Il 2 ottobre 2020 è uscito “Stardust”, nuovo disco dell’artista canadese Luka Kuplowsky, cantautore folk jazz raffinato ed estremamente interessante, che ha catturato la nostra attenzione con un album capace di distinguersi (qui la nostra recensione). Il sound particolare è frutto della collaborazione con una squadra di musicisti eccellenti: Evan Cartwright (batteria e alle percussioni), Thom Gill (Chitarra, Piano), Josh Cole (Basso, Synth) e una piccola squadra di fiati (Anh Phung – Flauto, Brodie West – Sax Alto, Nicole Rampersaud – Tromba) e archi (Aline Homzy – Violino e Viola, Beth Silver – Violoncello).
A distanza di qualche mese dalla pubblicazione, gli abbiamo rivolto qualche domanda per conoscerlo meglio e sapere qualcosa in più del suo lavoro.
Il tuo sound è estremamente ricco e particolare. Qual è stato il tuo percorso musicale? Cosa ti ha influenzato maggiormente?
Grazie! Sono cresciuto in un ambiente molto musicale, suonando la chitarra, la tromba e il piano, circondato da un’infinità di dischi e CD. Non ho mai sviluppato delle inclinazioni per uno strumento in particolare, ma scrivere canzoni è diventato il fulcro della mia pratica musicale da adolescente.
A Toronto, parte della scena cantautorale è profondamente intrecciata con il jazz e le comunità sperimentali. Scoprire questa interazione ha messo davvero alla prova il mio approccio alla scrittura e all’arrangiamento. Artisti come Sandro Perri, Jennifer Castle, Alex Lukashvesky, Ryan Driver e Marker Starling sono stati davvero fondamentali per questo cambiamento nella mia prospettiva.
Il mio prossimo album, al quale sto attualmente lavorando, abbraccia questo approccio più fluido alla forma canzone e alla sperimentazione. Sarà anche il primo disco nel quale sono riuscito a trovare un modo per far suonare la mia chitarra con la propria personalità, invece di limitarmi al supporto ritmico o a piccoli abbellimenti, come faccio di solito.
“Stardust” è il tuo ultimo album. È un lavoro davvero interessante, con moltissime sfumature. Dicci qualcosa di più: come è nato?
“Stardust” è il diretto risultato dell’ispirazione derivante dal mio coinvolgimento nella scena locale. Inizialmente avrei voluto registrare tutto il disco con l’ottetto calypso-free jazz “Eucalyptus” (https://brodiewest.bandcamp.com/album/pink-flamingo-room). Hanno questa incredibile e complessa chimica dal punto di vista ritmico e armonico – un tira e molla tra melodia e rumore che si fonda su ritmi complicati e gioiosi. Alla fine ho cambiato direzione, ma molti dei musicisti di quella band (Evan Cartwright, Brodie West, Nicole Rampersaud) hanno finito per suonare nelle sessioni di registrazione e grazie a questo il ruolo dei fiati in primo piano e i contrasti tra le dinamiche ritmiche sono rimasti protagonisti nel disco.
Per quanto riguarda la scrittura, il disco riprende tematiche filosofiche provenienti dai dischi precedenti (amore, creatività, introspezione) e continua a svilupparli. Ho provato a non complicare eccessivamente il disco dal punto di vista concettuale, ma se ci si pensa bene, le canzoni cominciano organicamente a forgiare connessioni e reti di significato. Il disco ha una sua vita propria, come è giusto che sia.
Il disco è stato registrato in pochi giorni, insieme a molti musicisti eccezionali; era la prima volta che collaboravi con loro?
Sì e no. Il percussionista Evan Cartwright ha suonato in tutti i miei dischi, sin da “Summon Up” a “Monkey King”. Ho suonato con Josh Cole (basso), Thom Gill (chitarra), Robin Dann (voce) and Felicity Williams (voce) come The Holy Oak Family Singers – un collettivo di musicisti di che fa cover di artisti come Judee Sill e Arthur Russell. Avevo incontrato Anh Phung (flauto) pochi mesi prima e ci eravamo esibiti in uno show in cui abbiamo approfondito insieme parte del materiale di “Stardust”. Con Brodie West (sax) e Nicole Rampersaud (tromba), non avevo mai suonato, ma li conoscevo per il loro lavoro negli Eucalyptus. Tutto questo per dire che nella band c’era un buon equilibrio tra familiarità e estraneità tra i musicisti. Alcuni membri suonavano insieme da molto tempo, mentre altri hanno interagito musicalmente per la prima volta.
Come vivi l’esperienza della registrazione in studio? In genere ti senti più a tuo agio sul palco o dietro le quinte”?
Amo lo studio di registrazione, ma è anche un posto pericoloso. Se ti impunti troppo sull’idea rigida che hai di una canzone, puoi finire per perderne il senso più profondo. L’intenzione di registrare dal vivo è proprio per mantenere il concetto di take migliore piuttosto vago. La take migliore dovrebbe essere una sorpresa, quella che, in perfetto equilibrio imprevisti e sincronicità, crea qualcosa di unico.
Gli studi sono anche costosi, perciò la decisione di registrare la band live è spesso anche per praticità. Il palco e lo studio non sono così diversi per i musicisti che hanno suonato in questo disco. Entrambi sono spazi per sperimentare e interagire musicalmente. C’è ovviamente meno pressione dal vivo, ma penso che meno si distingue tra le due situazioni, più è facile ottenere risultati interessanti.
Luka Kuplowsky interview, english version
Your sound is extremely rich and beautiful. What’s your musical background? What influenced you the most?
Thank you! I grew up in a very musical household, playing guitar, trumpet and piano, and surrounded by endless records and CDs. I never developed a great technical skill for any one instrument, but songwriting became a focus of my musical practice as a teenager.
In Toronto, parts of the singer-songwriter music scene are deeply entwined with jazz and experimental communities. Discovering this intersection really challenged my approach to writing and arrangement. It opened up possibilities that I had closed off with songwriting. Artists like Sandro Perri, Jennifer Castle, Alex Lukashvesky, Ryan Driver and Marker Starling were very influential to this shift in my outlook.
The next record I’m currently working on further embraces this more fluid approach to songform and experimentation. It’s also going to be the first record that I’ve found a personality for my guitar voice, something I’ve usually limited to just rhythmic support or small flourishes on recordings.
“Stardust” is your new album. It’s such an interesting work, with so many nuances. Tell us more about it: how did it come about?
“Stardust” is a direct result of the inspiration from engaging in my local scene. I had initially wanted to record the entire album with the local calypso-free jazz octet “Eucalyptus” (https://brodiewest.bandcamp.com/album/pink-flamingo-room). They have this incredible chemistry of rhythmic and harmonic complexity – a push and pull between melody and noise that is grounded by shifting and joyful rhythms.
I ended up going a different route with the band, but many of the players of that band (Evan Cartwright, Brodie West, Nicole Rampersaud) did end up on the recording session and that impulse to foreground horn leads and dynamic rhythmic contrasts remained central to the record.
For songwriting, the record pulls at philosophical strands left from other records (love, creativity, introspection) and continues to develop them. I try not to overthink the record conceptually, but if enough thought is put into the work, the songs organically begin to forge connections and webs of meaning. The record has its own life, as it should.
The album was recorded in a few days, with a lot of great musicians. Was that your first time working with them?
Yes and no. The percussionist Evan Cartwright has been playing on every record of mine since “Summon Up” a “Monkey King”. I had played with Josh Cole (bass), Thom Gill (guitar), Robin Dann (voice) and Felicity Williams (voice) as The Holy Oak Family Singers – a loose collective of Toronto Musicians covering artists like Judee Sill and Arthur Russell. I had met Anh Phung (flute) a few months prior and had played a show where we workshopped some of the “Stardust” material. With Brodie West (sax) and Nicole Rampersaud (trumpet), I had never played with but was familiar with their work from Eucalyptus.
This is all to say that the band balanced familiarity and unfamiliarity among players. Certain members had long-standing musical relationships, while others were interacting musically for the first time.
How do you live the studio recording experience? Do you usually feel more comfortable on stage or “behind the scenes”?
I love the studio, but it’s also a dangerous place. If you dwell too much on a fixed idea of a song, you can easily lose its center. The impulse to record live is to keep the idea of ‘the best take’ fairly elusive. The best take should be a surprise, one that accumulates accidents and synchronicity into something interesting
Studios are also expensive and so the decision to record the band live is often practical. The stage and studio are not so different for the players on this record. Both are spaces to experiment and react to each other musically. There’s of course less pressure in a live environment, but I think the less distinction you have for the two often leads to more interesting records.
Articolo di Valentina Comelli