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“Gaber e l’appartenenza”

A La Gaberiana 2024 ascoltiamo gli aneddoti dell’amicizia e della lunga collaborazione tra “nasone” (Gaber) e “cialtrone” (Jannacci)

La Gaberiana, rassegna di incontri, musica e spettacoli dedicato a Giorgio Gaber organizzato dal giornalista Andrea Scanzi, è giunta alla seconda edizione, sempre a Firenze. Evento di grande spessore, per l’idea, per la realizzazione, e soprattutto per contenuti. Beh, facile, penserete. In effetti i testi delle canzoni e i monologhi di Gaber, che ci ha lasciato troppo giovane e con tante cose ancora da dirci, sono di tale lucidità e profondità che restano culturalmente e socialmente validi come fossero stati scritti stamattina dopo la lettura dei quotidiani del giorno. Riflettiamo gente, riflettiamo. La seconda serata, giovedì 18 luglio, ha visto sul palco della affollatissima piazza dell’Isolotto, quartiere popolare tra le sedi della manifestazione, Paolo Jannacci, che ha conosciuto, bene e personalmente, Giorgio Gaber, e che l’ha amato tanto, e lo sa non solo raccontare ma cantare. Abbiamo ascoltato esecuzioni molto belle, alternate a talk con Andrea Scanzi, per un racconto-concerto unico e probabilmente irripetibile.

Ma perché un Festival tanto importante in un quartiere periferico di Firenze, e non nel centro di Milano, per esempio? Questo non è un quartiere qualunque, e ben lo riassume il suo presidente, leggendo alcune righe di di una delle tante bellissime canzoni, poesie, riflessioni, critiche politiche, sociali, culturali di Giorgio Gaber: La libertà non è star sopra un albero, non è neanche avere un’opinione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione. La comunità del Quartiere 4 partecipa molto, da sempre, da quando è nata negli anni ‘50, proprio qui all’Isolotto, che ne è il cuore, con questa caratteristica di interessarsi degli spazi pubblici, dei beni comuni, partecipare, chiedere, lottare per conquistare diritti, servizi.

Sul palco a introdurre la serata il presidente della Fondazione Gaber, Paolo Dal Bon, che è stato il manager dell’artista. Invece di fare la solita presentazione istituzionale della Fondazione, ci parla di Andrea Scanzi e del perché non è solo l’ideatore e l’organizzatore e il conduttore del Festival è bene che sappiate che Andrea quando aveva 17 anni venne accompagnato dal padre Luciano a Fiesole a vedere forse il più bello spettacolo di teatro-canzone che Gaber abbia fatto; era ancora minorenne, ma nel backstage ci fu un incontro e Giorgio rimase molto colpito dalla sua intelligenza, dalla curiosità che questo giovanissimo aveva, ed è nato un rapporto personale molto stretto fra Giorgio e Andrea, tant’è che per la prima volta, e cosa che non fece mai con nessun altro, Giorgio disse ad Andrea che sarebbe andato alla discussione della sua tesi, che ovviamente lo riguardava. È stato doloroso telefonare ad Andrea per dirgli che Giorgio non stava bene e non ce la faceva a essere presente. Questo per farvi capire da cosa nasce il Festival e perché è Andrea a proporlo, c’è stato tra loro un legame molto forte; in Fondazione Gaber siamo felici perché qui non c’è soltanto un giornalista, un intellettuale, un personaggio pubblico affermatissimo, c’è veramente un cuore che batte molto forte per Giorgio Gaber.

Alla fine dell’intervento, si entra nel vivo della serata, con il primo ospite, un grande musicista, polistrumentista, produttore discografico, cantante, e anche ottimo attore. Per essere ospiti della Gaberiana bisogna essere molto bravi e molto gaberiani e lui Giorgio lo ha frequentato tanto: è Paolo Jannacci. Si accomanda sulla poltroncina a fianco a Scanzi, in mezzo a loro un tavolino con abat-jour, luci calde e basse, il clima è quello del salottino, nonostante la piazza gremita e una grande caos di sottofondo creato da bambini schiamazzanti che giocano a pallone dietro al pubblico (servizio d’ordine locale praticamente inutile, lasciavano pure passare bicilette e monopattini nello spazio tra il palco e la prima fila di sedie, no comment). Scanzi attacca subito con le domande, chiedendo a Paolo Jannacci che rapporto aveva con Gaber e che ricordo ha di lui.

P.J.: Giorgio mi voleva bene, forse perché avevamo qualche affinità, soprattutto per l’orologio biologico. Giorgio riposava durante il giorno, la mattina, perché la sera pensava, creava, scriveva, si addormentava tardi e la stessa cosa facevo io. E quindi scherzavamo su questo fatto … mi ricordo una cena bellissima che facemmo a Milano dove Giorgio e io ci coalizzammo contro il papà per prenderlo in giro in tutti i modi possibili immaginabili, perché lui non dormiva tanto, buttava giù la chimica e poi sveniva, però non è dormire quello, è tipo un’anestesia. E allora lo prendevamo in giro: cosa fai tu adesso? Latte e biscotti, no? Certo, sono le due e mezza del mattino, cosa vuoi fare? Ti fai latte e biscotti per poi avere la quarta colazione per poi alle tre e mezza magari fai mezza spremuta con un po’ di pane e marmellata, oppure il salato! E il papà ci diceva Non siete normali voi, andatevene. Giorgio è stato il primo a darmi fiducia come produttore e come arrangiatore. Era veramente un bambino che faceva esperimenti, aveva un otto piste a nastro con due tastiere e mi affidò un brano da arrangiare; mi salvò mio padre perché io feci un minestrone inqualificabile! Con due voci di flauto, mi ha risolto l’arrangiamento. Ci voleva molto? No, ci voleva lui… Giorgio mi ha voluto bene e mi ha considerato capace ancora prima del papà perché il papà aveva l’amore, no? Invece Giorgio mi ha trattato da grande professionista e questo mi ha dato un grande impulso a continuare perché a volte ci sono dei paletti nella vita dove dici Cosa faccio, lo sto facendo bene? No, cambio. Lo sto facendo bene? Sì, vado avanti. Ecco, Giorgio è stato un punto di svolta per me all’inizio, e lo ringrazio ancora.

Si tende a pensare, da quello che emerge anche sia dal film che hanno fatto su Giorgio, sia dal film che hanno fatto su papà, e tu sei in entrambi, che Gaber e Jannacci insieme fossero più o meno così: Giorgio quello metodico, più razionale, più studioso e Enzo il fantasista, quello più imprevedibile, più anarchico, e quindi insieme fossero perfetti perché uno magari aveva più fantasia, l’altro era un pochino più studioso e insieme la loro chimica fosse perfetta sia sul palco sia come amici. Era una semplificazione giusta, oppure erano così?

Dipende, è vero per certi aspetti formali, ma dal punto di vista sostanziale invece l’anima rock’n’roll di Giorgio quando veniva fuori era forse più intensa ancora di quella di papà. Perché il papà si metteva dei limiti, forse voluti dagli insegnamenti di Dario Fo. Chi tirava e dava il famoso interplay, l’azione-reazione, era proprio Giorgio. Magari gli dava il colpo col piede e allora Enzo scattava. Era così, e quindi per risponderti sì è vero ma al contrario c’era anche l’anima inversa che li mischiava ancora di più, li faceva sentire a proprio agio ancora di più.

Ti è mai capitato di suonare con Giorgio?

In studio che io mi ricordi no; tranne in casa, ho suonato con lui dal vivo. Non mi chiedere quando, dove, perché non saprei dirti. Però mi ricordo che Giorgio si lamentò col papà dicendo Ma che cavolo stai facendo? Oppure mi diceva Ma che accordi fa? , e io rispondevo Quelli giusti!.

So che hai molte fotografie di Giorgio nel tuo archivio… Mi viene in mente una foto che secondo me qui hanno visto tutti o molti, che è anche nella Feltrinelli di Milano in stazione, è una gigantografia da uno scatto di Guido Harari. Foto meravigliosa, straordinaria, dove insieme ci sono Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Dario Fo; Harari va molto fiero di quello scatto perché ha preso l’essenza di tutti e tre: c’è Giorgio un po’ imbarazzato, dice sì bello però che devo fare, Dario è quello più presente a se stesso, consapevole di se stesso, ed Enzo che è contento come un bimbo, felice di essere accanto a questi due grandi.

Sì, è così, anche perché è stata fatta in una serata difficile, in occasione di uno spettacolo a Milano, aveva piovuto fortissimo fino alle 19 e l’impianto era bagnato, era prevista anche la registrazione quella sera lì (ne è stato prodotto un dvd bellissimo ndr), immaginatevi le tensioni che ci possono essere quando bisogna comunque prendere delle decisioni, alla fine sono rimasti tutti, è venuto fuori un elemento artistico che è andato al di là della forma, dell’idea contrattuale. Io ero di là, dietro l’obiettivo, fu tutto molto bello, l’incontro di quella sera io l’ho voluto chiamare i JA-GA Brothers, che però è solo il secondo nome del duo che crearono papà e Giorgio negli anni ’60, ovvero I Due Corsari.

Ho anche una foto di Giorgio e del papà di un momento particolare. Papà stava scrivendo un pezzo era pazzesco. Poi a un certo punto vedo Giorgio e penso Se arriva Giorgio vuol dire che è ancora più pazzesco perché vuol dire che il papà ci tiene tanto. Il pezzo era “La fotografia”, Giorgio lo sente e dice È perfetto, un capolavoro, bravo cialtrone Questa volta hai superato te stesso. Ma l’hai scritto tu? E giù risate! Ha aggiunto al testo del papà una parola, “mafieria”. Questo è un bel ricordo che ho ancora di Giorgio. Quando si è presentato a casa ovviamente il papà era in pigiama di quelli tipo dei militari, tutto slentato, e Giorgio era in completo inglese grigio con doppio petto perfetto. Ho la foto di quel momento perché l’ho fatta io per sbaglio. Pensavo di averla persa poi l’ho ritrovata circa un mese fa, ma ora non so dove l’ho messa. Mi spiego (ride), è colpa di Harari che è venuto a visionare tutto quanto il materiale fotografico, e adesso c’è un pandemonio e io non mi ricordo più dove sono le cose, probabilmente nello sgabuzzino dove ci sono cartoni con su scritto “Viste da Harari”. Credo che da qualche parte ci sia anche la foto fatta con De Gregori a un 1 maggio a Roma. Prometto che prima o poi sistemerò l’archivio!  

Ci vuoi raccontare non solo la loro amicizia ma anche questa loro alchimia che provocò delle piccole rivoluzioni negli anni ‘60?

All’epoca nessuno faceva quella musica lì, con quell’ironia lì, quei testi surreali, con l’istinto dei ragazzini. Quando si sono trovati appena dopo la scuola, questi due ragazzotti pieni di energia hanno cominciato a legare e hanno cominciato a capire che potevano fare qualcosa di bello insieme divertendosi. Questo li ha legati profondamente perché quando due amici si incontrano da ragazzi è completamente un’altra cosa da quando ci si incontra da adulti. La cosa è andata avanti così per sempre, loro potevano contare uno dell’altro, potevano non vedersi per dieci anni e poi rincontrarsi per un consiglio o un lavoro ed era come se fossero passati solo dieci secondi. Negli anni Sessanta i ragazzi volevano andare contro o fare qualche cosa di diverso, l’hanno fatto i grandi jazzisti con il Bebop per esempio, cioè fare tutto quello che c’è al di là del canone, suonare in qualsiasi modo basta che fosse fuori dallo schema, per combattere la noia, e creare momenti alti della nostra cultura.

Paolo, tu l’hai vissuta la loro mini tournée storica, mitologica?

Certo, il momento era fine anni ‘80, inizio ‘90. Gaber e Jannacci misero in scena “Aspettando Godot” di Samuel Beckett e questa versione teatrale, per certi versi geniale, per altri un po’ sfortunata anche per motivazioni tecniche, diventa mitica. Nel gruppo c’erano anche Felice Andreasi e un giovanissimo Paolo Rossi. Ho ripreso il tutto, ma il nastro è molto verde; avevo una telecamera con diverse sensibilità di luce ma passava dal tipo infrarosso al tutto verde. Nonostante la qualità pessima è un documento storico, ce l’ho in un cassetto, l’ho trasferito anche digitalmente in un computer molto vecchio. Il nastro si sta degradando perché è roba del 1991, ma non lo do a nessuno, ce l’ho solo io. Prima o poi faremo una pubblicazione, un bootleg.

Sarebbe meraviglioso, perché anche per quello spettacolo si dice che Enzo fosse quello più istrionico del gruppo, Giorgio il regista serio, faceva molte prove, mentre gli altri tre facevano un po’ quello che volevano.

Ecco, sgombriamo il campo da falsi miti. In realtà no, eliminiamo questa diceria che il papà facesse casino, alimentata anche da Paolo Rossi, che era quello che davvero faceva casino! Si divertiva a far casino, ma perché con il casino vai proprio a sensibilizzare determinati argomenti, determinati moti che con la tranquillità o comunque con l’ordine non lo fai. Però in quel caso, il papà aveva studiato molto bene sia il copione sia quello che voleva fare Giorgio, e sapeva le parti di tutti, era molto, molto, molto chirurgico in quella rappresentazione. C’era Samuel Beckett di mezzo, e devi avere rispetto per una cosa che non è tua. E poi rispetto per Giorgio che aveva una regia ben precisa in testa, che secondo me ha realizzato ed è splendida. Anche il disegno luci, l’albero stilizzato, l’idea dei due pianoforti che suonavano all’inizio, da soli. Era una delle prime volte che si potevano programmare i Synclavier, se non sbaglio, e suonavano i tasti da soli. Quindi arrivavi e c’era questo effetto estraniante e meraviglioso insieme, su un brano di mio padre. Tristissimo ovviamente. Però era tutto molto giusto, molto preciso, molto bello. Poi c’era l’essere umano, imperfetto, con gli errori, i vuoti di memoria, raccontati da Paolo Rossi.

Cosa provasti quando tuo padre sostanzialmente ti chiese come figlio d’arte di seguirlo, di fare la produzione dei dischi … C’era più emozione o più soddisfazione?

Lui ha creduto che io fossi un talento da subito, mi ha istigato a non fare il chirurgo, che a me sarebbe piaciuto tantissimo, ma era convinto che la via artistica mi avrebbe portato bene. Mi sono fidato e sono andato avanti. Dopo un po’ di anni che facevo piccole cose, nel ‘93 più o meno gli ho detto Il prossimo disco te lo produco io. Lunga pausa, eravamo in bagno. Poi mi risponde Mi sembra una buona idea. E allora mi arrivata la botta, mi sono detto E adesso devo farlo, ed è stato uno degli anni più complessi, è stato un anno difficile il ’94, affrontai il tutto con l’aiuto di Giorgio Cocilovo che è un bravissimo chitarrista. E da quel momento non ci siamo più fermati, lui si appoggiava molto su di me perché sapevo capirlo. Disse Paolo mi sa leggere, sa dove mettere le mani cioè come se suonassi io, sa le mie pause sai me quello che posso fare quello che posso non fare e quindi mi dava carta bianca, anche troppa e a volte ho fatto le cose un po’ troppo velocemente, mi dispiace, però insomma cosa devo fare, ormai il lavoro è stato pubblicato.

Il film dedicato a Enzo Jannacci, “Vengo anch’io”, con la regia di Giorgio Verdelli, è meraviglioso; racconta non tutto, perché è impossibile, ma molto dell’artista. C’è un materiale di repertorio pazzesco, ci sono delle cose straordinarie, e ovviamente parla del rapporto con Giorgio. E c’è anche una cosa che a me ha colpito molto, io non la conoscevo e tu sei colui che di fatto rende credibile questo aneddoto, la famosa lettera che tuo padre scrisse a Vasco. E Vasco nel film la racconta molto toccato, molto commosso.

Ma sì, il papà ha avuto grandi alti e grandi bassi. E grandi picchi, sì, da tutte le parti. E c’era un periodo dove non ci volevano, dove il papà faceva fatica a trovare una collocazione. E Vasco ha sentito questa cosa e ha detto Ti produco io Enzo. Noi avevamo già dei provini e delle cose messe abbastanza bene e siamo andati a fargliele sentire. Quindi eravamo tutti contenti, dal punto di vista artistico era tutto giusto e poi purtroppo non se n’è fatto più nulla, non so per quale motivo, quale grande sistema non ha avuto, diciamo, l’idea di produzione fonomeccanica.

E quindi pensate come si può sentire un artista che ha fatto tanto e si è sentito un po’ messo da parte. Uno può dire sì, vabbè, ma tanto puoi fare altro, però in quel momento lì è come se tutto quello che hai fatto nella vita così non valesse più tanto, no? Ti dici Ma perché non valgo più? Gli artisti si fanno spesso queste domande, anzi quasi sempre. In seguito abbiamo fatto un disco, ci abbiamo messo credo due anni, due anni e mezzo a finirlo, che ha prodotto per Ala Bianca Toni Verona, questo grande indipendente, l’ha sentito, gli è piaciuto molto e l’ha fatto uscire, il disco si chiama “Come gli aeroplani”.

Durante le sessioni di registrazione il papà ha buttato giù questa lettera a Vasco, già lo scrivere ha stemperato un po’ di tristezza … A volte si fa così quando scrivi il diario, quando parli con un amico, parli con qualcuno di un problema, già ti rendi lo spirito più leggero. Probabilmente si era alleggerito un po’ della tristezza scrivendo questa cosa e in seguito si è dimenticato della lettera. Io l’ho ritrovata e dopo un po’ mi sono detto Questa lettera di Vasco gliela porto. Allora sono andato a San Siro a trovarlo, lui fu molto contento e probabilmente nei giorni successivi capì un po’ il valore della lettera, e infatti poi pubblicò, scrisse, e lo ringrazio ancora molto perché il suo contributo nel film è un fondamentale dal punto di vista sia emotivo che sostanziale, ha raccontato delle cose molto giuste, molto belle; un Vasco Rossi avrebbe potuto non farle e invece l’ha fatto.

Cambio discorso: secondo te perché i cantautori colti non vogliono andare a Sanremo, ma non è stato questo il caso di tuo padre?

Perché Sanremo è sempre stato considerato “non alto”, non giusto, e ancora adesso non capisco il perché. Comunque non era considerato il giusto compromesso per la comunicazione di un artista di un certo livello o comunque del messaggio che l’artista doveva comunicare, Sanremo poteva sminuire quel messaggio. Ma il papà disse Andiamo a Sanremo perché è l’unico modo per comunicare a tantissimi un messaggio che non potrei passare in teatro o in concerto dal vivo. Andiamo subito, andiamo, mi piace questa cosa!

Articolo e foto di Francesca Cecconi

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