Eugenio Finardi è stato ospite del Festival “Una storia d’umanità” in corso di svolgimento a Castiglione delle Stiviere (MN) nella prestigiosa sede del Museo Internazionale della Croce Rossa. Aperto nel 1959, si tratta dell’unico museo di questo genere sul suolo italiano. Un concerto che lo ha visto protagonista con Giuvazza (Giovanni Maggiore) alla chitarra in uno show intimo e acustico che ha ripercorso i grandi successi della sua carriera con alcune escursioni nel mondo del blues.
Ha appena messo in scena uno spettacolo blues con Fabio Treves a Pistoia. Il blues resta una sua grande passione, come è nato quel progetto?
Questa sera farò dei pezzi di Finardi, ma farò anche del blues. Il progetto con Treves (recensione del concerto) è la coda di un progetto al quale ho dedicati tre anni, dal 2004 al 2006, che è stato “Anima Blues”. In realtà nasco come un cantante di blues. Il fatto che canti in italiano, si riallaccia a questo senso. Io ho cominciato, da cantante di rock blues, a cantare in italiano per essere utile. Per dare il mio contributo con quello che avevo, e cioè la musica, il canto e le parole, a quella che era la lotta. Noi negli anni ’60 eravamo veramente convinti che ci sarebbe stata la rivoluzione e che poi ci sarebbe stata la pace universale. Quindi da quell’ideale è nata l’idea di scrivere delle canzoni in italiano. Da “Musica ribelle” e da lì insomma è nato tutto.
Questo concerto, invece, nasce in un concerto particolare, quello di questo Museo che racconta le guerre fra fine ‘800 e i giorni nostri. Questa location ha ispirato questo spettacolo?
Ho delle canzoni stimolate non tanto dalla Guerra quanto da ciò che la Guerra ci fa dentro. Sono spirate chiaramente anche da quello che stiamo vivendo. Proporrò “Mezzaluna” che è po’ simile al discorso che si fa qui nel Museo, e cioè il comparare il passato antico, meno antico con il presente. Che poi, quando si è in guerra, sono identici. Io ho scritto “Mezzaluna” prima della Prima Guerra del Golfo; quando aspettavamo gli aggiornamenti guardando il Televideo, vi ricordate? Eravamo connessi perché ci doveva essere questo attacco… e ci doveva essere, in cielo, la mezza luna perché avrebbe garantito di attaccare senza essere visti. Nessuno però aveva voglia di quella guerra e per prepararci mentalmente a farla c’era stata questa campagna mediatica. Ero andato in montagna; avevo all’epoca un figlio di un anno. Mi aveva molto turbato questa situazione, pensare a quanto fossimo su un precario equilibrio. In realtà abbiamo fatto progressi, possiamo comunicare, abbiamo raggiunto una buona consapevolezza l’uno degli altri, ormai non ci dovrebbe essere più nessuno che non riconosciamo come non degno di umanità. Eppure… In quella canzone c’è tutto ciò che poi ho provato e potrebbe essere un brano che ho scritto in questi giorni su quanto sta succedendo in Ucraina.
Come vive questo periodo di crisi?
Onestamente sono molto deluso. Compio 70 anni il 16 di luglio e forse sono della generazione più fortunata perché ho vissuto parecchi decenni in pace. Pace relativa ovviamente, perché, essendo mezzo americano, sono arrivato in Italia perché c’era il Vietnam. Qualche guerra, da qualche parte, c’è sempre stata. E alcune, un paio per la precisione, le ho anche viste da vicino. Sono stato a Sarajevo durante l’assedio, con l’Alto Commissariato per i Rifugiati. Ho assistito al ferimento di una donna colpita in un tram, sotto l’albergo, il famoso Hilton di Sarajevo. Eppure adesso è una guerra dimenticata e che sembra che non ci sia mai stata. Poi sono stato in Sudan, durante la guerra civile e anche lì ho assistito alle incursioni delle fazioni che si combattevano.
Ti rendi conto che c’è questa tendenza di homo homi lupus, questa voglia di combattere che vedo anche in tanti altri contesti: nel tifo calcistico, nella divisione che c’è sui social, questa voglia di mettersi sempre uno contro l’altro. Siamo cresciuti in un sogno di democrazia e di cura l’uno dell’altro e tantissimo di questo è parte della nostra natura. Però, purtroppo, lo è anche la violenza, ed è un peccato. Ho una figlia diversamente abile, e faccio parte di questa comunità di genitori che hanno figli con disabilità. Qui ci si rende conto del valore di comunità, anche guardandosi negli occhi. C’è questa volontà di cura, in tantissima gente, laica o cattolica, per le più diverse motivazioni – religiose e umane – o semplicemente per pura umanità e voglia di accudire l’altro, ci sono tante persone che si donano e si danno. C’è un mondo di volontari straordinario e poi, invece, ci sono i lupi… in realtà i lupi sono più dignitosi. Direi iene, queste iene che seguono e aspettano la debolezza per attaccare, per aggredire e che usano la violenza come linguaggio e come strumento di comunicazione anche fra se stessi. Con i figli ad esempio. Sai, io ero un figlio dei fiori, peace & love.
Tutto questo finirà, come il Vietnam. A quel punto avremo capito e saremo diversi. E invece… Questo Museo, ad esempio, è un omaggio al coraggio, alla resilienza e alla resistenza contro il dolore e la sofferenza, però a monte c’è questa creazione di inutile dolore e sofferenza. Se andiamo a vedere per che cosa combattiamo… quanti morti ci sono stati qui a San Martino e Solferino nel 1859? Un battaglia assurda, in pochi giorni. Essere feriti a quell’epoca era morte sicura. Tutto così assurdo per cosa poi? Adesso gli austriaci ci sono ancora, e sono tutti sul Lago di Garda. Cosa l’abbiamo fatta a fare? Fra 30 anni ci saranno russi e ucraini in vacanza in Crimea, al mare, o a Mariupol. Come, d’altronde, ci si chiede di altre situazioni, come il terrorismo che la mia generazione ha vissuto. Eppure c’è questa violenza che l’uomo si porta dentro e che l’uomo per fortuna ha cominciato a combattere, a reagire. La Croce Rossa è un primo mattone con un messaggio forte: occupiamoci dei feriti di tutte le battaglie. Si tratta di una delle bandiere di pace vera che ci sono nel Mondo.
Lei è stato all’Isola di White. Da quell’epoca a quella musica di oggi cosa c’è in mezzo?
C’è una barzelletta, molto buffa, che racconta di una vecchia signora seduta su una sedia a dondolo che racconta ai nipoti e prima ci furono gli Yardbirds, poi i Cream, poi i Blind Faith ecc… Il tutto raccontato come nella Bibbia, con il verbo “generò”. La trovo straordinaria. Ogni generazione ha la sua musica ribelle. Ogni generazione ha bisogno della sua musica. È inutile che gli dici, ad esempio, che questa canzone è già stata scritta. Ogni volta arriva qualcuno che fa un figlio e scrive una canzone sul proprio figlio, che non è molto diversa dalle altre canzone sui figli, ma questo usa il linguaggio di quel momento. Ed è normale. Cambiano lingua, stile ed epoche, ma il senso rimane quello. Da “Deh vieni alla finestra o mio tesoro” di Mozart e Da Ponte, ad “affacciati alla finestra amore mio”, non c’è molta differenza.
L’ultimo progetto è “Euphonia”, di cosa si tratta?
“Euphonia” è una suite fatta di canzoni di repertorio. Tutti mi chiedono perché non scrivo canzoni nuove. Ne parlavo con De Gregori a Campovolo al concerto di Ligabue, che mi ha fatto l’onore di invitarmi a cantare con lui. Si parlava del fatto che tutti ci chiedono quando facciamo dischi nuovi; poi però ascoltano solo quelli vecchi. Cioè, se fai le canzoni nuove poi alla fine ti chiedono solo quelle vecchie. Quindi io ho smesso. Non che non scriva più, attenzione. Scrivo solo canzoni postume, il cui mercato si aprirà quando non ci sarò più, e spero il più tardi possibile. Chiaramente. Mi piace comunque l’idea di scrivere canzoni postume…
Ci sono tante canzoni non apprezzate, che comunque hanno una loro storia. È anche una necessità che abbiamo, perché dobbiamo ancora curarci dal Covid. Non da quello fisico, ma da quello mentale. È stato un grande trauma collettivo. Poi per i musicisti sono stati anni duri, come per tutti ovviamente. Ho sentito il bisogno di questo perdimento, di perdermi nella musica e ho capito che le singolo canzoni possono essere anche delle strofe di una canzone più ampia, di una sinfonia che racconta più cose. Ad esempio, se si prende una sinfonia classica di Mozart e Beethoven, ci sono vari temi che si riallacciano.
Però quello che è importante è che in questo lavoro tutto si ascolterà d’un fiato, senza soluzioni interruzioni. Non c’è una canzone e poi ci si ferma. È un percorso unico che porta veramente a una certa trascendenza e, secondo me, a quel sentimento di umanità condivisa, di condizione silenziosa che è quello di cui abbiamo più bisogno. Stiamo facendo molte cose, affollate. Tanta gente ovunque. Ma non è ancora questa la normalità che sarà quando potremo tornare a sentirci… a essere e godere da soli insieme agli altri. E non per forza sgomitando.
Ci sarà una nuova edizione di “Secret Streets”, album del 1982 cantato in inglese, come c’è stata quella di “Finardi”?
A me piacerebbe farla. L’ho già anche masterizzato per sostituire quella che c’è su Spotify, che è inascoltabile. Però dipende dalle case discografiche che sono diventate… Una volta erano davvero la casa dei musicisti. Si andava là, si faceva salotto, ci si incontrava con i discografici. Ora, invece, serve prendere appuntamento una settimana prima. Ti ricevono in una stanzetta, come in banca.
Articolo di Luca Cremonesi