dribblando un sistema – quello delle case discografiche – che è ben diverso dall’attuale, ma non così tonto da non capire che c’era necessità di trovare quell’identità sonora.

Così Zanes lavora su quei giorni di attese, di pathos e di ricerca. Li fa suoi, li legge, li apre, lo fa brillare e ci entra dentro. Vero, sono pagine lente, ma necessarie per capire. I dilemmi di Springsteen erano pesanti: proseguire il lavoro fin qui fatto, restando un bravo rocker nostrano negli States? Trovare una nuova direzione? Avviare un riciclo del tutto? Zanes tiene aperte le strade perché, di fatto, la soluzione al problema si trova solo ed esclusivamente nella camera dove, in solitaria, il Boss crea e produce Nebraska.

La teoria dello storytelling insegna che, una volta salvati i fatti, tutto il resto deve essere solo narrazione. Così Zanes, per costruire il suo racconto, pesca dalle parole dello stesso Springsteen, da quelle di alcuni collaboratori, e da una mole considerevole di testimonianze. Siamo nell’epoca della pietra, rispetto al nostro presente digitale. Nulla è disponibile in rete di quel periodo, mi riferisco alle testimonianze, ai video, alle registrazioni e così via, ma tutto deve essere trovate nel magico mondo analogico. Così ci si muove alla vecchia, e il materiale emerge per quello che è: carburante della narrazione.

Che Springsteen abbia girato con la cassetta in tasca, con le registrazioni di “Nebraska”, aiuta a capire come quel lavoro fosse già pensato così nella testa del Nostro, ma anche come di fatto fosse una prova generale per una ricerca sonora che implicava un’essenzialità sulla quale lavorare. Al fine di attendere e trovare spazio per far germinare “Born in The U.S.A”.

Così da quella cassetta, tecnologia obsoleta che sembra appunto impossibile da lavorare, da riprodurre e da mixare, si passa alla riproposizione pari pari di quelle registrazioni casalinghe, con la promessa che non si farà nulla, si legga concerti, promozione e live, se non attendere. Aspettare cioè che quel suono collettivo, e dunque ben amalgamato, e che sarà matrice di “Born In The U.S.A.”, arrivi. Espediente che funziona e che fa capire come da chitarra e voce si passi poi a un suono che è senza dubbio americano, ma è anche figlio dei tempi che c’erano, e nel quale si è prodotto. Con uno sguardo avanti, che è stato necessario per farne una pietra miliare nella carriera del Nostro.

Digressione. Fa specie, oggi, in tema di anniversari, leggere stucchevoli special, proposti nelle pagine di serie riviste di settore, dove si sottolinea come quell’album, tutto sommato, non sia poi così bello. Anzi, per alcuni non solo è brutto, ma è pure deludente. In primis, vien da chiedersi se chi scrive si rende conto di cosa gira e circola di quest’epoca. Poi vien da domandarsi se davvero ha ragione chi critica, o chi, aggiungendo una batteria e un synth, e facendo gridare Springsteen, ha creato una delle canzoni più conosciute al mondo. Io non ho dubbi, ma lascio a voi l’ardua sentenza, mentre io, con mestizia, chino la testa. Questo per dire che del senno di poi ne son pieni i fossi, come d’altronde del benaltrismo.

In sostanza, Zanes dimostra, nel suo racconto – si tenga presente questa cosa – che senza la pausa meditativa, figlia anche di una crisi personale che, per rispetto, non è giusto toccare e indagare, Springsteen non sarebbe arrivato dove voleva, e cioè a un suono che allargasse la sua base, arrivasse a tutti e diventasse internazionale. Forse sarebbe rimasto un buon rocker da feste provinciali negli States, e poco più. Pare che sia sempre una colpa diventare una star, essere voce di tanta gente, fare sognare i più. Ed ecco che quell’inscindibile diade che sono “Nebraska” e “Born in The U.S.A.” servono per far fare il salto di qualità al Boss. E vanno vissuti insieme, e ascoltati con il materiale di scarto che si trova in “Traks”. Fate questo percorso di ascolto mentre leggete il libro, non ve ne pentirete. Tutto sarà ben evidente, e chiaro.

Senza scordare che poi, il Nostro, non solo tornerà con voce e chitarra e, dunque, ci riproverà, con buoni risultati, in altri tre album; ma otterrà anche un Oscar con un brano che è decisamente figlio di quell’esperienza musicale. E dato che Springsteen, con sapienza, mette in vendita tutti i suoi live sui suoi canali ufficiali, compratevi anche il live solo del tour di “Devil & Dust”. Poi, ascoltato con onestà anche questo, ditemi se ha senso stare a sindacare se i synth abbiamo o meno tradito chissà chi e chissà che cosa; se “Dance in The dark” sia o meno un pezzetto troppo pop da discoteca; se l’album abbia o meno solo una bella canzone.

In conclusione, Zanes fa capire in questo bel testo ben documentato, come Springsteen abbia costruito due mondi sonori. Quello con la E-Street Band, che imploderà di lì a poco, per poi risorgere dalle ceneri dell’11 settembre; e quello del Boss cantautore, che decollerà ben oltre le feste di paese nella campagne statunitensi. Credo che basti questo per capire che il lavoro di Zanes è prezioso per ogni fan che voglia provare a uscire dalla sua comfort zone; e allo stesso tempo, citando il Poeta, utile a Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi che, di fatto, dimenticate sempre i contesti, lo spazio-tempo, e cercate l’opera figlia di un assoluto, cantato, se possibile, dalla Musa ispiratrice.

Tuttavia, lo stesso Omero scrisse Cantami o Musa… Lo scrisse appunto, facendolo diventare un mero espediente. Quindi, di manna che piove dal cielo non ce n’è. Zanes ce lo mostra sviscerando il lavoro, le tensioni e le passioni che hanno caratterizzato l’uscita di tre album epici (per l’appunto…): “The River”, “Nebraska” e “Born in The U.S.A.” Chi non è contento, può sempre cercare bellezza altrove, se ne trova…

Articolo di Luca Cremonesi

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