Freschi della nostra recensione sul suo nuovo album, abbiamo raggiunto al telefono Beatrice Antolini qualche giorno prima della tappa al Covo Club di Bologna per un’altra data del tour di “Iperborea”. Tra sigilli e nuove aperture, ecco la lunga chiacchierata che abbiamo condiviso con l’artista.
Parliamo del tuo nuovo disco e su quello che stai facendo attualmente. Noi l’abbiamo recensito, ci è piaciuto molto e scenderò nei dettagli dopo. Un pensiero che ho avuto: probabilmente quando chiudiamo un’opera, una canzone, un album ma può essere anche un libro o una poesia ho la sensazione che certe volte stiamo sigillando un periodo in qualche modo.
È verissimo, sono completamente d’accordo con le tue parole, anzi le sento proprio risuonare e sono peggio delle fotografie. Sono più intense le opere come appunti musicali. Quando metto un mio disco del 2008-2010-2003 mi rivedo in quella vita che è diversa dalla vita di ora.
Però ho avuto anche un’altra sensazione: che con questo disco, sì, probabilmente hai sigillato un periodo, però forse ne hai aperto anche un altro. La mia domanda è: cosa hai chiuso e cosa hai aperto con “Iperborea”?
Sì, sono d’accordo anche con questa tua intuizione. Sicuramente vedo sempre tutto come un’evoluzione, sono una persona che vuole cambiare sempre; come diceva Lucio Dalla: “non c’è cosa più brutta che svegliarsi il giorno dopo come il giorno prima” ma a parte questo comunque hai ragione tu, qualcosa bisogna sempre chiudere no? Qualcosa di noi stessi che non ci piace più o che sostanzialmente non ci appartiene più. Infatti c’è “L’arte dell’abbandono” che parla proprio di questo, nel senso che dice: “abbandonare senza far male e restare con il necessario” che non è inteso solo nel senso materialistico del termine anche se ogni tanto farebbe bene anche quello – c’è un consumismo che non fa bene a nessuno di noi, mentalmente ci distrugge – ma è proprio un abbandonare tutte le situazioni, le persone, le cose che non ci appartengono più, avere il coraggio quindi e di questo parla “Il timore” che poi è “Il timore dell’amore” perché è avere il coraggio di fare una specie di salto quantico, di miglioramento con se stessi, è trasmutazione. Chiamiamola come si vuole; ci sono mille termini e mille metafore, mille immagini, mille suggestioni su questa.
Tra l’altro quali migliori brani per iniziare l’anno: il cambiare verso un miglioramento. Molte volte vogliamo abbandonare delle cose, facciamo i conti con noi stessi proprio in questo periodo e ci sono cose che vorremmo migliorare, in cui vorremmo riconoscerci di più.
È una presa di coraggio anche, perché poi in realtà con questo disco ho avuto molto coraggio, sei d’accordo?
Sì, assolutamente.
Ho detto: faccio un disco in italiano e dico le cose che penso da sempre e che ho costruito dentro di me, che si sono fatte anche un po’ invadenti negli ultimi anni; avevano proprio bisogno di uscire. Ho preso coraggio, dico quello che sono, non mi interessa più l’esterno. Sono stata coraggiosa, audace quindi speriamo che la fortuna mi aiuti anche se alla fine non credo alla fortuna.
Mi hai anticipato la seconda domanda che riguardava esattamente questa cosa: è il primo disco in italiano seppure non la prima esperienza: uscì un singolo nel 2022, “Il grande minimo solare”…
“Il grande minimo solare” è stato un esperimento. Ho detto: vediamo un po’ questi brani in italiano se funzionano. Alla fine ho visto che è piaciuto. Avevo scritto anche “Farsi raggiungere” in quel periodo, c’era questa doppietta di pezzi… “Farsi raggiungere” aveva un altro titolo, poi l’ho cambiato ma l’ho scritto in quel periodo e potrebbe essere il brano più anziano del disco. Anzi, in realtà nell’album c’è una rielaborazione che avevo scritto tantissimi anni fa che è “L’arte dell’abbandono”, in origine completamente diverso: era in inglese e differente anche armonicamente. Ogni tanto tiro fuori dagli hard disc delle melodie che non mi convincevano in quel periodo e poi…
Magari invece hanno bisogno della stagione giusta…
Per stagionare, esatto, sì.
Tra l’altro questo disco mi ha dato questa impressione di apertura perché rispetto agli altri ha un impatto diverso; sembra che si sia aperto qualcosa di molto grande; sugli arrangiamenti poi ti chiederò qualcosa dopo. Volevo restare ancora un attimo sul discorso della lingua in italiano e farti due domande a riguardo; la prima: eventuali influenze. Mi ha fatto pensare a un DNA tra Battiato, Bluvertigo, a volte Branduardi, a volte Ferretti: è stata solo una mia idea al primissimo ascolto per cercare di identificare e collocare la tipologia di album.
Sono cresciuta con un disco fondamentale secondo me della storia della musica italiana che è “Linea gotica” quindi vuoi o non vuoi…ma io sento molto personale il mio lavoro. Sicuramente approcciando all’italiano e volendo dire delle cose importanti si fa subito un accostamento, però più che Battiato – l’hanno detto anche altre persone – c’è una matrice un po’ diversa: penso di avere delle sonorità anche urban, un po’ post punk, un po’ acide quindi delle due forse Giovanni Lindo Ferretti se proprio dobbiamo trovare qualcuno. C’è un brano che è volutamente una piccolissima citazione ferrettiana che è “Iperborea”; quando canto camminando nelle strade… [Beatrice la accenna canticchiandola al telefono e io penso che i suoi fan mi invidieranno] è Ferretti insomma. Mi faceva però anche piacere trovare un po’ il mio “modo italiano” quindi quello che è venuto fuori non lo so; mi fanno piacere questi accostamenti che sono talmente enormi che posso solo dire grazie. Spero sempre di fare la mia musica, spero sempre che sia molto personale perché sento che ho sempre fatto delle cose che poi in realtà mi assomigliano. Sicuramente sono cambiate le sonorità nel tempo e l’italiano ti porta da un’altra parte: non sapevo dove ma mi ha portato a questo. Magari il prossimo disco…sai che io amo perdere pubblico quindi non faccio mai una cosa uguale all’altra…
L’italiano con la sua sillabazione differente che ha rispetto all’inglese o ad altre lingue ti porta a scrivere in maniera differente; ha delle cadenze molto diverse e porta a sviluppare argomenti in maniera molto differente. Gli accostamenti che ho fatto erano più che altro un mio dubbio, una mia curiosità sulle radici della genesi; ci sono state delle influenze invece letterarie non musicali?
Più che letterarie sono una che si interessa di alcuni temi e penso che questo si percepisca. Sono una lettrice di saggistica e di scienze umane, spirituali e quant’altro quindi diciamo che già dal nome “Iperborea”… “Iperborea” praticamente vuol dire “oltre il vento del nord” e gli iperborei erano sostanzialmente un popolo, forse immaginario o forse no, che viveva in pace e serenità con il contatto con la natura, tutto quello che noi non abbiamo nella nostra società oggi. Noi guardiamo Marte ma non guardiamo il centro cristallino della Terra, non abbiamo mai i piedi nudi a contatto con un prato, con un bosco, con un ruscello. Volevo intendere questo; poi il disco non è una critica a questi tempi, è una presa di coscienza di questi tempi quindi è un disco eratico. Non c’è della rabbia, del rancore – lungi da me – anche perché avere rabbia e rancore fa solo male, meglio avere il sorriso, meglio affrontare la società di oggi: sicuramente c’è stato un cambiamento forte negli ultimi anni in tantissime cose. Non voglio entrare in discorsi troppo noiosi di, non so, politiche internazionali o sovranazionali o di come stiamo andando un po’ anche in Italia le cose e di come sta andando la musica in Italia. Non voglio entrare in questa argomentazione perché ti ripeto non mi piace lamentarmi; è una cosa che odio, infatti lo dico anche nel disco: “un imperatore non dipende dagli altri” – fra parentesi l’ho tolto dal testo ma lo dico nel live “e non si lamenta” perché se un imperatore si autogestisce non rompe le scatole. Insomma sono una conoscitrice lettrice di saggi più che di letteratura ecco.
Ok. Anche di un Gibran, te la butto lì?
L’ho letto in passato. Ho iniziato a studiare Gurdjieff vent’anni fa e poi dopo tante altre cose; quello poi magari è anche un pensiero un po’ superato e magari inapplicabile in questi tempi più moderni però comunque la conoscenza di sé, andare oltre la meccanica umana, sono state sempre di mio grandissimo interesse perché effettivamente è quello che manca nelle persone, a volte, soprattutto in tempi così complessi dove vince chi frega. Meglio è la consapevolezza di capire che forse correre, stare male, non sono per forza l’unico modo e che bisognerebbe anche decidere ogni tanto per se stessi, sviluppare molto il senso critico che mi sembra che negli anni si stia perdendo. Sono un po preoccupata però speriamo bene.
Allora: la domanda marzulliana te l’ho fatta all’inizio, idem la domanda antipatica che era quella dell’accostamento! Scherzi a parte torniamo a questo punto al discorso dei live: questo nuovo repertorio come si amalgama con le altre canzoni? Vedo che ormai hai già fatto alcune date: come ti sei trovata ad amalgamare queste canzoni con il vecchio repertorio?
Non l’ho amalgamato, semplicemente perché non è amalgamabile per adesso – poi in futuro si vedrà, magari quando avrò due dischi in italiano sarà diverso – Per adesso non è amalgamabile quindi ho deciso di fare tutto il disco di seguito, fare uno stop e poi iniziare a fare un memorabilia divertentissimo e devo dire che è stata una scelta giusta perché è impossibile fare un brano anche solo di “L’AB” che comunque era un disco un po’ scuro; secondo me aveva dentro una matrice di quello che poi sarebbe successo da lì a poco: il covid, il lockdown… tu pensa che avevo fatto la prima copertina con…hai presente la Pimpa?
La Pimpa di Altan, certo.
Con la mascherina dentro un laboratorio; l’avevo fatto nel 2018 quindi insomma evidentemente avevo sentito che stava per succedere qualcosa, i brani di “L’AB” anche nei testi sono molto duri, non c’entrano niente con quello che è “Iperborea” perché quest’ultimo è un disco più aperto. Ho diviso: è una specie di concerto cronologico quindi quando comincio la seconda parte con i brani di “L’AB” vado a ritroso fino al bis che è “Funky show”, un brano che ho scritto a vent’anni e che mi ha sempre divertito suonare.
Purtroppo ultimamente abbiamo avuto un grosso lutto nel mondo della musica: abbiamo perso Paolo Benvegnù; pensi in qualche modo di omaggiarlo durante i concerti? Ci sarà qualche omaggio in scaletta?
Guarda, mentre tu mi hai chiamato stavo suonando Paolo, ti dico solo questo. Proprio nel momento in cui mi hai chiamato stavo suonando un brano di Paolo e sì…non ci sono parole, io non ho trovato le parole non ho… io ho collaborato con Paolo, l’ho incontrato più volte e devo dire che in un certo senso lo trovavo bellissimo in tutto: un uomo bellissimo non solo esteticamente ma l’ho sempre percepito come un uomo bellissimo, raffinato, intelligente, un vero artista, una persona molto modesta, un esempio e quindi sono rimasto sconcertata come penso il 99 per cento delle persone con un briciolo di umanità. Non ce l’ho fatta a scrivere nulla nei social perché poi quando succedono queste cose mi innervosisco. Forse è sbagliato però non voglio partecipare a una sorta di rito collettivo comune di cui non ci trovo niente e ognuno esprime il suo dolore come meglio crede. Sinceramente di mettere la mia foto con Paolo non mi interessa, preferisco suonarlo, omaggiarlo a modo mio e poi comunque mi è servito del tempo. Certo, ho dovuto un attimo ragionare anche perché questo lutto segna anche nel mondo della musica uno spartiacque, secondo me, lo sento proprio nel cuore questa cosa, perché per me Paolo è un grande contemporaneo che avrebbe meritato di tutto. Questo fa ragionare sul fatto che l’Italia a volte arriva in ritardo: lui aveva vinto il Tenco [nel 2024] ma i dischi precedenti non sono da meno. Talmente grande la sua opera per me che lo metto a livello dei grandi. Sono fiera di essere una sua contemporanea.
Assolutamente, e noi siamo fieri di averlo vissuto, averlo visto dal vivo, aver ascoltato le sue canzoni mentre uscivano. Poi si sa che la vita di un artista non finisce dove finisce la vita dell’uomo ma continua con le proprie opere. Avrei un’altra domanda in realtà sempre sui testi e sugli arrangiamenti; riguardo i testi: ascoltando il disco sono rimasto affascinato per esempio da delle suggestioni che hanno dato dei versi come traiettorie di balene / sistema operativo che è in “Generazione cosmico”; avevo questa suggestione di questi panorami a volte, non so, cyber e naturali, cosa che sentivo anche nei suoni: questa lavorazione nei dettagli, dei finali mai scontati dove ho notato che quando immagini che finiscano in un modo ripartono con una coda, un altro mondo molto elaborato. Nel durante, in queste canzoni, senti questi glitch elettronici. Riguardo questi testi c’è stato un flusso creativo tra tutto questo?
Ci sono stati dei testi diciamo più veloci. Il testo velocissimo che è uscito è stato un pensiero laterale: avevo tantissimi appunti, serviva solo prenderli e saperli associare. Questo è stato scioccante perché ci ho impiegato cinque minuti: il testo sostanzialmente era già scritto e quindi ho solo messo insieme le parole che avevo già segnato. Questa è la mia metodologia. Oppure piuttosto “Restare”. “Restare” è un brano molto personale che parla di me; sostanzialmente un brano anche molto semplice. Anche quello che ho scritto di me, delle cose che sono piccole. Musicalmente mi considero un produttore: quando parto col pezzo già lo produco, è quello il mio approccio. Non scrivo la canzone piano e voce o chitarra e voce e dopo faccio tutto il resto, no, io quando lo scrivo lo arrangio, quindi magari non esco quattro o cinque giorni di casa ma il brano deve essere completo, perlomeno nella pre-produzione. Ho questo approccio in generale e lo devo finalizzare. Sono così in generale. Anche “Farsi raggiungere”; si intitolava “Alla mente della chiara luce”, poi ho mantenuto le parole “Chiara luce” e poi lo intitolai infine “Farsi raggiungere” perché mi piaceva questo concetto del continuare a cercare per farsi raggiungere che non è la legge dell’attrazione; non c’entra nulla: vedo tantissimi ragazzi che parlano della legge dell’attrazione ma non c’entra. Non è che per attrarre qualcosa basta desiderarlo. Per attrarre qualcosa bisogna sporcarsi le mani talmente tanto e quando sei poi nella strada e sei sincero in quello che fai ti arriva il tuo desiderio ma perché l’hai costruito. Bisogna sempre costruire, non esiste niente che arriva magicamente da nessuna parte.
È una ricerca continua, un cammino che non finisce mai probabilmente. Prima mi parlavi di questi arrangiamenti, del fatto che dovevi finalizzare dei brani e leggo dei nomi che sono noti nell’ambiente bolognese e non, per esempio Valentino Corvino, leggevo di lui nei credits per quanto riguarda gli arrangiamenti orchestrali.
No, no gli arrangiamenti orchestrali li ho fatti tutti io, il disco l’ho arrangiato tutto io. Corvino ha fatto il direttore.
Il direttore, pardon la gaffe. E come ti sei trovata a coordinare tutti questi musicisti?
Non ci sono tanti musicisti: il mio disco l’ho suonato tutto io, ho fatto basso, batterie, chitarre, pianoforti, voce, contro-voce, arrangiamento e produzione, non c’è nessuno in questo disco; c’è l’orchestra e poi c’è un ospite che ha interpretato una parte di chitarra acustica su “L’arte dell’abbandono” che è un bravissimo chitarrista, Adriano Viterbini, ma per il resto io sono così: ho sempre lavorato ai miei dischi, so che non è un valore aggiunto ma è molto diverso farsi suonare un disco piuttosto che suonarselo. Scusa se sono un po’ così quando si parla di questo argomento ma perché non mi sono mai sentita tanto valorizzata per questo: ti assicuro che è molto diverso, è proprio un approccio completamente diverso e penso sia anche abbastanza inusuale. Non è che voglio la medaglia per questo però vorrei che almeno si capisse.
Certo. Chiedevo perché ho sentito questo disco più, come dire, orchestrale rispetto ai precedenti e quindi a livello numerico mi chiedevo…
C’è un’orchestra di 30 elementi, una fantastica orchestra appunto diretta da Valentino che conosco da tanti anni, che stimo e ci sono molti musicisti anche del Comunale di Bologna: è un’orchestra proprio di gente molto brava. Secondo me le orchestre sono venute molto bene, sono molto soddisfatta di aver investito in questa cosa.
Pensiamo in molti che sia un disco molto bello. Tra l’altro leggevo, arrivati a fine anno, che diverse testate lo hanno classificato tra i dieci dischi migliori italiani del 2024
Ma magari fosse… Guarda il problema è che i dischi fanno molta fatica ad arrivare in questo momento quindi per chi è arrivato è stato valorizzato bene, ma il problema è che il mio desiderio sarebbe quello che arrivasse ancora di più, perché secondo me per esempio in certe testate per certe cose non è arrivato comunque. Non c’è stata forse l’attenzione di ascoltarlo però vabbè… diciamo che è un desiderio ma come tutti i desideri non vanno forzati. Il disco fa la sua strada, il suo percorso. Mi fa piacere per esempio che il MEI invece l’ha valorizzato molto, che alcune testate l’abbiano valorizzato molto. Il mio lavoro da qui in avanti sarà cercare di farlo arrivare perché in realtà con i social e con questo modo che c’è oggi di promuovere la musica è diventato anche più complicato far arrivare i dischi, ne escono talmente tanti, c’è una gran confusione e si fa di tutto un’erba un fascio quindi non sono tempi facili per la musica e per i musicisti.
Magari un buon modo per valorizzarlo sarà tra le altre cose scoprirlo anche dal vivo, sarà sicuramente un buon modo per far conoscere le canzoni
Speriamo, speriamo. Spero che venerdì ci sia un bel pubblico come è stato in queste cinque date. Chiaramente anche lì il desiderio è sempre quello di aumentarlo – no però in realtà nel mio caso è diminuito! – sto scherzando, però rispetto magari ai primi dischi forse perché ero più seguita dai giovani. Adesso i giovani magari ascoltano Trap. Che ascoltino altri generi giustamente più belli per loro, però mi piacerebbe attirarli. Ti ripeto: il mio desiderio per questo disco è solo che si espanda un po’ e che arrivi un po’ di più alle persone perché secondo me è aperto, può piacere a qualsiasi età. Perlomeno non lo sento generazionale solo per quelli della mia età, lo sento molto aperto. Ci sono dei brani che sfiorano quasi l’Urban tipo appunto “Pensiero laterale”, palesemente un pezzo modernissimo. Poi magari ci sono dei pezzi più classici come “Farsi raggiungere” che può piacere più a mia madre, ecco, ah ah. Vorrei tanto che ci fosse dell’attenzione non solo per me ma per gli autori in generale: è diverso essere un autore da un interprete.
Mi viene da pensare che il pubblico si sia spaccato in due nel modo di percepire la musica: c’è quella che intrattiene a livello televisivo e quella che va cercata nei club. Credo che comunque sia ogni melodia arriverà alle persone giuste: le orecchie che ne avevano bisogno.
Lo spero.
Ci vediamo allora venerdì – non diciamo niente da pre-show (parlavamo di balene prima). Ciao!
Ciao, vi aspetto!
Articolo di Mirko Di Francescantonio