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Donato Zoppo intervista

Critico e giornalista musicale, ha da poco pubblicato il volume “CSI. È stato un tempo il mondo”

La nostra severa recensione a “CSI. È stato un tempo il mondo” (articolo) ci ha permesso di incontrare Donato Zoppo, autore del volume, giornalista musicale esperto tanto quanto generoso, che ha accettato di rispondere alla nostre domande nate, quasi tutte, dai dubbi che avevo espresso nella nostra recensione. Ne è nato un testo che, di fatto, è un’espansione del volume che, in questi mesi, ha ottenuto ottime recensioni e ha permesso di accendere i riflettori su un album davvero meraviglioso: “Ko de Mondo” dei CSI.

Nel volume si racconta dell’importanza del luogo che è all’origine dell’album, ma si lascia in secondo piano gli ascolti dei singoli elementi della band, come mai?

Il luogo è centrale, essenziale direi, per la nascita di “Ko de mondo”. A volte alcuni dischi trovano la loro ragione d’essere – o perlomeno la spinta propulsiva – proprio nel luogo poiché è carico di simbologie, di memoria, di slanci verso il futuro. Pensa a “Abbey Road” dei Beatles, tanto per citare un disco storico, oppure “Heroes” nato agli Hansa a Berlino. Le Prajou in Finistére è il protagonista occulto, a volte neanche tanto, del libro: è stato centrale nelle memorie di tutti, dunque qualcosa di più di un convitato di pietra. Il racconto di “Ko de mondo” non poteva che partire dalla Bretagna, anzi da prima visto che un altro luogo, Villa Pirondini a Rio Saliceto, fu strategico per rinnovare il modo di fare dei CCCP: “Epica Etica Etnica Pathos”, secondo alcuni di loro, fu al tempo stesso la fine dei CCCP e l’inizio dei CSI. In effetti l’idea di utilizzare le vibrazioni e il suono di un luogo trasformando quelle suggestioni in musica segnerà tutta la carriera dei CSI, attraversando Bretagna, Val D’Orcia e Mongolia. Ecco perché ho dato tanta importanza al luogo: mi interessava – e stando ai responsi dei lettori il risultato ha colpito nel segno – sottolineare quanto sia preziosa la musica che nasce in stretta connessione con un luogo in un determinato momento.

Quanto c’è di vero nel fatto che non c’era nulla di preparato per questo album?

Credo che al 95% il disco sia effettivamente nato lì, senza idee pregresse, senza appunti preventivi, fatta eccezione per alcuni limitati versi di “A tratti e Finisterre”, che per stessa ammissione di Giovanni erano preesistenti ma allo stadio larvale, davvero molto grezzo. Tuttavia vorrei precisare una cosa: chi ha dimestichezza con la pratica musicale, soprattutto con l’attività di gruppo in studio, sa bene che nulla nasce dal nulla, c’è sempre una sorta di archivio interiore nel quale – in modo impulsivo, istintivo, informe – sedimentano idee, spunti, suoni. I CSI non erano degli improvvisatori radicali dell’Avant Jazz ma musicisti che cominciavano a conoscersi sempre di più e sempre meglio e per questo potevano investire sull’empatia di gruppo, su quel modo di procedere intuitivo che spesso ci ha regalato dei capolavori. “Ko de mondo” è il frutto di questo processo se vuoi un po’ naif, che poi diventerà metodo, modus operandi, abito mentale e abitudine consolidata.

Nel libro, come è giusto che sia, emerge preponderante la figura di Ferretti, mentre sembrano essere più in disparte personaggi come Canali e Maroccolo, come mai?

Non credo affatto che Maroccolo sia in disparte, anzi devo dire che è stato uno dei più generosi nel raccontarsi: nel libro è centrale, sia perché fu il produttore dell’album, direi anche il regista dell’operazione, sia perché fu una sorta di cinghia di trasmissione con la Polygram. È vero che spesso i bassisti sono un po’ nella penombra, ma nel modulo compositivo adottato per “Ko de mondo” tanti spunti generativi dei brani furono farina del suo sacco: su tutti “A Tratti e Memorie di una testa tagliata”. Generoso allo stesso modo, Canali invece ha avuto un ruolo diverso, lievemente più dietro le quinte perché più spigoloso, sanamente reattivo, talvolta intelligentemente distruttivo, e per questo ho voluto rispettare quella sua posizione nel raccontarlo: ecco perché sembra abbia parlato di meno. Anzi per l’identità sonora dell’album le sue chitarre sono state decisive, così come per gli altri album. Elementi di disturbo prezioso negli equilibri, per ammissione dello stesso Giovanni.

Zamboni e Canali, che idea ti sei fatto sul loro rapporto, da un punto di vista artistico, non personale?

La storia del Rock ci ha dato grandi esempi sulle coppie di chitarristi: Lennon/Harrison e Richards/Jones (o Wood) su tutti, poi gli Yardbirds, i Wishbone Ash, i Thin Lizzy, i Television, gli Iron Maiden e tanti altri. I gruppi con due chitarristi spesso hanno avuto una marcia in più, o meglio una direzione più espressiva, versatile, potente. Il caso CSI è stato diverso per la lontananza stilistica, compositiva, esecutiva di Massimo e Giorgio, che però si sono perfettamente completati. Più “lineare” e melodico Zamboni, più disturbante e ispido Canali, due differenze che hanno fatto moltissimo nella costruzione della personalità del gruppo. Aggiungo anche che entrambi, come i loro colleghi, avevano quella combinazione tra lunga esperienza e un pizzico di presunzione che rendeva il sound davvero unico nel suo genere. I CSI restano ancora non catalogabili, e probabilmente non è affatto il caso di provare a incasellarli…

Ferretti e Zamboni rinascono nei C.S.I, e lo sottolinei bene, dato che cambiano il loro modo di suonare e cantare. I CCCP andavo stretti ad entrambi, o era cambiato qualcosa d’altro?

Gli ultimi due anni di CCCP, stando al racconto di Ferretti, erano volti all’autodistruzione, c’era qualcosa che si era esaurito, e anche i tempi stavano cambiando. Credo che quel modulo andasse loro molto stretto, talmente stretto che anche la grande irruzione della musica con l’arrivo di Maroccolo e Magnelli non riuscì a impedire che l’esperienza finisse nel 1990. D’altronde Giovanni aveva 37 anni all’epoca, un’età in cui si comincia a fare anche qualche bilancio, probabilmente si era esaurito un percorso anche energetico, che non poteva andare avanti senza l’arrivo di altri elementi. Il ritorno timido e lento con i “Dischi del Mulo” prima, l’esperienza “Maciste contro tutti” dopo, avrebbero fornito nuove visioni e anche nuove forze.

Nel testo la dimensione collettiva è alla base di tutta l’esperienza C.S.I, credi che oggi sia possibile rivederli insieme, anche solo in studio?

Me lo sono chiesto varie volte, in qualche modo ho chiesto anche a loro. Al momento non credo ci siano le condizioni, in primis perché l’attenzione e l’impegno sono tutti sul versante CCCP. Ma poi la grande domanda è: rivederli insieme con quale obiettivo? Non credo che Gianni e Francesco siano disponibili al puro revival sul palco, immagino abbiano voglia di condividere una profonda esperienza creativa, il primo lo ha affermato anche di recente. Da ammiratore del gruppo non nego che sarei curioso, ma da conoscitore penso che l’essenza dei CSI è stato il connubio tra originalità e potenza: due elementi di uno stato di grazia che è molto difficile replicare, soprattutto dopo vent’anni…

Il libro non entra in profondità nella questione che ha portato alla fuoriuscita dai vari gruppi, e cioè CCCP e Litfiba, come mai? Perché credo che questo aspetto possa essere decisivo per capire il percorso della band.

Una dozzina d’anni fa scrissi un libro al quale tengo molto anche perché mi ha consentito, grazie ad alcune ingenuità che contiene, di correggere un po’ il tiro nel corso degli anni, soprattutto lavorando per sottrazione. Era un libro sul disco del 1971 di Lucio Battisti, nel quale indagavo in ogni angolo, entrando in ogni pertugio, con l’esito finale di un testo forse troppo pesante, se non ossessivo. Mi sono ripromesso dunque maggiore leggerezza, maggiore sintesi, e questo su “Ko de mondo” risponde a quel tipo di urgenza. Sai, ogni libro – e ne ho scritti tanti (ride) – è costruito su un equilibrio di elementi, nel quale entrano in gioco anche la lunghezza, l’appartenenza a una collana, la necessità di non stancare il lettore. Sottolineo tutto ciò per dirti che se avessi approfondito anche il pre-1990 sarebbe diventato tutto un po’ dispersivo, dunque ho optato per una scelta più lineare e rapida. Mi premeva più che altro soffermarmi sul disco del 1990, sulla sua genesi e su tutto che sarebbe accaduto dopo, come ho fatto.

“Ko de Mondo” è un album generativo e fondativo, condividi questo aspetto?

È un album generativo poiché è il primo vero passo: brani inediti, gruppo al completo in un luogo di concepimento e gestazione, con conseguente assunzione di responsabilità con la pubblicazione. È il disco che genera un’avventura. È un’opera fondativa poiché pone le basi di un metodo compositivo, illustra dunque un modus operanti vincolante, produce una fisionomia sonora e contenutistica. Da questo punto di vista è un’autentica pietra angolare, dunque sì, condivido la tua osservazione. 

Una delle critiche che muovo al tuo libro è l’uso delle frasi di Ferretti. Il perché è presto detto: mi sembra di farne un idolo, a tutti i costi, e lui stesso, proprio in “Ko de mondo”, diceva di non trasformarlo in un idolo… come mai questa scelta?

La musica del Novecento, o meglio la popular music, è registrata e arriva a noi attraverso il lavoro in studio. Dunque accanto ai tradizionali elementi melodia/armonia/ritmo si aggiungono quelli che Enrico Merlin evidenzia nel suo librone “1000 dischi per un secolo”: il suono, l’espressività, il timbro, le dinamiche, l’interplay. In tutto ciò le parole e la voce diventano determinanti per l’identità e la personalità, e quelle di Giovanni Ferretti addirittura sono fortissime. Era inevitabile metterle al centro. Insieme a Maroccolo e Magnelli è stato quello che ha voluto raccontarsi maggiormente – mi ha rivelato che erano anni che non parlava di “Ko de mondo” e la Bretagna – anche perché lui stesso era consapevole, come te, del valore generativo e fondativo del disco. È l’album in cui per la prima volta cambia la sua poetica testuale ma anche la sua vocalità: comincia a cantare. È proprio perché non ho fatto di lui un idolo che l’ho collocato con fluidità nel libro, senza alcun tipo di timore reverenziale. Aggiungo anche che un affabulatore del genere, con una tale vis poetica nel narrare alcuni squarci di trent’anni fa, non poteva essere certo ridimensionato. Credo di aver operato con equilibrio.

Nel libro la band sembra vivere di uno stato di grazia. Senza dubbio è vero, ma non si rischia di creare un mito nel mito in questo modo?

Sono uno storico del Rock, non un fan. Rivendico questa mia qualità! (ride). Per questo motivo il mio approccio è sempre scrupoloso, mai da ammiratore acritico ma da cultore, oltre che da studioso. Dunque cerco di entrare dentro una storia, tirando fuori i componenti essenziali, e in questo devo dire che mi aiuta molto la provenienza giornalistica. Provo ad attenermi ai dati oggettivi, fermo restando che uno spazio – misurato, ponderato – per le mie opinioni c’è sempre. E un dato oggettivo era per l’appunto il loro stato di grazia dell’epoca, dovuto al momento storico, al luogo, alla combinazione personale ed esperienziale. È un dato incontestabile, ma non credo di averlo enfatizzato più di tanto, proprio perché il rischio di mito nel mito cui parli effettivamente c’era: a volte mi viene da pensare che viviamo in un’epoca così povera di miti proprio perché mitizziamo tutto…

A tuo avviso, analizzata la situazione iniziale, davvero i C.S.I. sono implosi per troppo successo?

Credo ci siano varie motivazioni. Troppo successo ma anche troppa qualità e troppa “altitudine”, nel senso che dopo “Tabula Rasa Elettrificata” non sarebbe stato più possibile aggiungere altro, avevano dato tutto ciò che potevano, era necessaria una sterzata, o una forza neutralizzante, per citare Gurdjieff. Non a caso l’esperienza PGR ha avuto caratteristiche ben diverse. Pare ci siano state anche dinamiche personali che però a me interessano molto poco, preferisco guardare al dato artistico, che è quello che lascia un segno e resta. Ma il troppo successo a volte determina incomprensione e bisogno di deviazioni e diversivi, anche perché l’eccesso di consensi crea aspettative, alle quali tanti artisti non riescono a tenere testa e provano a sparire, e questo accade frequentemente nella storia del rock dal tempo del fantomatico incidente in moto di Bob Dylan nel 1966.

Articolo di Luca Cremonesi

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