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Little Albert Intervista

Chitarrista che mescola il passato e il presente con un’espressività e una tecnica davvero notevole

Il 29 marzo ha visto la luce “The Road Not Taken” (la nostra recensione) di Little Albert, al secolo Alberto Piccolo. Un album, il secondo dell’artista, che ha dimostrato le doti di questo chitarrista che mescola il passato e il presente con un’espressività e una tecnica davvero notevole. Già noto come chitarrista del gruppo Messa, in questo album solista si ha la possibilità di ascoltarlo in un modo differente. In questa intervista ci porta all’interno del processo di scrittura del suo ultimo lavoro e delle influenze che l’hanno ispirato.

Albert, come nasce il progetto solista?
Molto semplicemente è partito per fare assoli!  In seguito è diventato un modo per parlare e diventare una valvola di sfogo dei problemi. A tutti nella vita è capitato di avere un amore che finisce, qualche problema con se stessi o di fare qualche riflessione, insomma è un modo per “suonare fuori il disagio”, prendendo in prestito una cosa che ho sentito dire a Eric Clapton. Questo progetto è diventato quindi la mia valvola di sfogo. Rispetto agli altri miei progetti, come i Messa, questo rimane più sulle mie corde, diciamo più sul mio genere poiché, essendo un chitarrista blues, è quello che mi viene naturale da fare prendendo in mano la chitarra.

Qual è il processo creativo dei brani? Parti da un riff e sviluppi testo e melodia oppure parti da un’idea e poi costruisci il brano?
Molto spesso parte uno stato d’animo, da un’idea che può essere un piccolo pezzetto di testo, oppure un riff strumentale. Appena si è definita un po’ la forma che deve avere la canzone, il sound e il lato musicale; c’è poi una rielaborazione con Sara Bianchin. I testi sono miei e suoi, diciamo che le canzoni sono frutto di una scrittura a quattro mani. Le spiego di cosa vorrei parlare e da lì lei elabora il testo. Principalmente, diciamo, mi occupo della parte strumentale e delle linee melodiche.

Si percepisce una scelta molto attenta degli effetti soprattutto di modulazione. Trovi che essi siano fondamentali per la costruzione della musica?
Spesso succede che magari un suono o comunque un setup particolare possa far venire in mente delle idee o possa ispirare, però nel mio caso è più il contrario. Parto con una di suono in mente e poi adatto con gli effetti che ho. Gli effetti come mezzo sono importanti però sono un contorno della ricetta.

Facciamo un salto nel passato. Come ti sei avvicinato alla musica e alla chitarra?
Tutto inizia quando avevo 9 anni. La mia è una famiglia di musicisti, ma nessuno mi ha mai spinto o obbligato tanto meno a iniziare a suonare. Chiaramente la musica è sempre stata presente, si ascoltavano a casa i dischi di Cream, Creedence Clearwater Revival, Led Zeppelin, diciamo il Rock degli anni Settanta. Quindi, prima di iniziare a suonare, quei dischi li avevo sentiti già mille volte. A un certo punto ho trovato una chitarra in soggiorno e ho chiesto a mio zio come si suonasse e da lì è iniziato tutto. Ho iniziato successivamente a studiare più seriamente arrivando poi al conservatorio e ai giorni nostri.

Quali sono state le influenze maggiori per questo album?
Sicuramente i Cream e i Led Zeppelin come si può sentire nel disco. Particolarmente importante è stato un album di Peter Green chiamato “In the Skies” che ha un sound di chitarra molto riverberato, ma anche i Graveyard, una band attuale che seguo molto e che mi piace molto come sound. Molto importante è stato anche Rory Gallagher che ha un bassista, Gerry McAvoy, molto chitarristico e ho preso molti spunti dalla sua formazione per il sound finale. Un disco che invece ho usato come riferimento per la produzione è stato “Coming Home” di Leon Bridges, un album recente, che è stato registrato come se fosse realizzato negli anni ‘50 sia a livello di strumentazione che di tecniche di registrazione e microfoni per farlo suonarlo “vecchio”. Non credo però che ci sia qualcosa di preponderante, ma è stato tutto un insieme di questi elementi che ha creato il sound finale.

Articolo Daniele Bianchini

Foto Marco Zanin

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