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Marco Degli Esposti e Paolo Maoret intervista 

Un ottimo podcast che analizza i concerti italiani dei Nirvana, con voci e testimonianze

“Ho conosciuto Kurt Cobain – La storia dei Nirvana in Italia” è un podcast in 7 episodi, scritto e narrato da Paolo Maoret, musiche e sound design di Marco Degli Esposti. È stato lanciato sulle piattaforme digitali il 16 dicembre 2024. Un ottimo lavoro che analizza i concerti italiani dei Nirvana, con voci e testimonianze, ma allo stesso tempo ricostruisce un clima, un mondo musicale e sociale che, come dicono di due autore, si colloca esattamente agli albori dell’era digitale, compresso e compreso fra due eventi epocali: la caduta del Muro di Berlino e la Guerra nei Balcani. Ne abbiamo parlato con i due autori, in una bella e lunga intervista, ricca di contenuti, così il loro Podcast. 

Come e quando è nata l’idea di questo podcast?
Paolo Tutto è iniziato a settembre 2023. Con Marco ci scambiavamo (e tuttora lo facciamo) un mucchio di podcast e sentivamo la necessità di un racconto fresco, vitale, leggero, lontano dalle morbosità dei True Crime e dalla serietà delle inchieste giornalistiche, che sono poi le due tipologie di racconto sonoro che apprezziamo di più… ma volevamo appunto ascoltare qualcosa di nuovo, magari un podcast a tema musicale, visto la loro scarsità, e scherzavamo sul fatto che forse avremmo dovuto farcelo noi. Nel frattempo stavo frequentando il corso di podcasting a Chora Academy e i nostri docenti ci hanno invitato a riflettere sull’importanza di trovare storie che muovessero delle motivazioni personali forti e autentiche. Motivazioni che giustificassero anche il perché, come autore, mi sarei preso la responsabilità di raccontare quella storia. Quindi ho iniziato a riflettere su questi due fronti. Quale sarebbe stata una storia di taglio audio-documentaristico che mi sarebbe piaciuto ascoltare? E se l’avessi raccontata io, quali motivazioni profonde mi spingevano a farlo?

Ho cercato tra i miei desideri più intimi e ne è emerso uno dalla forza dirompente: essere stato presente a un concerto dei Nirvana! Ho subito telefonato a Marco e gli ho detto l’idea. Fin dall’inizio ci è stato chiaro che sarebbe stata un’immersione sonora per permettere a noi e a tutte le persone che, come noi, non sono potute essere a quei concerti, di trovarsi dentro i club, nelle atmosfere di quel tempo, dentro quel magico mondo che erano gli anni ‘90. 

Come si sono svolte le ricerche? (Siete partiti da conoscenze? Avete lanciato appelli? Sono storie che già conoscevate?)
Paolo Prima di iniziare la ricerca, Marco e io siamo andati a intervistare due amici che abbiamo in comune: Tiziano e Matteo Sgarbi. La loro conoscenza in pratica è il terzo motivo per cui abbiamo deciso di realizzare il podcast, perché sapevamo che erano stati a qualche concerto dei Nirvana e, soprattutto, sapevamo che avevano una serie di aneddoti succosissimi da raccontarci. In primis quello del giubbotto venduto a Kurt Cobain, che abbiamo deciso di far diventare centrale nella narrazione, perché fortemente simbolico, come punto centrale d’incontro tra la microstoria e la macro-storia. 

Poi ho iniziato tutta una serie di ricerche parallele: spulciando articoli di blog sui concerti in Italia, rileggendomi le biografie di Kurt Cobain e altri libri sul grunge, iniziando a seguire gruppi Facebook di persone che erano state ai concerti e iniziando a scrivere loro sui social. All’interno di queste pagine Facebook sono anche entrato in contatto con Riccardo Cogliati, autore del libro “Smells like Italy” (Tsunami Edizioni), che ha condiviso generosamente molti dei suoi contatti e delle sue informazioni, raccolte in anni e anni di ricerche. Infine una certa rilevanza l’ha avuta il passaparola tra i nostri conoscenti: mi ricordo di un amico che ha un’amica che è stata al concerto dei Nirvana… e da lì parte un effetto domino che ci ha permesso di realizzare più di 30 interviste, tanto che a un certo punto ci siamo dovuti fermare…

Ho ascoltato il vostro podcast con un amico che, come me, ha vissuto quegli anni. La cosa che ci siamo detti è che, ascoltarvi, era come essere con amici, in birreria. Questo effetto è voluto? Intendo questa dimensione genuina, che si sente e si percepisce…
Paolo Questo secondo me è un aspetto intrinseco alla fruizione di un podcast, soprattutto quando il narratore/speaker ha un approccio informale e si rivolge in prima persona direttamente all’ascoltatore.  Non c’era dubbio che il nostro narratore avrebbe avuto un approccio di questo tipo, mi piace chiamarlo “empatico”. Proprio perché volevamo dare alla narrazione un tono a tratti scanzonato, o comunque leggero: come un amico che ti prende per mano e ti accompagna a fare un giro tra i suoi ricordi di gioventù. 

In questo aiutano molto anche le voci degli intervistati; la maggior parte sono diventati nostri amici e amiche, prima di tutto, e il fatto di non avere scadenze o tempistiche particolari nella distribuzione del podcast, ci ha permesso di instaurare delle relazioni di fiducia reciproca, prima scrivendosi, poi telefonandosi e infine incontrandosi di persona, con qualcuno più di una volta. Così anche dalle interviste emerge questo aspetto di “dimensione genuina”, che più che essere voluto è venuto fuori in maniera totalmente naturale.

La musica dei Nirvana c’è, ma di fatto non c’è. Al netto della ovvia questione dei diritti, è stata anche una precisa scelta? Penso al film di qualche anno fa dedicato a Hendrix, dove la scelta di mettere poca sua musica era allagata al fatto che si doveva far vedere la sua creatività.
Marco Parlando di Nirvana è stato chiaro fin da subito che la colonna sonora sarebbe stata una parte importante del podcast. Fin da subito non abbiamo voluto vedere la questione “Diritti” come un problema, bensì come un’opportunità. Abbiamo pensato che sarebbe stato bello in sottofondo avere i Nirvana jammare in sala prove, o Kurt seduto in una stanza ad abbozzare una canzone. La colonna sonora che ho realizzato è frutto di queste immagini, ho scritto e registrato 12 brani immedesimandomi nei Nirvana. Imitando i loro suoni, i loro giri, i loro tempi, le loro accordature. Senza voce. Loro 3 in una sala prove che buttano giù idee. O magari è quello che avrei fatto io se mai mi fossi trovato a suonare con loro. Sembra assurdo ma in un podcast sui Nirvana non c’è neanche una nota delle loro canzoni. La sigla è dei Super Fat Ginger Cat, band bolognese fighissima che per strane congiunzioni astrali stavamo ascoltando proprio nei primi giorni di registrazioni e sempre per puro caso abbiamo inserito, in via sperimentale, nel trailer come base per registrare le voci. Già al secondo ascolto ci siamo detti che erano perfetti, e così non li abbiamo tolti più. 

Mi aspettavo che qualche bootleg pirata si sentisse, e invece… Nel mentre ho recuperato quasi tutti i live italiani. Credo li abbiate ascoltati anche voi, e a vostro modo di vedere e sentire, alla luce anche delle interviste fatte, quale è il migliore?
Marco Gli spezzoni che senti sono quelli che si trovano in rete ma sempre per questioni legate ai diritti non abbiamo inserito nessun brano dai bootleg. Solo gli intermezzi in cui il pubblico si esalta o rumoreggia. A dire il vero non ci è mai interessato avere i loro brani live perché è tutto materiale che chiunque può tranquillamente reperire in rete e apprezzare meglio unitamente ai video. La qualità dei bootleg è quello che è, specialmente nel periodo 89-91, non saprei dirti quale preferisco. Ciascuno ha qualche versione di qualche canzone suonata in modo “perfetto”, in quegli anni erano in una forma straordinaria e specialmente nel tour di “Nevermind” dal vivo erano una furia. Tutto quello che dico è confermato dalle interviste fatte, se ascolterete il podcast si capisce bene cosa intendo.

Paolo Parte della ricerca è stato anche rivedersi tutti i concerti live italiani (e non solo… sotto consiglio di un intervistato per esempio ho visionato anche uno spettacolare Live in Kapu dell’89, con mezz’ora di jam). L’idea che mi sono fatto è quella che emerge con chiarezza nel podcast: nell’89 erano una band acerba, con però un’energia e potenza già fuori dalla norma.  Nel ‘91 invece hanno raggiunto una maturità sia musicale, che compositiva, mantenendo l’entusiasmo degli esordi. Infine con il tour del ‘94 l’entusiasmo è venuto meno, ma rimane una ormai collaudata esperienza e una maturità giunta al suo apice con alcuni brani di “In Utero”. Dal punto di vista musicale, dall’idea che mi sono fatto, il miglior concerto è stato quello al Teatro Castello di Roma nel ‘91, anche perché c’erano le riprese di Videomusic. Ma se potessi tele-trasportarmi, sceglierei altri due concerti del ‘91: uno tra Muggia e Baricella, forse i più epici: perché situazioni provinciali e fuori dai soliti tragitti delle band, che hanno visto passare di là un vero e proprio tornado di decibel.  

Le storie che avete scovato sono davvero voci interessanti, di un popolo che, come dite alla fine, condivide e ancora credeva nella dimensione collettiva della musica. Guardato dal mondo di oggi, che mondo era quello che avete testimoniato?
Marco Era un mondo che sia io che Paolo, per ragioni anagrafiche, abbiamo vissuto di riflesso. La nostra consapevolezza musicale è emersa da ragazzini alla fine degli anni 90 (io sono nato nel 1985, lui nel 1987). Quell’immaginario ci appartiene, l’abbiamo fatto nostro attraverso il racconto di altri e la musica che è rimasta, lo sentiamo vicino e in un certo senso, anche tramite questo podcast, cerchiamo sempre di riviverlo senza mai averlo realmente vissuto. Detto questo l’operazione nostalgia finisce qui. Da musicista, fonico e organizzatore di concerti cerco costantemente di portare avanti quel linguaggio, quei valori e quelle idee. Le trovo più che mai attuali e necessarie nel mondo di oggi. Tanto si pesca dalla mera estetica e tanto poco poi si vanno ad analizzare le dinamiche che l’hanno generata. Come a dire, oggi è facile e spurio limitarsi a suonare quella musica là, molto più autentico sarebbe ritornare a vivere i locali, ricreare una nuova scena. La musica per me non è suonare, la musica è un momento di condivisione, di occupazione di luoghi, è uno scambio reale di idee. Il concerto è aggregazione, è confronto. Organizzare concerti è politica: tanto per chi è sul palco, tanto per chi stacca i biglietti all’ingresso. Questi sono tutti aspetti che nel podcast abbiamo voluto approfondire attraverso le molte testimonianze di organizzatori, volontari, proprietari di locali che ci hanno raccontato come nascevano quelle realtà. Il concerto in sé non esisterebbe se non ci fosse tutto questo mondo attorno ed è bene che questo aspetto non lo si dimentichi mai… per quanto oggi sia decisamente molto offuscato.

Nell’intro del vostro podcast c’è una frase che mi ha fatto pensare molto. Dopo la caduta del muro, allo scoppiare della guerra in Jugoslavia, e poco prima della rivoluzione digitale. Confesso che da docente di storia e di filosofia non avevo mai pensato in questo modo a quest’epoca. Cinque anni che sono distanti tre decenni, ma che sembrano lontani anni luce. So che il senso di questa frase è nelle sette puntate, ma vorrei che provaste a farmi una sintesi, alla luce anche del lavoro fatto…
Paolo Sì, abbiamo tentato di fissare dei pilastri storici che contenessero l’arco narrativo della parabola di Kurt Cobain e del triplice passaggio dei Nirvana in Italia. I tre macro eventi sono appunto eventi epocali, che hanno cambiato il paradigma di quegli anni e per una combinazione quasi insperata, siamo riusciti a innestarli nel nostro arco narrativo in maniera molto naturale. Segnando un parallelismo con la vicenda della band in Italia, non solo di natura storica, ma anche metaforica e di senso. Nel giro di un lustro si è rivoluzionato il mondo che conoscevamo prima, non solo in Italia e in Europa. Così è stato anche per i Nirvana e Kurt Cobain: in cinque anni hanno rivoluzionato la storia del rock e sono gli ultimi ad aver raggiunto un successo così improvviso prima dell’avvento del digitale. Dopodiché si sono stravolte le regole del gioco e nulla è stato più lo stesso.

Dopo aver ascoltato queste storie, averle montate e messe insieme, cosa resta, secondo voi, oggi, di Cobain e dei Nirvana, al netto delle celebrazioni e dei cofanetti?
Paolo La loro musica rimarrà sempre il lascito più prezioso e mi fa emozionare come le prime volte, questo è un aspetto magico a ben pensarci. Però al di là della musica, quella dei Nirvana e di Kurt Cobain è una storia universale che dopo più di 30 anni coinvolge ancora tante persone e le fa vibrare di una fiamma viva, autentica. Dopo la pubblicazione del podcast ci è arrivata (e continua ad arrivare) una marea di messaggi molto forti e commoventi, con tante emozioni che quella storia smuove ancora e che sono la testimonianza tangibile di quello che oggi resta di loro. 

Quale storia vi ha entusiasmato di più?
Marco Difficile trovare un racconto “preferito”. Personalmente trovo molto entusiasmante il contesto che si era creato durante il tour del 1991, all’uscita di un disco epocale come “Nevermind”, posso solo immaginare la frenesia e il desiderio che ruotava attorno a un loro concerto. La curiosità, l’adrenalina, l’attesa e poi l’esplosione. Una scaletta della madonna, un live perfetto. Una conferma dell’energia emanata su disco. Non tanto la sensazione di aver vissuto qualcosa di epocale, ma di attuale. Del qui e ora. Una band di coetanei che spazza via tutto. Dovendo scegliere un momento, per me è questo.

Articolo di Luca Cremonesi

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