Davide Van De Sfroos è stato molto gentile, ci ha concesso tempo, battute e molti spunti di riflessione. Soprattutto uno: Rock non è solo pietra dura, ma è anche sinonimo di cullare. In questo periodo sarà in giro per l’Italia a presentare il nuovo disco in spazi vari, dalle librerie a piccoli teatri e locali. Ci ha garantito che ci sarà la chitarra, e qualche canzone verrà sempre eseguita. Quindi, seguite le date che sono in aggiornamento sulle pagine ufficiali dei suoi social. Un’avvertenza: useremo sempre e solo la parola “Manoglia”, come l’ha utilizzata l’artista, mutuata dal suo dialetto, e non “Magnolia”, nome italiano della pianta.
“Manoglia” (la nostra recensione) è un album intimo, privato, dove ti sei messo a nudo, e ci hai concesso molto di te stesso. È una lettura corretta?
Mi fa piacere che tu l’abbia notato, perché l’impressione che volevamo trasmettere è proprio questa. Il disco, a partire già dalla copertina, andando fino alle 11 tracce che lo compongono, non fa altro che avvalersi della possibilità… Ecco, tu fai parte di una rivista che contiene, nel titolo, la parola Rock… Quando sentiamo questo temine, pensiamo subito alla pietra, a qualcosa di duro. Tuttavia, Rock è anche cullare, come in questo caso. Il nostro Rock, dunque, è più quello della sedia a dondolo in veranda; una situazione autunnale, piuttosto che quella delle canzoni irruenti, power folk, rock blues, e via dicendo, del passato. In questo senso, dunque, ci siamo avvalsi della possibilità, dicevo, di scegliere il Rock non come esperienza dura, ma come culla. Non posso smentire, e mai lo farò, e tanto meno rinnegare, quanto fatto e proposto nel passato. Era giusto farlo in quel momento, perché quelle canzoni erano espressione di ciò che avevo dentro. Ora, invece, è saltato fuori questo lavoro. Fra l’altro, in un momento nel quale non avevo nessun obbligo contrattuale per far uscire un nuovo album. Non lavoro in questo modo. Non dovevo per forza pubblicare un nuovo disco, nessuno me lo chiedeva. Avevo tutto il tempo per potermi dedicare a questo esperimento, che da tempo serpeggiava in fan, critici e giornalisti. Tutti mi chiedevano un disco intimo, alla “Nebraska” di Springsteen. Meno male, però, che quello c’è già stato, e in ogni caso questo mio lavoro è diverso da “Nebraska”. In “Manoglia”, per dire, non c’è solo chitarra, armonica e voce. Ci sono suoni diversi, che attraversano tutto il lavoro, nato da un lavoro con la chitarra certo, ma poi arricchito di suoni.
È anche un album, però, di grande libertà, non solo di intimità…
Da un altro punto di vista, e cioè quello dell’umore, è il disco del coraggio e della libertà. È vero. Sul fronte della libertà, la intendo come suonare libero, senza una band strutturata; per coraggio intendo prendere in mano canzoni intime, personali, che non avevo mai nemmeno pensato potessero essere destinate ad entrare in un disco, e lavoraci per davvero. Erano appunti, fogli volanti.
Ho anche pensato di farne racconti, scriverci qualcosa, ma non era detto che diventassero proprio delle canzoni da mettere in un disco. Invece, devo confessare che si sono impossessate di questa dimensione, e non è servito molto tempo per realizzarlo, metterlo insieme e farlo uscire. A quel punto, come si può sentire, ho lavorato sui suoni. Non volevo che fosse, appunto, “Nebraska”, lo ripeto. Ho iniziato a creare con la chitarra, certo, e ho forgiato la struttura delle canzoni, sulle quali poi si sono innestati altri strumenti, dai suoni etnici, al nostro Folk, ai suoni di clarinetto alla Woody Allen e alla Buster Keaton, ma anche altre sensazioni e situazioni. C’è spazio anche per l’Ambient, come nell’ultima traccia del lavoro “Foglie al vento”, o per ballate alla Tom Waits, e cioè senza preoccuparci troppo di compiacere per forza il pubblico. Anche da questo punto di vista è davvero un disco della libertà.
Sul fronte dell’intimità?
Ho scavato dentro di me, è vero, ed è stata la parte più difficile. Ho aperto tutti i cassetti, ed è stata una seduta analitica costante, faticosa. Sono emerse canzoni come “Zia Nora”, o come “El Giuvanonn (Il becco del merlo)”, brano dove, ad esempio, chiedo al becco del merlo di aiutarmi a scendere, a scavare cioè nella terra, dentro di me dunque, per trovare tesori nascosti. Ho dovuto e voluto cercare piccole cose, anche perdute, che hanno caratterizzato ciò che io sono in questo momento della mia vita. Non è stato facile. Da un punto di vista psicologico, è stato un lavoro potente, nel quale comparivano immagini, testi e situazioni. Ho setacciato a fondo il mio personale cassetto; ho guardato dentro di me, e sono uscite molte cose. Credo di essere riuscito, poi, a mettere tutto questo in canzoni, e a farlo in modo minimale, ma allo stesso tempo curando il prodotto finale in modo ottimale. Il disco è venuto come volevo.
Si tratta di un album anche di ritorno alla natura. Non un disco di eco-ansia, ma che racconta un legame intenso e vero con la terra. Durante il Covid, le tue dirette ti facevano vedere a contatto con la natura. Per i fan è stato importante …
Sono d’accordo. È la verità. Mai come in questo disco ogni canzone ha la funzione di un erbolario con foglie di qualcosa, radici di qualcos’altro, piume e vecchi oggetti. Se si guarda la copertina, come è stata realizzata, lo si può vedere all’esterno, ma anche l’intero lo grida. In questo lavoro, abbiamo a che fare con storie che nascono tutte da un taccuino, che è sempre in tasca a una persona che persevera nel fare il turista a casa sua, nella natura, specialmente in montagna e al lago. Quindi è ovvio che tutto quello che è finito dentro le canzoni è il retaggio di ogni passo che io faccio in mezzo a questi sentieri. Non solo, a volte c’è davvero fisicamente, nel quaderno, una foglia, una piuma. Sono oggetti che sono tutti lì, in casa, appoggiati ovunque, e sono una testimonianza del fatto che queste canzoni non le ho scritte solo io. Si sono scritte passando anche sotto le piante, la palma del Giappone, sotto un acero, o la gigantesca Magnolia.
Hai parlato del periodo della clausura. Ricordiamo bene che il testo di “Manoglia” è stato scritto, come liberazione, dopo mesi. Appena si è potuto uscire di casa ho raggiunto il luogo della mia infanzia, dove la grande “Manoglia” mi faceva da madre. In quel momento mi sono reso conto che la natura si era impossessata di tutto. Queste foglie di “manoglia”, che erano le uniche cose che mi restavano in mano, erano l’immagine dei ricordi che la pianta della mia infanzia mi consegnava, per costruire, e per cercare di trasformarle in qualcosa d’altro. Se le cose sono passate, non vuol dire che non ci sono state, e che non sono più. Hanno sempre un loro peso. I ricordi sono proprio come una foglia, in questo caso della “manoglia”, ma in generale di tutte le piante. Le foglie le vedi sventolare, ogni giorno, verdi e floride; poi, ad un centro punto, queste si staccano, e diventano un ricordo. Mentre cammini, come per le figlie, te li ritrovi in terra. A quel punto poi decidere, e lo puoi portare a casa, una volta trovato. Lo puoi riporre in un diario, tenerlo con te. Non smetterà mai di esserci, fino a quando tu non lo brucerai, non lo frantumerai. I ricordi sono sempre lì con te, fino a quando non li aggredisci, o hai un’amnesia. Sia chiaro, non si deve vivere nel passato. Le foglie non le puoi riattaccare alla “manoglia”; però non puoi dimenticare che hanno avuto una valenza importantissima, e fondamentale perla tua vita. Come “Zia Nora”, persona che ha forgiato il mio caraterete, o come “El Giuvanonn”, che m’ha insegnato l’importanza del contatto con la terra.
Un testo molto bello è la prima traccia, “La ballata del mascheraio”, forse la meno intima, la più politica, o comunque con un respiro diverso…
Il mascheraio è una canzone che, da un punto di vista strutturale e del testo, potrebbe sembrare quasi un Folk infantile. La può capire anche un bambino, al primo ascolto. Poi comincia a rivelare tutti i suoi sottoboschi, i piani b, i terzi e quarti piani di lettura, e può portarti alla pazzia. Si tratta di qualcosa, però, che è venuto dopo, non al momento della stesura della canzone. Quando avevo indossato questa maschera di canzone, mi si passi la battuta, non avevo nemmeno calcolato questi aspetti dei quali stiamo parlando. Sto cominciando a rendermene conto adesso.
Ho conosciuto mascherai di varie regioni d’Italia. Mi hanno spiegato bene come si costruisce una maschera. E io ho pensato che la maschera sia una cosa che si mostra in modo prepotente. Normalmente accade così, in chi la vede. Ma mentre si mostra, la maschera nasconde quello che c’è sotto, e cioè la persona che la indossa. Porrebbe essere chiunque. Abbiamo bisogno della maschera, e abbiamo paura della maschera. Più che per un fatto politico, in questo caso la canzone mette in gioco la parte sociale, e soprattutto quella psicologica di ogni individuo. Tu che hai la faccia incazzata, e ti vedo e incontro come una persona che vuol farmi male; in realtà potrebbe essere qualcosa di apotropaico, difensivo verso qualcuno che ha avuto paura, e sta sulla difensiva. Quello che ride troppo, e che si comporta da piacione, probabilmente potrebbe essere una persona triste, o che ti vuole ingannare.
Quella famosa bestia che è nel fondo di noi è ciò che conta. Nella canzone affermo per fare una maschera da bestia prova a guardare nel tuo fondo. Si, c’è la critica al fatto che siamo ancora bestie, e lo vediamo nella quotidianità, nelle notizie più brutte che non vorremmo vedere, ma vuole anche dire che dentro abbiamo il nostro animale totem, che dobbiamo conoscere e imparare a salvaguardare, e che siamo chiamati a confrontarci con lui, se vogliamo capire meglio il retaggio antico di quello che siamo. “La ballata del mascheraio” fa capire, quando tu diventi un mascheraio, una persona che fa le maschere, se vuoi farle per davvero, che devi prima cercare di capire le persone, le situazioni, per poi metterti all’opera e creare questo simulacro. La maschera non ha mai una faccia sola, ed è un oggetto incredibile. Non cambia espressione, e caratterizza molte situazioni, dal teatro al carnevale, fino alla valenza simbolica del sogno, terrificante e potente. “La ballata del mascheraio”, dietro la sua semplicità folk, nasconde tutto questo.
In questo periodo sarai in giro per l’Italia per presentare “Manoglia”, saranno solo conversazioni o ci sarà modo di ascoltare qualche brano, in attesa del tour vero e proprio?
A seconda delle situazioni avremo una formazione più o meno asciutta. In ogni caso, prevedo qualche brano d’assaggio, a costo di farlo anche solo con chitarra e voce, come sulla veranda di casa. Per un disco così non ho problemi anche a suonare unplugged. Poi, ovviamente, là dove la location permette un po’ più di agio, magari si può arrivare a due o tre elementi. Ma stiamo parlando degli appuntamenti più strutturati, o dove sarò su di un palco. Normalmente, al di là della presentazione e del racconto, e del firma copie, lo strumento sarà presente, e qualche canzone verrà sicuramente cantata.
Questo album nasce anche grazie all’ispirazione avuta da Guccini dopo il lavoro che hai fatto con lui per “Canzono da intorto”?
Guccini, Dylan, De André fanno parte di tutto quel retaggio antico che ogni persona che ha amato la musica cantautorale possiede e deve avere. Ultimamente non ho frequentato in modo particolare Guccini. È stato bello rivederlo alla cena, dopo aver messo quel piccolo cameo nel suo disco ultimo, o almeno quello che era l’ultimo. “Manoglia” non è però una derivazione di questo incontro. Le mie canzoni erano già state stese, o erano già in embrione prima. Poi è arrivata l’idea di fare il disco, e le ho prese da dove erano state depositate, però… Guccini è sempre d’ispirazione per tante altre cose, soprattutto per la storia: quando ti racconta le vicende del suo paese, come quando i miei vecchi, i miei amici di 90 e passa anni, all’osteria, mi raccontano serenamente la loro quotidianità, come se non fossero passati 50 anni. Per me questo è oro. Quando Guccini fa questo, e grazie a Dio, dal punto di vista della lucidità, è ancora molto presente, è una ispirazione importante. Ho anche appena preso il suo ultimo libro, il nuovo romanzo scritto con Loriano Machiavelli. Vuol dire che ancora mi piace ascoltarlo; mi piacere sentire quello che ha dire e raccontare, soprattutto dietro le quinte.
Bob Dylan invece… per chiudere. In questo disco la casa discografica avrebbe voluto come cover, o come traccia fantasma, la mia traduzione di “A Hard Rain’s Gonna Fall”, e cioè” Un gran brütt tempuraal”. Purtroppo, nonostante Dylan abbia venduto tutto il catalogo dei suoi diritti, e nonostante tutti gli sforzi fatti, non c’è stato dato il permesso. Così la canto dal vivo, e basta. Sul disco non ho potuto metterla.
Intervista di Luca Cremonesi