Nata e cresciuta nella scena musicale contemporanea di Toronto, più volte candidata ai Canadian Folk Music Award, la cantautrice Andrea Ramolo è stata capace di mantenere un solido legame affettivo e artistico con la terra della sua famiglia, tessendo un affascinante intreccio tra due territori lontani e molto diversi. Davide Falcone, in arte James Meadow, cantautore e conduttore di “Where The Lions Are”, programma sul cantautorato di stampo nordamericano sulle frequenze di ADMR Rock Web Radio, l’ha incontrata per Rock Nation, in un viaggio nelle sue canzoni e nel suo percorso artistico.
Inizierei il nostro viaggio dal lato canadese dell’oceano e vorrei che mi portassi, se ti va, nella Toronto in cui sei cresciuta. Nei mesi scorsi ho infatti avuto l’onore di intervistare Colin Linden e Bruce Cockburn con i quali ho parlato della scena musicale di Toronto degli anni ’60 e ’70. Qual è stata invece – e qual è tuttora – la tua esperienza personale di questa città e, in particolare, della sua scena musicale? Continua a essere un fertile centro culturale?
Colin e Bruce sono entrambi più vecchi di me, per cui quando loro erano immersi in quella scena musicale di Toronto io purtroppo non ero ancora nata. Avrei voluto esserci, perché ho sentito dei racconti fantastici rispetto a quell’epoca, sulla musica in generale e la scena specifica del centro di Toronto. Queen West e Yorkville erano pieni di coffee shop in cui potevi sentire suonare Gordon Lightfoot, Joni Mitchell e Neil Young… ed era una cosa normale! Io sono un po’ più giovane, sono nata nel 1980, e mi sono avvicinata alla musica molto più tardi: ho iniziato a suonare la chitarra solo all’età di ventitré anni, quando a mia madre fu diagnosticato il primo tumore al seno, al terzo stadio. Mio padre, che è molto musicale e suona la chitarra, la fisarmonica e l’armonica, aveva una vecchia chitarra ed è su quella che ho imparato a suonare, da autodidatta.
Sono quindi entrata nella scena musicale di Toronto nei primi anni Duemila e sono stata accolta a braccia aperte. C’era ancora un grande fermento, in gran parte della scena musicale canadese, dal country al blues, dal folk al cantautorato. Frequentavo posti come la Cameron House, un locale iconico che esiste da non so quanti anni, l’Horseshoe, che è il più antico locale di Toronto dove Colin e tutti gli altri hanno suonato e dove ho suonato anch’io. Poi c’era la Dakota Tavern, dove facevamo regolarmente delle residenze e in cui ho fondato un collettivo tutto al femminile nel 2011. Eravamo tutte artiste donne della scena musicale di Toronto, e per circa tre anni ogni lunedì sera suonavamo in un piccolo club, una sorta di pub in stile newyorkese chiamato Not My Dog che si riempiva talmente tanto di persone da non potersi più nemmeno muovere. Suonavamo sui nostri reciproci materiali fino alle due del mattino; stavamo insieme, imparando le une dalle altre. Ma prima ancora, prima di diventare cantautrice, facevo l’attrice a Toronto e lavoravo in un locale chiamato The Orbit Room, uno dei più famosi club musicali di Toronto che purtroppo ha appena chiuso a causa del Covid. Per circa trenta/trentacinque anni era da lì che passavano i migliori musicisti della scena reggae, rock-n-roll, top 40, pop… c’era di tutto, alcuni dei migliori musicisti che si potessero trovare dal vivo a Toronto. Io ci sono stata per cinque anni e ho imparato moltissimo, cantando di tanto in tanto in una cover band chiamata Stifler’s Mom con membri di alcuni dei più grandi gruppi rock’n’roll dell’epoca, oppure lavorando da dietro le quinte, come maschera o dal tavolo del merchandising.
Quando penso a quei posti e a quelle persone mi rendo conto di quanto mi abbiano lasciato. Sono stati la mia formazione musicale, quella che mi ha aperto le porte e mi ha insegnato a diventare un’artista. È uno stile di vita molto particolare e ancora fiorente, nonostante sia cambiato molto negli ultimi anni, non solo a causa del Covid. Mi sembra che viviamo in un mondo talmente saturo di arte, talmente saturo di tutto – con i social media, con questo e quell’altro – che a volte culturalmente come popolo perdiamo l’attenzione, e la togliamo alle arti e alla musica. Penso ad esempio a quanto sia cambiata la nostra esperienza nell’ascoltare e rapportarsi alla musica al giorno d’oggi rispetto a un tempo: se una volta si metteva su un disco in vinile, si ascoltavano entrambi lati, ci si sedeva con i musicisti per cercare di cogliere in profondità il suono dell’intera produzione, oggi invece è tutto un po’ del tipo “ok apro Spotify, ascolto questo e quello, un singolo qui e un singolo là”. Quindi mi sembra che tutto sia oggi molto spezzettato, molto diviso. È un periodo diverso, ma a mio modo cerco ancora di rimanere legata a quel vecchio stile di ascoltare e suonare, perché mi piace essere in giro, andare in tour, e credo che questa sia ancora una delle strade per farlo funzionare; anche se, da due anni a questa parte, è sicuramente tutto un po’ più impegnativo.
Siamo distanti ma tutto quello che dici ha perfettamente senso anche dal mio punto di vista. Mi soffermerei allora, ancora per un attimo, sulle tue origini musicali: c’è una canzone che potrebbe descrivere o evocare quel periodo, o che ti ha ispirato a intraprendere la strada del cantautorato?
Direi che l’ispirazione sia arrivata molto prima dei miei vent’anni, perché cantavo fin da bambina, a scuola, ai talent show, o con alcune rock band. Ricordo che feci una versione di “Stairway To Heaven” davanti alla mia scuola e tutti si alzarono in piedi per tributarmi una standing ovation… in quel momento, a quindici anni, ho capito che avrei voluto essere una cantante [ridendo]. Credo però che l’artista che mi abbia fatto davvero desiderare essere una cantante e performer sia stata Janis Joplin. Ricordo ancora quando trovai la sua cassetta “The Greatest Hits of Janis Joplin”: avevo circa dodici anni, ero in un cottage estivo dove andavo con la mia famiglia e ascoltavo quel nastro tipo dieci volte al giorno, ogni singolo giorno, imparando ogni singola parola. Devo aver pensato: Voglio essere lei. Voglio fare questo, proprio così.
E non era tanto il suono della sua voce – e molte persone potrebbero anche obiettare che Janis Joplin non aveva una bella voce – ma il suo modo di interpretare i testi dei brani, quella passione che ci viveva dentro, che risuona con me perché è così che mi piace comunicare le mie canzoni, anche se la mia voce è molto diversa dalla sua. Quindi direi che lei sia stata una grande fonte di ispirazione; lei e anche la sua musica, perché è stata capace di catturare l’essenza del blues, del folk, del country e della canzone d’autore… tutto in uno. E in effetti questi sono i generi con cui ho iniziato. Poi, dopo i miei due dischi con Scarlett Jane e gli altri tre da solista, il mio sound è cambiato ed è diventato un po’ più lo-fi e contemporaneo, con la chitarra baritona. Ma le tue radici sono sempre le tue radici, e apprezzo ancora tanto tutti quei generi musicali.
A proposito di questa evoluzione nella tua produzione e nel tuo percorso artistico credo che un incontro importante, correggimi se sbaglio, sia stato quello con Michael Timmins dei Cowboy Junkies. Come vi siete incontrati e che tipo di esperienza è stata essere in studio con lui come produttore?
Beh, io adoro Michael, ed è diventato un caro amico negli ultimi anni. L’ho conosciuto quando ero coinvolta sentimentalmente con Tom Wilson – che conosci tramite Colin Linden – e sono andata a registrare alcune voci sul disco Beautiful Scars del suo progetto solista “Lee Harvey Osmond”, di cui Michael Timmins è sempre stato il produttore. Ho cantato in studio su alcune canzoni che Tom ed io avevamo scritto insieme e in quel modo ho conosciuto Michael. Amo il modo in cui lavora, amo il fatto che sia una sorta di regista creativo e tranquillo, che non impone le sue scelte e che crea uno spazio in cui l’artista può sperimentare e sentirsi abbastanza a suo agio da essere sé stesso. Questo per me è il miglior tipo di produttore che tu possa incontrare. Inoltre amo il fatto che sia un genio del mixaggio: sono fenomenali, amo il suono che è in grado di ottenere, quel suono caldo e lo-fi tipico dei dischi dei Cowboy Junkies. Così i miei due dischi che ho fatto con lui – “Nuda”, che è un doppio album, e “Homage” che è un omaggio alle canzoni di Leonard Cohen – ricordano quel suono dei Cowboy Junkies. Mi piace molto, è qualcosa di poco appariscente ma che, allo stesso tempo, quando lo senti, ti fa venire voglia di sederti e ascoltare.
Parlando di “Homage” e dell’eredità canadese anche nella tua musica, volevo chiederti se ti va di raccontarmi qualcosa di più di quell’esperienza, di quel progetto in particolare.
“Homage” è stato un’opera d’amore per me, un progetto che ho finanziato completamente da sola e che ho voluto prendere come una sfida, perché non ho mai incontrato Leonard di persona, ma ho vissuto nella sua casa a Montreal lavorando per qualche settimana con suo figlio Adam Cohen. Con il mio duo Scarlett Jane eravamo infatti state ingaggiate per fargli da coriste e ci siamo così trovate sul palco di Place Des Arts con l’Orchestra sinfonica di Montreal. È stata un’esperienza incredibile salire su quel palco senza amplificazione ma con un suono perfetto, in questo bellissimo teatro dorato di Montreal con un’orchestra di 80 elementi. Per preparare quel concerto ho quindi vissuto a casa sua per un periodo. Lui non c’era, era a Los Angeles, ma potevi comunque percepire la sua energia in casa, la sua presenza con tutti quei pezzetti di lui: il suo cappello appeso all’ingresso, la sua libreria e i vari bellissimi tappeti che aveva nel suo stile molto semplice. Sono sempre stata una grande fan della sua scrittura.
Ho studiato letteratura e inglese e teatro a scuola e quindi possedevo uno dei suoi libri di poesia, avevo letto molte delle sue opere e adoro il suo modo di scrivere canzoni. Volevo quindi provare a sfidare me stessa per trovare la mia strada nelle sue parole con la mia voce. Volevo sperimentarmi cantando i suoi brani. Sceglierne 10 però è stato così difficile! Ne ha migliaia e migliaia e, alla fine, dopo quattro mesi di ascolto di ogni singolo disco, ho preferito virare su canzoni meno conosciute, a parte “Suzanne” e “Famous Blue Raincoat”, che è la mia canzone preferita di Leonard Cohen. Di questa ne abbiamo fatto una versione molto struggente di cui adoro la produzione di Michael. Allo stesso modo amo quello che ha fatto su “My Oh My”, rendendola un po’ più contemporanea, un po’ più blues. È stata un’esperienza davvero stimolante che mi ha anche portato ad essere nominata ai Canadian folk Music Awards come cantante contemporanea dell’anno. Ma soprattutto era qualcosa che desideravo profondamente fare in quel momento: invece di scrivere le mie canzoni volevo prendere questo scrittore geniale, i suoi scritti e il suo materiale e fare come un attore deve fare con il suo copione; e volevo che Michael ne fosse il regista. È stata una grande collaborazione, come la prima, e ne sono stata molto contenta.
Davvero un bel modo di spiegare e descrivere il progetto! Sempre a proposito di legami con il Canada e la sua musica, nel 2017, credo, hai aperto un concerto di Bruce Cockburn. Se potessi, mi piacerebbe essere riportato a quell’incontro, a quel concerto.
È stato nel 2017 o nel 2016? Non ricordo esattamente l’anno, perché prima della pandemia è tutto molto confuso. In tutti i modi ricordo che ero con la mia band, Scarlett Jane, ed eravamo state invitate a suonare con lui in questo festival, un piccolo festival, nel nord della British Columbia… ed era veramente il nord della British Columbia! Ci è voluto un sacco di tempo per volare lì. Ma è stato fantastico: Bruce indossava i suoi guanti e i suoi occhiali da sole sul palco e noi abbiamo suonato proprio prima di lui. Sai, è un musicista geniale ed è un grande scrittore. Non era la prima volta che lo vedevo dal vivo ma era la prima volta che aprivo per lui… ed è sempre un piacere aprire per questi grandi nomi perché si impara molto. Voglio dire, siamo ancora studenti di queste persone, no? Ci hanno aperto la strada e la longevità delle loro carriere è qualcosa da ammirare perché al giorno d’oggi, come ho detto, si cerca sempre la soluzione più rapida. Tutto va e viene velocemente mentre persone come Bruce Cockburn o Gordon Lightfoot suonano da sempre e continuano a evolversi e a reinventarsi, pur rimanendo fedeli a sé stessi, al loro suono, alla loro musica e al loro mestiere. Quindi ogni volta che ho la possibilità di suonare con un artista del genere sono in soggezione e anche molto onorata; perché c’è un grande davanti a te e sei consapevole che se tu avessi anche solo la metà della loro carriera saresti felice.
Sì, sono pienamente d’accordo… anche se credo che, come generazione, abbiano avuto qualche privilegio. Ma questo è il mondo e l’industria musicale con cui dobbiamo fare i conti. A proposito di questo, come sai, ogni due settimane nel mio programma radiofonico “Where The Lions Are” seleziono un gruppo di canzoni legate a un tema e ci sono due regole che mi sono imposto di seguire: la prima è quella di avere sempre un brano di Cockburn, un artista poco conosciuto in Italia; la seconda è quella di perseguire il più possibile un equilibrio tra voci femminili e maschili. Quest’ultima è più ardua da rispettare; mi sembra che il mondo in generale, ma emblematicamente il cantautorato, sia ancora profondamente sbilanciato su un universo maschile (e maschilista). Mi piacerebbe quindi conoscere il tuo punto di vista su questi temi, se ti va di parlarne. Magari partendo dalla bellissima canzone “Chameleon”, dal tuo album “Nuda” del 2017, o da “Road Kill”, dal tuo ultimo disco, in cui al di là del racconto cinematografico di uno dei tanti viaggi notturni durante un tour, quando nel ritornello canti I can take the wheel for a little while ci sento una sorta di rivendicazione politica. È vero?
Assolutamente sì! Anche se “Road Kill” è una canzone che non ha necessariamente una prospettiva femminista, io mi sento tale e cerco sempre di lottare per questi diritti: il mio intero disco “Quarantine Dream” è stato realizzato con sole donne in ruoli di leadership. Dal mio produttore al mio ingegnere di missaggio, al mio ingegnere di masterizzazione, al pubblicitario, a tutti i fotografi, registi video e ospiti del disco, tutti erano donne. Quindi è molto importante per me essere parte del cambiamento che voglio vedere avvenire, perché hai ragione, è un mondo di uomini. E non è che il mondo della canzone d’autore sia un mondo di uomini, perché ci sono milioni di talentuose cantautrici o cantautrici non binarie che si identificano come donne. È invece l’industria che continua ad essere patriarcale, proprio come ogni altra industria. E allora cosa possiamo fare? Possiamo prendere queste piccole decisioni che in realtà sono decisioni enormi.
Per esempio, io amo Michael Timmins. Lavorerò ancora con lui? Assolutamente sì! Mi piacerebbe molto. Ma è più importante per me, in futuro, continuare ad assumere donne in questi ruoli di produzione perché rappresentano non so quale piccola percentuale nel settore. Questo è qualche cosa da fare più importante per me, anche se conosco un milione di grandi musicisti maschi e a volte è difficile trovare le donne. Perché? Non perché non ci siano o non abbiano talento, ma perché l’industria e il mondo della musica rendono difficile per le donne avere una carriera duratura, soprattutto se una donna vuole diventare genitore o madre. È molto più facile per un uomo che ha appena avuto un figlio con la sua compagna, diciamo, andare in tour. Non devono rimanere bloccati a casa ad allattare. E su questo tema ci sarebbe da aprire un intero altro mondo di discussioni. Poi, se consideri i festival musicali, non ricordo esattamente le percentuali che ha presentato qualche anno fa la rivista Rolling Stone, ma le donne headliner nei festival musicali si aggiravano intorno a una percentuale del 10/20%; o ancora, se si guarda alla composizione delle band, sono sempre maschi-maschi-maschi-maschi-maschi-maschi-maschi. Ok, lo abbiamo capito, ma ci siamo anche noi e siamo davvero talentuose e interessanti e abbiamo molto da offrire!
Quindi in questo senso “Road Kill”è un commento politico, perché l’intera canzone è una metafora sul modo in cui il mondo tratta i suoi artisti, sul prendere posizione per quello che facciamo e anche sull’essere in grado di dire “no, basta così” e di porre dei limiti artistici ed energetici per continuare a perseguire nelle nostre carriere. “Chameleon”, ma anche “Coming Out”, entrambe sul disco “Nuda”, sono tutte incentrate su come liberarsi dalle catene e trovare la propria voce femminile in questo settore. Quindi è un bene che tu abbia colto questi aspetti e credo che sì, parlando dal mio punto di vista – che è un punto di vista femminile – penso che dobbiamo continuare a creare spazio per le donne, non solo sui palchi dei festival, ma anche nei ruoli di leadership, di produzione e dietro le quinte. Dobbiamo incoraggiare le bambine in giovane età: “puoi essere un produttore musicale, puoi essere un ingegnere audio!”. Ad esempio, la canzone Free che chiude il mio disco l’ho scritta con due donne potenti: una di loro è Kinnie Starr, una sorta di sorella, che è un’artista incredibile e a volte produce anche le sue cose, l’altra è Hill Kourkoutis, una mia amica di origini greche, una donna straordinaria che quest’anno è entrata nella storia del Canada dopo circa 65 anni perché è stata la prima donna a vincere un Juno Award, l’equivalente canadese dei Grammy Awards negli Stati Uniti che celebrano l’eccellenza musicale. Lo ha vinto come ingegnere audio dell’anno grazie a due dischi che ha prodotto per due grandi amiche: SATE, una dea del rock’n’roll e dell’afro-punk, e Tania Joy.
Quindi questo mi sembra essere un momento storico cruciale in cui pare che le cose comincino a cambiare, in cui dobbiamo perseguire in tale intento e in cui anche gli uomini, gli uomini dell’industria musicale, devono partecipare a questo cambiamento. Perché, ad esempio, sono arrivata in Italia e ho visto il cartellone di un festival in cui c’erano solo due donne! Penso che sia giunto il momento di aprire un po’ di più gli occhi su ciò che sta accadendo nel mondo e, se hai un ruolo di leadership e il potere di selezionare le lineup dei festival e le serie di concerti, è ora di fare meglio i tuoi compiti a casa creando più spazio a noi donne.
Sono assolutamente d’accordo. Hai parlato di “Free”, dal tuo ultimo album, e anche in questa canzone c’è una forte rivendicazione politica. Ti va di presentarla?
“Free”è una canzone pesante e non so quanto il pubblico italiano abbia familiarità con la storia canadese, con la politica canadese e con il razzismo che esiste in Canada. Perché molte persone non lo conoscono, pensano che il Canada sia un paese giovane e amichevole. Ma in realtà abbiamo tanti scheletri nell’armadio, abbiamo un’antica relazione distruttiva e pietosa con il modo in cui il governo canadese, la chiesa cattolica e le altre chiese confessionali cristiane hanno trattato le popolazioni indigene, i primi popoli di questa terra, al di là della violenza della colonizzazione che è avvenuta in molti continenti, come ben sappiamo. Sono infatti stati appena scoperti più di settecento resti, resti corporei di giovani bambini indigeni costretti a lasciare le loro case per andare nelle scuole residenziali. Queste scuole erano state istituite dal governo e dalla Chiesa per sbarazzarsi del problema degli indiani, come venivano chiamati i popoli indigeni. Quindi è come se esistessero strati e strati di danni e distruzione per i quali c’è bisogno di una riparazione che può arrivare solo dal rivelare la verità. Ora siamo in una fase in cui, da una verità che è sempre stata lì ma alla quale la gente sembrava essere cieca, inizia ad esserci una maggiore attenzione: “Ehi, sai, abbiamo annientato un’intera cultura ed è ora di chiedere scusa e creare uno spazio per la riconciliazione”. “Free”è inoltre una canzone che abbiamo scritto poco dopo l’assassinio di George Floyd negli Stati Uniti, e interseca quindi i temi del razzismo, del classismo, della repressione socioeconomica e anche dell’omofobia e della transfobia.
È una canzone che esorta ad unirsi e ad alzare la voce per un cambiamento e per il bene. La parte più bella dell’intero progetto però è forse stata poter dirigere il video con Kinnie Starr e avere come co-regista la nostra star danzatrice di otto anni, la più dolce e bella danzatrice indigena di hoop – ora ne ha nove di anni – che è diventata come mia nipote e si chiama Emilee Ann Pitawanakwat. Quest’anno lei era entusiasta perché abbiamo vinto il premio per il miglior video musicale folk ai Canadian Independent Music Video Awards. Per me è stata anche la dimostrazione della forza che può avere la musica quando le donne si uniscono, giovani e meno giovani, per il cambiamento e la sensibilizzazione.
Prima ho accennato al tuo brano “Road Kill” e da questo spunto mi piacerebbe che mi raccontassi, se ti va, qualcosa sulla tua prospettiva legata alla vita artistica: le sue bellezze, le difficoltà, le contraddizioni. Quali differenze percepisci, inoltre, quando suoni dal vivo, tra il Canada e l’Italia?
È una domanda interessante, ma è una domanda da dividere in due parti e mezzo! Prima di tutto amo questa carriera che ho scelto, e non continuerei a farla se non la amassi così tanto. Penso che tu possa sopportare le difficoltà che ci sono solo se senti che devi fare musica. Una volta una mia insegnante di recitazione mi ha detto: “Se non senti il bisogno di fare arte, non farla. Se non senti nelle tue ossa, nel tuo sangue e in ogni fibra del tuo essere che devi farla, non farla”. Perché è una sfida troppo impegnativa, con ripercussioni, e non c’è una ricetta per il successo; per cui devi guidare questa carriera con il cuore, perché a volte ti butta veramente giù. Quindi adoro viaggiare, adoro la possibilità di incontrare persone come te – cosa che non sarebbe potuta succedere se non fossimo entrambi musicisti – adoro cantare dal vivo per la gente, adoro la connessione che si crea tra pubblico e artista, quella conversazione attraverso il suono e attraverso il testo e attraverso le immagini.
Ma ti dirò anche che nella maggior parte delle società, soprattutto in quelle nordamericane, il nostro lavoro, la nostra vocazione, credo sia sempre più trattata come un hobby e non venga rispettata come carriera, e come vocazione. Perciò io con questo ho un problema enorme, così come molti dei miei colleghi. Perché questo si ripercuote, se vuoi vederlo da un punto di vista economico, sul fatto che è difficile sopravvivere come artista. Ho iniziato a fare tournée in Europa e in Nord America nel 2008, e in quasi 15 anni di tournée i compensi non sono cambiati, semmai a volte sono diminuiti, ma il costo della vita è raddoppiato. Quindi, se vogliamo che gli artisti prosperino, dobbiamo trattarli con rispetto, dobbiamo pagarli di conseguenza. Penso anche che in Canada possiamo ancora ritenerci fortunati, dato che spesso abbiamo il sostegno del governo e non avrei potuto fare metà dei miei dischi se non fosse stato per quello… ma è necessario un cambiamento, un cambio di mentalità che credo debba venire dall’alto, dai politici, dalle persone che fanno le leggi e dalle persone che investono denaro. Dunque sì, è una lotta enorme, ma è sicuramente un modo romantico di vivere ed è un modo fantastico di connettersi con gli altri esseri umani.
Riguardo alle differenze tra Canada e Italia… è difficile da spiegare. Amo il Canada e amo i miei fan qui, ma c’è un certo tipo di presenza e di coinvolgimento nel pubblico italiano che non trovo in Canada. Credo sia una questione culturale: il pubblico italiano mi sembra più coinvolto, che applauda, che canti e che sia un po’ più sciolto quando si relaziona con gli artisti sul palco, mentre quello canadese è molto educato e a volte non si scatena più di tanto. Inoltre per me, venire in Italia, significa viaggiare nella terra dei miei genitori, una terra con la quale mi sento connessa e in cui mi sento me stessa. Mi piace così tanto venire in Italia! È un’esperienza completa: il cibo, il vino, le persone, l’odore del mare, l’umidità nei capelli, nella pelle, nel sudore della fronte… e quando riesci a fare la cosa che ami di più in un posto che ti è caro è un piacere doppio. Ma direi che il Canada abbia, credo, più fondi per sostenere le arti rispetto all’Italia, e vorrei che il governo italiano si occupasse un po’ di più dei suoi artisti, anche da un punto di vista economico. In tutti i modi mi piace far parte di entrambi i mondi: da un lato sento di essere molto fortunata perché, parlando italiano, quando sono in tournée in Italia mi sento a mio agio, posso praticare la lingua e in un certo senso reimparare la mia cultura, dall’altro lato sono nata e cresciuta sul suolo canadese quindi, nonostante un legame più forte con l’Italia, mi sento parte di questa terra, capisco le sfumature delle folle e delle persone nel pubblico e come reagiscono. In definitiva sì, è bello essere metà e metà!
A questo punto penso che, metaforicamente parlando, siamo arrivati in Italia. Mi viene quindi in mente “Wild Fire”, il mio brano preferito del tuo duo con Cindy Doire, Scarlett Jane. Me la presenteresti?
Assolutamente sì, ed è anche la mia canzone preferita di Scarlett Jane. Io e Cindy l’abbiamo incisa sul nostro primo disco, “Stranger”. È un brano che parla di mia nonna, che ho perso circa sei settimane fa e mi manca moltissimo. Eravamo molto, molto vicine e la sento con me ogni giorno, soprattutto quando canto questa canzone; per questo durante il tour in Italia la suonavo ogni sera, per onorare lei e la sua storia. Racconta di un incendio, un incendio selvaggio scoppiato nel campo che coltivava a Limosano, che è un piccolo paese medievale in cima a una bellissima collina in Molise, nella provincia di Campobasso, in cui sono nati entrambi i miei genitori. Limosano è una città magica per me, è così antica e così distrutta dai terremoti ma così bella! Gli alberi crescono dai ruderi dei vecchi edifici e poi lì sono sepolti tutti i miei bisnonni e ho ancora alcuni parenti che ci vivono. Negli anni ’60, probabilmente era il 1964 o il 1965, prima che si trasferissero in Canada, i miei nonni erano contadini e, come la maggior parte della gente di Limosano a quel tempo, preparavano il terreno alla semina per l’anno successivo accendendo un fiammifero e bruciando le vecchie coltivazioni.
Prima venivano scavati dei fossi lungo l’esterno del campo, una sorta di quadrato di trincee che dovevano mantenere il fuoco all’interno. Ma un giorno c’era così tanto vento che le fiamme riuscirono a scavalcare la trincea, attaccarsi ad alcuni alberi e diffondersi talmente veloci da non poterle più controllare. Alla fine bruciarono la casa di mia nonna, la sua fattoria e la casa dei vicini. E quando sei un contadino – e i miei nonni erano contadini – non hai denaro, non avevano mai avuto denaro: barattavano grano, pomodori, olive e qualsiasi cosa avessero. Avevano un solo maiale che doveva bastare per tutto l’anno per l’intera famiglia. Dunque quando succede un incidente enorme, un danno di questo tipo, non hai sufficienti risorse per ripagarlo. Quindi nella mia testa ho sempre avuto queste domande: è questo il motivo per cui vi siete trasferiti in Canada? Siete partiti subito dopo? Perché effettivamente la prima volta che si sono spostati in Canada è stata poco dopo quell’incidente. Poi erano ritornati in Italia, ma solo per qualche anno, prima di stabilirsi definitivamente in Canada. Questa canzone, “Wild Fire”, è quindi il racconto della storia di mia nonna, la sua storia di resilienza, di sopravvivenza, di forza, di tragedia e di bellezza; ed è una canzone davvero speciale per me, da continuare a cantare dopo tutti questi anni.
E a proposito di Limosano, sei riuscita a mantenere un forte legame con questo paesino del sud Italia, tanto che quest’estate hai persino organizzato lì un concerto, durante il tuo tour europeo. Sono davvero curioso di sapere che tipo di esperienza è stata, che tipo di vibrazioni, che tipo di sensazioni ha suscitato quella serata.
Oh, è stato così emozionante! È stato emozionante guidare fino alla città, riportare le foto dei miei nonni al cimitero, metterle sulla tomba dei loro genitori in modo che potessero essere tutti riuniti. È stato un momento molto rituale per me, molto significativo e magico. Il concerto in città l’abbiamo fatto nella piazza fuori dall’hotel, l’unico hotel in città. Proprio lì c’è un bar e devi sapere che quella sera si stava giocando una partita, la partita di calcio del Milan e, naturalmente, nel Sud Italia i tifosi di calcio sono molto accaniti… quindi c’era fuori praticamente tutta la città, centinaia di persone – e conta che a Limosano ce ne sono solamente 500 perché è molto piccola. È stato davvero bello vedere parenti, amici, membri della famiglia che ci hanno comprato dei mazzi di fiori, uno per me e uno per la mia compagna di tournée Sara Romano, e poi regali e biglietti… si capiva che erano grati per quel concerto e io ero ugualmente grata per l’opportunità di suonare per loro. Era la prima volta che suonavo lì e sentivo come se, in qualche modo, stessi onorando i miei genitori e mia nonna, anche solo per il fatto di essere lì a fare quel dono musicale alla città. Anche se ho cantato la maggior parte delle canzoni in inglese – credo di averne cantate solo due o tre in italiano – è stato comunque bello poter essere lì presente e fare quello che faccio portando il mio amore per la musica e l’arte a questa piccola città che ho nel cuore, che sento come se fosse anche la mia città.
Sì, riesco proprio a immaginarlo. Sempre a proposito del forte legame emotivo e artistico che hai con l’Italia e delle canzoni in italiano che hai suonato, la tua interpretazione di “Caruso” di Lucio Dalla è davvero profonda e recentemente ti sei anche sperimentata con la scrittura di una canzone interamente in italiano. Penso che sia affascinante pensare a ciò che una lingua porta con sé quando la si guarda in musica, in una canzone. Per esempio noto spesso come scrivere in inglese, che non è la mia lingua madre, sembra permettermi di staccarmi dall’ego e da un io più razionale… cosa ne pensi di questo tipo di interazione tra lingua e musica?
Mi ricordo quando, non molto tempo fa, ero nel backstage di un concerto dei Blackie And The Rodeo Kings a chiacchierare con la band e avevo il mandolino di Colin in braccio. Non lo so suonare molto bene, ma conosco circa cinque o sei accordi, così ho iniziato a suonare “Rose Rosse Per Te” di Massimo Ranieri, perché è facile da suonare e conoscevo le parole. Colin mi ha sentito suonare e, anche se non capisce una parola di italiano e non so nemmeno se stessi cantando bene, si è fermato e ha detto: Wow, questa è la tua voce! Ti ho già sentito cantare tante volte, ma quando canti in italiano è semplicemente magico, c’è qualcosa di speciale! E questo me l’hanno detto in molti, soprattutto persone che non parlano italiano. Il che è interessante perché, se ricordi il nostro concerto a Fidenza, avevo provato a cantare la mia canzone originale in italiano “Una Lettera” … e qui è dove l’ego si disinnesca definitivamente! Una donna è venuta da me dopo il concerto e mi ha detto: Sai, sei fantastica! Penso che tu sia fantastica! Ma ho solo… posso darti un consiglio? e poi mi fa: Dovresti continuare a scrivere in inglese perché quando scrivi in italiano non puoi essere così… così ovvia! o qualcosa del genere. È sicuramente positivo avere un feedback, e questa è stata la mia prima canzone in italiano, ed è vero che non ho una padronanza della lingua come in inglese.
È un processo di scrittura diverso perché in italiano autori come De Gregori, Fabrizio De André, Lucio Battisti hanno testi che non sono banali, i loro testi sono molto poetici e contengono sempre metafore e simbolismi. Io so come farlo in inglese perché capisco la lingua, ne ho padronanza perché è la mia lingua madre, mentre in italiano ho una comprensione molto semplificata della poesia e quindi non so cosa sia profondo e cosa no. Allo stesso tempo però, quando ero in Germania e ho cantato in italiano, una donna è venuta da me e mi ha detto: Ci piace il tuo inglese ma sei molto meglio in italiano! Devi fare un album interamente in italiano. Quindi è interessante, questo mi fa pensare che i non italofoni, per qualche motivo, siano molto più connessi alla musica quando canto e suono in italiano e dunque che, forse, non siano i testi a commuovere le persone, a connetterle alla musica, ma l’energia, il sentimento, la melodia, il tono, il mondo che stai creando attraverso la musica. Penso che la lingua sia importante, ma penso che la musica parli al di là del testo, al di là delle parole. Mi chiedo se possano sentire la mia vulnerabilità quando canto in italiano, che non è la mia prima lingua, e quella separazione dal mio ego di cui parlavi. Mi chiedo se riescano a sentire questa vulnerabilità, se la sentano bella e fragile ed è a questa che si connettano. È una cosa interessante da notare. In tutti i modi sì, cercherò ancora di scrivere un brano in italiano… e in realtà ho un progetto italiano in arrivo, non necessariamente musica originale, ma la musica del Sud Italia, la musica popolare del Sud Italia. Quindi dovrò imparare il dialetto della Puglia, del Salento, e sarà un’altra grande lezione, sai, un sacco di apprendimento e di crescita.
Ho un’altra domanda sulla scrittura e questa riguarda la co-scrittura. Infatti credo che anche questa sia un’esperienza unica e interessante, che possa in un qualche modo scardinare l’intimità individuale a cui spesso si associa il cantautorato. Mi piacerebbe quindi conoscere il tuo punto di vista su questo tema a partire, ovviamente, dalla tua esperienza.
Beh, ho avuto molte esperienze di co-scrittura perché nella mia band, Scarlett Jane, abbiamo scritto ogni singola canzone insieme, tutto era al 50%, e abbiamo co-scritto tra le trenta e le quaranta canzoni. All’inizio è stato difficile, perché quando si viene da un processo di scrittura solista ed entri invece in un mondo in cui sei in due ma devi avere una voce sola è come essere un mostro a due teste. Però siamo diventate molto brave ad armonizzarci e a scrivere da un’unica prospettiva, anche se a volte, sai, c’era tensione: no, credo che debba essere questa l’immagine; no, credo che debba essere questa la sensazione che stiamo comunicando. Sono servite alcune canzoni e poi abbiamo capito che, a volte, devi sacrificare le tue idee individuali migliori per servire il gruppo, per servire il duo, per servire la canzone. Perché alla fine è la canzone la cosa importante. Poi ci sono state altre esperienze di co-scrittura. Ad esempio ho scritto molto con Tom Wilson, il mio ex partner, e in quel caso era davvero facile farlo. Lui è un grande scrittore e spesso semplicemente miglioravamo un po’ il lavoro dell’altro, rendendolo più solido. Oppure molte delle canzoni che abbiamo scritto insieme erano una sorta di conversazione tra due persone, come il brano “Hey Hey Hey” su “Nuda” in cui abbiamo scritto separatamente alcune parti. Poi, di “Hey Hey Hey”, ne abbiamo anche registrate due differenti versioni su due nostri album. Parla di due innamorati alla fine della loro relazione, mentre la il loro rapporto sta andando a pezzi, ed è stato un processo molto interessante perché quel brano prefigurava la nostra rottura… come quando l’arte imita la vita e la vita imita l’arte: chi viene prima, l’uovo o la gallina?
E infine, anche in questo nuovo disco, mi sono divertita molto a co-scrivere. Con Free c’è stata una dinamica di gruppo, perché credo che il messaggio sia più forte quando proviene da più voci. L’intera premessa della canzone è di alzare la voce insieme, di unirsi per lottare per un cambiamento, e quindi l’intero processo di scrittura ha rispecchiato il significato stesso della canzone. Nel caso di “The End Of Time”, che ho scritto con Madison Violet proprio all’inizio della pandemia, è stata invece la prima esperienza di scrittura in videochiamata al computer. In quel caso non essere nella stessa stanza ha facilitato il processo perché la canzone parlava del desiderio di stare insieme ai tuoi amici, dell’anelito ad essere in comunità. Penso invece sia più difficile co-scrivere qualcosa che abbia una dimensione molto personale. “Wild Fire” parlava di mia nonna, ma era una storia, una canzone di narrazione, e quindi è stato più semplice adottare una prospettiva esterna. Ho invece in questo momento una nuova canzone che vorrei scrivere su mia nonna, che ricorda una sorta di ninna nanna italiana perché il suo nome era Nina, Giovannina, ed è una canzone che parlerebbe di metterla a riposare, nel sonno eterno. Ecco, non credo che potrei scrivere questa canzone con qualcun altro, perché è la mia canzone, è mia nonna ed è il mio rituale per farla riposare attraverso la musica. Quindi scelgo sempre quali canzoni scrivere con altre persone, perché a volte è bello avere un altro orecchio – purché sia sensibile a ciò che vuoi trasmettere – ma trovo anche che sia importante per un’artista poter condividere le proprie storie nel suo modo personale. In definitiva non necessariamente porterei tutte le mie canzoni a un altro autore, anche se adoro collaborare con altre persone; è una delle cose che preferisco fare.
Con “Free” e “The End Of Time” siamo quindi giunti a parlare del tuo ultimo disco “Quarantine Dream”. Mi piacerebbe allora concludere questo bellissimo incontro chiedendoti di raccontarmi qualcosa di questo album e di cosa riservi il futuro per Andrea Ramolo, in termini di produzioni e progetti, sui due lati dell’oceano che tu rappresenti.
“Quarantine Dream” è un disco nato dalla quarantena. Io non scrivo tutti i giorni, non sono il tipo di artista che si alza dal letto, prende il caffè e si concede il lusso di scrivere una canzone al giorno. Vorrei essere così, ma non sono così irregimentata nella mia vita creativa. Per me le canzoni nascono spesso da momenti difficili, da lotte, da traumi, da crepacuore, da perdite. La pandemia era inoltre un’occasione perfetta per scrivere canzoni perché non avevamo nient’altro da fare. E per mantenere la mia salute mentale come artista e come essere umano ho bisogno di fare arte, credo sia il mio modo di sopravvivere ai momenti difficili. La musica è una medicina per me e quindi questo disco – come tutti i dischi che ho fatto – nasce dal bisogno di elaborare un momento difficile. La maggior parte delle canzoni sono state scritte nel mio letto, da sola, con il mio gatto come unica compagnia. Stavo vivendo un’esperienza molto traumatica con alcuni vicini del piano di sotto: c’era molta violenza, c’era un uso eccessivo di droghe e questo accadeva proprio sotto il mio piano, in una casa minuscola, in cui potevi sentire tutto, potevi sentire la violenza nelle loro lotte. È stata un’esperienza davvero dura, era come se il mio cuore sanguinasse per questi due ragazzi, al punto che non riuscivo a dormire la notte. E ho scritto di questa situazione in “Carousel”, che considero il cuore del disco: è una canzone molto cupa, sulla disperazione e sul non voler più esistere, in questa sistemazione abitativa di cui ti parlavo. Ma era un momento specifico, sotto il Covid, durante una pandemia globale, quando il mondo cadeva a pezzi e sembrava che non potessimo tornare, come esseri umani, a una condizione salutare. È stato davvero così per molti momenti. Ma avevo bisogno di scrivere questa canzone e ora è bello perché puoi guardarti indietro e capire che sei sopravvissuto a quel momento, che la canzone è solo un momento nel tempo ed è anche la cosa che ti ha fatto uscire da quel momento.
Quindi adoro “Carousel”, adoro la produzione, è inquietante e oscura, è tutta una storia di crolli, ma mantiene un po’ di speranza nel suo suono. È questo che mi piace: mi piace parlare della realtà, mi piace cantare della vita reale e la vita reale a volte è difficile, è brutta, disordinata e dolorosa ma anche bella, allo stesso tempo. Mi piace quindi esplorare entrambi i lati della vita in questo modo e credo che il disco ci riesca. “Quarantine Dream”, la traccia che dà il titolo al disco, parla del modo in cui ci trattiamo l’un l’altro, del modo in cui trattiamo il nostro ambiente, degli incendi che stanno illuminando i cieli e che stanno causando un buco nello strato di ozono, delle questioni socio-economiche, del razzismo, del sessismo. Parla di tutto questo, ma parla anche di come possiamo cambiare le cose, nel modo più semplice procedendo con amore, con il cuore smettendo di pensare con il cervello e il portafoglio, perché è proprio questa una delle cause della distruzione del nostro ambiente e delle relazioni umane. Quindi è una canzone piena di speranza perché dice: questo è il mio sogno in quarantena, siamo qui insieme a procedere con un amore ardente. Un amore ardente, come se avessimo bisogno di fuoco nel nostro amore, dobbiamo accendere questo amore e andare avanti come popolazione, altrimenti, sai, questo mondo non esisterà più. Quindi sì, è un disco pesante ma anche pieno di speranza.
Cosa mi aspetta? Beh, mi piacerebbe portare in tour questo disco ancora un po’ perché non sono ancora stufa delle canzoni. Ho appena fatto un tour nella East Coast canadese, un tour nella West Coast, uno europeo di venticinque date e ho alcuni festival quest’estate ma non mi dispiacerebbe portare in tour il disco per altri sei mesi o giù di lì. Sono però davvero entusiasta di passare al mio prossimo progetto, che è qualcosa di unico per me, qualcosa di totalmente nuovo: è un progetto finanziato dal governo canadese, il Canada Arts Council, grazie al quale realizzerò un EP di sei canzoni e un documentario che esplorino la musica folk tradizionale e rituale del Sud Italia, il luogo in cui sento le mie radici. Anche se non sono pugliese e salentina, i suoni, gli strumenti e l’energia che ci sono, e la connessione con la vita contadina e con la terra, le sento comunque nel mio sangue e nelle mie ossa e le porterò in Canada per esporre a quel pubblico il mio apprendimento, ciò che avrò scoperto e imparato lungo la strada con questi bravissimi musicisti, ballerini e registi con cui lavorerò. A settembre andrò in Puglia, il disco uscirà nel giugno 2023 e il film sarà presentato in anteprima all’Italian Contemporary Film Festival di Toronto la prossima estate. Ecco come sarà il mio prossimo anno e spero di poter portare in Canada per una serie di festival e di spettacoli la band Kalascima con cui lavorerò. Insomma, sarà davvero interessante. Vedremo cosa succederà.
Il video integrale dell’intervista è disponibile sul canale YouTube di James Meadow al link: https://youtu.be/sM5asKpep0k
Articolo di Davide Falcone