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Dome la Muerte intervista

Incontro in occasione del lancio dell’ultimo lavoro “El Santo”

Intervistare, bene, un musicista non è cosa facile, si deve studiare la discografia, biografia, ma soprattutto cercare in rete tutte le interviste recenti per evitare di fare sempre le stesse, noiose, domande, cosa che talvolta è inevitabile. Quando l’artista è una leggenda vivente le cose si complicano, perché subentra non solo l’emotività, umana, ma anche quel senso di inadeguatezza dato dal più atavico timore referenziale. Ed è così che mi sono sentita quando Domenico Petrosino, in arte Dome la Muerte, ha accettato la nostra intervista in occasione del lancio dell’ultimo lavoro “El Santo” (la nostra recensione) con i Dome la Muerte EXP uscito il 22 settembre per la Go Down Records.

Dome la prima domanda non può che essere: perché un disco spaghetti western nel 2023?

Ho sempre amato le colonne sonore e la musica evocativa, quella che non puoi collocare in un’era precisa come il Punk o il Garage, ovvero la musica senza tempo, che la puoi ascoltare anche fra cento anni e ti provocherà le stesse sensazioni, al di là del periodo in cui è stata scritta, un po’ come il bandoneon di Astor Piazzolla o la chitarra slide di Ry Cooder.

Chi è, ammesso ci sia, “El Santo”?

Cercavo un titolo che desse subito l’idea di quello che avresti trovato in questo album, prima ancora di mettere la puntina sul disco e ascoltarlo, che sembrasse il titolo di un film spaghetti western. Tutti i personaggi ai quali sono ispirati i brani, per me sono dei santi e quando ho scelto questo titolo, pensavo a quello che spesso diceva Fernanda Pivano, riguardo ai poeti della Beat Generation, che sono dei santi scesi dal cielo per salvarci.

Alcuni ci vedono un’impronta “politica” dietro ai titoli è così?

Si, in parte è vero, “Badger Tracks” e “Stickman Blues” sono rispettivamente dedicati a Lance Henson e John Trudell, due grandi poeti attivisti, uno Cheyenne e lʼaltro Sioux. “Sweet Littlefeather” è ispirato Sacheen, la nativa americana che Marlon Brando mandò, al posto suo, durante la notte degli Oscar, in segno di protesta per la violazione dei diritti del suo popolo. “Riding Home” è il titolo di un quadro di Leonard Peltier, un attivista Lakota, dellʼ American Indian Movement imprigionato da quarantasette anni, con prove false. Ma ci sono anche brani che sono un tributo a due dei miei attori preferiti del cinema western ovvero Lee Van Cleef e Gianmaria Volontè

Tornando al “El Santo”, ho trovato molto curiosa questa scelta western, nel tuo libro “Dalla parte del torto” parli spesso della tua vicinanza ai nativi americani, non lo trovi un po’ un contro senso concettuale?

Ottima domanda! Intanto la maggior parte dei film spaghetti western hanno sempre avuto, chi più chi meno, uno sfondo politico e sociale. Essendo girati negli anni ‘60, un periodo di ribellione, sogni e utopie, rappresentano anche storie di oppressi, rinnegati e diseredati, costretti a sopportare soprusi. Ci sono, dunque, anche eroi che sfidano personaggi spietati verso i più deboli, ribelli che combattono l’arroganza del potere, penso a “Giù la testa”, “Quien sabe”, “Faccia a faccia” e molti altri. Ad un certo punto anche il cinema americano, dove gli Indiani erano i cattivi e i bianchi i buoni, ha sfornato film che ribaltavano completamente il punto di vista, come “Piccolo grande uomo”, “Un uomo chiamato cavallo”, “Soldato blu” o “Corvo rosso non avrai il mio scalpo”. Lo stesso ho voluto fare io con “El Santo”, perché i veri americani sono loro, i nativi.

C’è una traccia che tra tutte ti è più cara? E perché?

Mi metti davanti ad una scelta difficile, è un come quando ti chiedono se vuoi più bene al babbo o mamma, i miei brani preferiti di “El Santo” sono molti, direi tutti, per un motivo o per l’altro, ma forse per intensità e significato direi “Wounded Knee”, il luogo dell’ultimo grande massacro, ma anche da dove è ripartito il movimento degli Indiani d’America, all’inizio degli anni ‘70.

Nell’edizione in vinile c’è una bonus track “When the Night is Over”, Il brano è stato riarrangiato da Hugo Race compositore e autore di fama internazionale, come è nata questa collaborazione?

È nata grazie al cantautore Max Larocca, che aveva già collaborato con Hugo Race in passato. La prima volta che lo vidi, con i True Spirit, negli anni ‘90, rimasi folgorato dal sound, dalla sua voce e dalle strutture delle sue canzoni, comprai subito “Valley of Light”, un disco fantastico. È stato un piacere immenso, avere avuto la possibilità di registrare un mio brano, con uno dei miei idoli, che ne ha curato anche l’arrangiamento.

Nella copertina, essenziale ma evocativa, la tua sagoma imbraccia una chitarra come un cowboy la pistola, l’ho trovata un ‘immagine potente, è stata una scelta tua o di chi ha curato la copertina?

È tutta farina del sacco di Cristina Rovini, mia moglie, che aveva già curato anche tutte le copertine dei Diggers.

Quando si parla di musica spaghetti western il parallelismo con Morricone è d’obbligo, c’è stata effettivamente la sua influenza?

Ad Ennio Morricone dovrei fare un altarino dove accendere incensi e fare offerte. Sì, c’è sicuramente l’influenza della musica che scrisse per la trilogia di Sergio Leone, ma anche di altre colonne sonore come “Dead Man”, “Pat Garret”, “Billy the Kid” e “Paris Texas”.

Che percorso artistico o personale ti ha portato a voler sviluppare “El Santo”, un disco diverso dai lavori fin ora intrapresi?

Ho sempre amato certe sonorità, mi toccano il cuore. Già con i Not Moving negli anni ‘80 e più avanti con i Diggers, avevo inserito elementi spaghetti western in alcuni brani, ma il ponte per la nascita degli E.X.P. è stato un disco solista che ho pubblicato nel 2011, dal titolo “Poems for Renegades”, che era un mix di folk psichedelico e suoni western. Ad un certo punto ho sentito l’urgenza di sviluppare appieno questo sound, con una band che condividesse con me questa nuova avventura. Il nostro primo disco “Lazy Sunny Day”, contiene canzoni che attingono a piene mani da tutte le nostre radici e che puoi tranquillamente ascoltare singolarmente, mentre “El Santo” è un disco da ascoltare per intero, un vero e proprio viaggio.

Ho letto il tuo libro, come accennavo, le collaborazioni che hai avuto nella tua vita potrebbero ispirare un film, però io vorrei parlare di te, come musicista, come ti senti quando ti chiedono di parlare più che della tua musica, delle tue collaborazioni passate?

Io sono sempre proiettato verso nuove esperienze artistiche, ho spesso l’esigenza di sperimentare nuove strade, dai tempi del Punk fino ad ora. Un artista deve avere delle visioni e evolversi continuamente, per dare nuova linfa alla propria creatività. Capisco la curiosità, soprattutto delle persone più giovani, verso certe storie che ho vissuto in passato, che non rinnego e che mi hanno portato fin qui, come anche gli aneddoti su tutti i grandi artisti che ho avuto l’onore di conoscere, ma certamente preferisco parlare del presente.

Il tuo rapporto con le etichette discografiche è sempre stato travagliato, ed hai rifiutato molti contratti in passato, il titolo del tuo libro infatti è “Dalla parte del torto”, considerata però la situazione musicale, oggi in Italia, non sarebbe da pensare che forse tu sia dalla parte della ragione?

Ognuno ha un approccio diverso verso la musica, io penso che un artista deve avere un fuoco dentro, che brucia e non ti lascia scelta. Io vengo da quella generazione del Do It Yourself, dove facevamo tutto da soli, dai poster alle fanzine, dalle etichette alle spille, le magliette, la stampa e la distribuzione dei dischi. La scena indipendente ci dava un senso di appartenenza e di orgoglio, ci sentivamo una grande famiglia, del successo non ci importava e non ci sfiorava nemmeno lontanamente, l’idea di passare al mainstream. Oggi la notorietà, il protagonismo, essere riconosciuti per strada sembrano diventati gli obiettivi più importanti. Condividere emozioni, ideali e messaggi non è più una priorità per molti artisti dei nostri tempi, ma forse non è nemmeno colpa loro, sono cresciuti in un mondo dove tecnologia, social, talent e uffici stampa la fanno da padrone. La digitalizzazione della musica, ha snellito il lavoro, ma si è persa quella artigianalità e processo creativo che è fondamentale per tirare fuori qualcosa di nuovo e fresco, si preferisce quasi l’omologazione all’originalità. Comunque la scena underground, pur essendo sempre più sotterranea, vi assicuro che è viva e vegeta!

Chi ti è vicino ti riconosce di essere una persona autentica e leale, qualità sempre più rare nel mondo della musica, confermi non esserci differenza tra Domenico persona e Dome artista?

No, non c’è nessuna differenza, anche l’estetica non cambia fra palco e vita quotidiana. Se sei un artista lo sei ventiquattro ore al giorno.

Se potessi tornare indietro c’è qualcosa che non hai fatto e che oggi, a ripensarci, faresti?

Si, mi sarebbe piaciuto fare il pittore, il poeta, suonare la fisarmonica, l’organo Hammond e anche avere avuto più tempo per dare una mano a chi ha bisogno di aiuto

Come immagini il tuo futuro artistico?

Lo vedo sul palco, finché ce la faccio fisicamente, e continuare ad essere sempre aperto a nuove esperienze artistiche. A sessantacinque anni non pianifico più di un anno di lavoro, vado a braccio e vivo alla giornata.

Forse una domanda che non ti fanno in molti, tra gli intervistatori, tu Domenico come stai?

Sto abbastanza bene, grazie, alterno momenti di gioia ai soliti periodi di tormento, però mi sento fortunato, perché penso di aver avuto dalla vita di più di quello che mi merito e quel fuoco di cui parlavo prima, arde ancora.

Articolo di Silvia Ravenda, foto di Francesca Cecconi

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