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Davide Van De Sfroos intervista

L’artista ha appena pubblicato “Van de Best” che mette insieme 25 anni di carriera in 49 canzoni risuonate e rimaneggiate per l’occasione

Sentirai le campane in sottofondo… Tranquillo, non è l’intervista con gli AC DC… Comincia con una battuta questa intervista a Davide Van De Sfroos che, da poco, è uscito con una monumentale raccolta – “Van de Best” ( la nostra recensione) – che mette insieme 25 anni di carriera in 49 canzoni risuonate e rimaneggiate per l’occasione. Mi sono messo in testa di fare un viaggio a ritroso sul sentiero del mio percorso musicale. Ho scelto 49 mie canzoni che ho ricantato e risuonato con l’aiuto di una miriade di musicisti e tre studi di registrazione che lavoravano in contemporanea. Un lavoro molto minuzioso che ci ha permesso di riproporre tanti brani del passato rispettandone lo spirito e la struttura ma regalandogli l’autenticità del presente e del suono di questo tempo, ha dichiarato al momento della presentazione di questa raccolta. Abbiamo conversato con lui per conoscere le ragioni di questo lavoro.

Proponi una raccolta importante, formata da 49 brani che sono stati risuonati e ricantati. In questi 25 anni sono cambiate molte cose: tu, noi come pubblico, il mondo, la musica, e così via. Quali sono i cambiamenti che ti hanno caratterizzato, e che sono in gioco in questo lavoro?
Il gioco è stato questo. Dopo un lungo percorso, un po’ giù e una po’ su, deserti e ghiacciai, salite e discese, come accade a qualunque camminatore, una persona deve fermarsi e guardare in fondo al crinale per vedere quanta strada si è fatta. Serve voltarsi indietro, e magari scattare qualche fotografia. Queste canzoni le conosco molto bene, e le ho portate su tutti i palchi a seconda delle stagioni; a seconda delle annate, alcune più e altre meno. Sono brani che sono sempre stati parte della mia scuderia. Tuttavia, alcune hanno davvero parecchi anni. Io oggi sono diventato un signore di quasi 60 anni. Le prime canzoni, soprattutto quelle di “Brèva e Tivàn” del 1999, o le precedenti di “Manicomi” del 1995, sono state scritte da un ragazzo. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se io le avessi volute cantare in un disco ora, e cioè come se entrassi in questo momento in uno studio di registrazione per inciderle? Sarà interessantissimo, mi sono detto. Così ho lavorato con tre band per mantenerle intatte e non rovinare quella che è la struttura originaria di queste canzoni. In alcune, invece, mi sono tolto lo sfizio di cambiare qualcosa. Nel corso del tempo, infatti, per via dei gusti, o per forza di cose, avevo già avuto l’intenzione di mutarle. Anzi, magari nei live erano già state mutate e modificate, di volta in volta. Quindi, le 49 canzoni – perché 50 non ci sono state – che vengono riproposte agli ascoltatori in questo disco, hanno la caratteristica della precisione. In alcuni casi si fa fatica a capire se si tratta dell’originale o della nuova versione. Va ricordato che, molto probabilmente, avevo già la voce da anziano fin da quando ero un ragazzo, e così di grandi cambiamenti non se ne sentono, ma c’è stato comunque un approccio diverso nel cantare. Questo il quanto. Però, mi hai chiesto anche che cosa sia cambiato nel mio modo di scrivere, ad esempio.

Nei primi dischi tendevo molto a raccontare di tutti i personaggi del territorio, come se stessi sfogliando un grande album. Parlavo di altri, anche se erano mie storie; del mio Pantheon; della mia terra. In ogni caso, parlavo molto di altri come ne “La Balera”, o nel brano dedicato al Cimino, o nelle canzoni “Il costruttore di motoscafi”, “Nona Lucia”, e così via. Tutte queste figure erano un grande album di ricordi, di fotografie. Con il tempo, invece, l’esigenza è stata quella di entrare in profondità, dentro me stesso insomma. Allora ecco canzoni che cominciavano a scendere giù, cosa già successa dai tempi di “Akuaduulza”. Sono sceso dentro di me, come è accaduto con “Lo sciamano”, o sono andato a cercare situazioni personali come in “Il camionista Ghost Rider”, o in “Long John Xanax”, brani nei quali parlo anche e soprattutto di me stesso, di mio padre, che da giovane faceva il camionista. “Yanez” è una canzone legato alla mia gioventù, e a vissuti intimi. Più vado avanti nel tempo e più mi rendo conto che c’è voglia di rallentare, e guardare a quelle situazioni normali che si siamo abituati a guardare come miracolose. Se poi penso all’ultimo disco “Manoglia”, beh posso dire che è un lavoro autunnale, intimo e pacato. È questo che è cambiato con il tempo. Il giovane corre molto di più, guida, si arrampica e va molto più veloce, vive le sua giornate fast food, fast web; ecco, l’anziano invece tiene da conto il moccolo. C’è un cambiamento fisiologico con il quale fare i conti.

In questi anni sono venuto a concerti dove ho ballato e cantato per ore. Ora mi siedo e apprezzo molto questo tuo viaggio intimo. Dal tuo punto vista, come è cambiato il pubblico in questi 25 anni?
Io ho sempre visto il pubblico come il mare necessario per navigare. Ogni volto, ogni faccia, ogni ombra che io osservo sotto il palco, che sia un mega show all’aperto o che sia in teatro, io me lo figuro come un’onda formata da ogni singola persona. La cosa davvero bella è che fino ad oggi il pubblico mi ha dato fiducia, qualunque fosse la mia posizione in quel momento. Se ho fatto un disco che non rispettava le attese, il pubblico lo ha sempre accolto per quello che era. Cioè, quelli che sono stati i fans storici, affezionati e presenti, hanno sempre avuto piacere di far qualche passo con me al loro fianco. Non si sono messi a giudicare e a rimpiangere. Per esempio, quando è arrivato “Manoglia” o “Synfuniia”, album particolari. È chiaro che c’era comunque qualcuno che aveva da ridire, ma il tutto è stato vissuto come il momento di una carriera che comunque proseguiva e cresceva anche grazie a queste esperienze. Altri, invece, si sono avvicinati e affezionati grazie proprio a quell’avventura, ad esempio, dei due live con orchestra agli Arcimboldi; un momento bello che ha saputo comunque lasciare il segno. Insomma, tutti quelli che si sono fidati, si sono trovati a giocare con me, a seconda delle epoche e delle stagioni, e hanno dimostrato di aver capito, di comprendere il vezzo, il gioco, o anche il momento storico che una persona stava vivendo e che determinava la nascita di alcune canzoni. Allo stesso tempo, è ovvio che come sono cambiato io in questi anni, anche il pubblico è mutato ed è cambiato. Un tempo avevo davanti dei giovani, ora non è più così.

Questo concetto è molto bello: il pubblico ti ha sempre dato fiducia, e la cosa è stata ricambiata. Il pubblico insomma ti ha sempre riconosciuto onestà, che è stata premiata con la fiducia…
Chi prepara un disco è come chi costruisce una nave. Questa deve navigare. Se non c’è acqua, e se non c’è questo pubblico beh, la nave, per tornare alla metafora, potrebbe anche essere costruita molto bene, e cioè posso aver messo tutta la passione che serve, ad esempio, per curare un bonsai che nessuno mai vedrà, però, alla fine, a chi è destinata questa nave? La nave, sia chiaro, vuole navigare. Ed è giusto che le onde abbiano la loro nave da poter portare.

Tra queste 49 canzoni, quali ti sei divertito di più a risuonare e ripensare?
Mi è piaciuto molto rigiocare su una canzone come “Il re del giardino”, che per motivi anche ovvi non poteva essere risuonata nel modo originale e psichedelico, e cioè con i suoni con i quali Alessandro Gioia l’aveva arrangiata. Lui stesso non sapeva dove andare a recuperare quel mondo sonoro, dar vita ad una copia non aveva alcun senso. È stato bello affidarla, invece, da un pianoforte. Allo stesso tempo mi è piaciuto molto ricantare “La figlia del tenente” e “40 pass” con ospite Pier Salami, un pianista molto giovane ed eccezionale, che con il suo respiro mi ha fatto volare dentro un clima di trasporto inaspettato. Ed è stato molto divertente rigiocare con “Hoka Hey”, o con “Kapitan Kurlash”, usando qualche suono anche un pò più nuovo, guardando al Reggae e al Raggamuffin, questi ritmi un pò diversi che si sono mescolati con il Folk. Rimettere in pista pezzi strani come “El fantasma del zio Gaetan”, che era stata eseguita con i giocattoli di mio figlio, e in questo caso abbiamo messo degli effetti simili, ma più moderni e diversi, ed è stato davvero bello. O ad esempio mi è piaciuto tanto riprender in mando alcune canzoni con solo chitarra e voce, e basta, per vedere cosa sarebbe successo, come ad esempio con “Il prigioniero e la tramontana”, “Rosanera” o “Sciur Capitan”. Devo dire che è stato bellissimo buttarle giù in modo selvaggio, diretto, con solo chitarra e voce. In realtà, devo dire che sono state tutte session molto divertenti, e alla fin dei conti, più o meno tutte le 49 canzoni sono state un bel viaggio a ritroso. Ovviamente per “La balera”, “Pulenta e galena fregia”, che si suonano tutte le sere, è stata una passeggiata, mentre la cosa curiosa e complessa è stata prendere in mano canzoni che da tempo non cantavo, come “Cinema Ambra” e via dicendo…

Cosa ci dobbiamo aspettare il 23 novembre a Milano? Ci saranno le nuove versioni o sentiremo i grandi classici così come erano stati pensati?
Il 23 novembre al Forum di Assago abbiamo deciso che deve essere una festa a parte, dove non serve fare i preziosi. Lì bisogna buttare sul palco tutta l’artiglieria che abbiamo, e soprattutto tutte le canzoni che il pubblico si aspetta di sentire. Ovviamente ci saranno titoli che, per qualcuno, mancheranno, però, per il luogo e per il tipo di caos, di acustica, di situazione, si è deciso che si va sul diretto, e su pezzi comandati dal Signore. Grandi luci, grandi impianti, grande palco implicano avere in mano qualcosa di molto rodato e sicuro, cantabile e ballabile da tutti. Ho messo tutta la carne al fuoco che avevo, e che potevo. Poi gli invitati son tanti, e tanti sono i gusti da accontentare. Non è comunque un luogo da canzoni troppo raffinate. Non mancherà il momento acustico, e non mancheranno le canzoni intime, perché sono fatto anche di queste cose, però ovviamente bisogna giocarsela proprio con quello che è stato fin qui il mio percorso musicale e artistico.

Articolo di Luca Cremonesi

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