Dietro di lui c’è il quadro di un gatto. È un disegno. Poi ci sono alcuni libri, fra i quali James Hillman. Fuori diluvia. La primavera lombarda, in quel di Calvisano, paese della Bassa Bresciana, non vuole decollare. In braccio, Michele Lobaccaro, nato a Ventimiglia, musicista, compositore, fra i fondatori del gruppo Radiodervish, e cantante grazie al suo album da solista “Navigazioni intorno al Monte Analogo”, uscito il 26 gennaio per Cosmasola, tiene il suo piccolo cane bianco. Si addormenterà sereno, mentre noi conversiamo. Ecco, questo è il clima nel quale mi accoglie Lobaccaro per la nostra intervista, mentre fuori si scatenano gli elementi: sereno, calmo, dolce. Mi accorgo di avere a che fare con un musicista colto, non come uomo carico di cultura, ma perché persona capace di essere, o di occupare, come ebbe a dire il filosofo Leibniz, un punto di vista diverso nel Mondo.
Il suo album, un’opera che ha avuta una gestazione di 20 anni, mi confessa aprendo la nostra conversazione, è il risultato di questo lungo viaggio. Mi colpiscono molte sue frasi. Una su tutte: questo è un lavoro di cordata. È mio, scritto da me; ma è anche il frutto del lavoro che è stato condiviso, negli anni, con tanti artisti, da Battiato ad Alice, passando per Camisasca e Nabil Salameh, e altri ancora. In montagna, nelle cordate, funziona così. Non si è mai da soli, si prosegue insieme. Una visione che è già una precisa direzione per leggere e ascoltare questo concept album molto particolare.
Questo è il tuo primo lavoro da solista?
Diciamo di sì. Nel precedente, “Un’ala di riserva. Messa laica per don Tonino Bello” (2015), ci sono un paio di brani cantati da me. Erano tutte mie composizioni, ma ho ospitato altri musicisti, da Battiato a Caparezza, passando per Nabil, e altre personalità di ambito pugliese. Era un omaggio a Don Tonino Bello, vescovo di Molfetta; un intellettuale che aveva una serie di visioni molto interessanti. Tolto quello, questo “Navigazioni intorno al Monte Analogo” è il mio primo disco cantautorale. Ci sono gli interventi di Nabil e Camisasca, mentre il resto è tutto mio. In sintesi, l’ho cantato; c’ho messo io la voce, oltre a tutta la parte compositiva. Per quanto riguarda i musicisti, io suono chitarra e basso, qualcosa al pianoforte, poi appunto è un’opera di cordata, alla quale hanno collaborato molte altre personalità.
L’immagine della montagna è importante, dato che l’album nasce dalla lettura attenta del romanzo “Il Monte analogo”, opera incompiuta di René Daumal. Un libro che ha ispirato anche i Karma, per “K3”
E anche “‘Prati Bagnati del Monte Analogo”, disco culto del 1979, di Raul Lovisoni e Francesco Messina. Un lavoro Prog, prodotto da Battiato. In Italia è il primo lavoro dedicato al Monte Analogo, dove ha cantato anche Camisasca.
Mi ha stupito il fatto che abbia ispirato lavori così diversi. Il tuo intimo, mentre i Karma hanno realizzato un album rock. Come sei arrivato a questo libro, e a questo lavoro, ispirato appunto da quella lettura?
Il romanzo me l’ha fatto leggere Battiato. Mi ha colpito subito. All’epoca ero affascinato da Gurdjieff, e da quel mondo, che è alla base dei percorsi di crescita, e di ricerca, anche dello stesso Battiato. Sono passati 20 anni da quando ho cominciato a lavorarci, realizzando delle composizioni che man mano sono diventate piccoli opere, nei quali ho coinvolto altri musicisti. Alcuni di questi sono cambiati nel tempo, altri sono arrivati e se ne sono andati. Così è stato anche per gli arrangiamenti, che sono inevitabilmente mutati nel tempo. Alla fine mi sono deciso a dare una forma compiuta a tutta questa produzione. Vent’anni di gestazione, non continua però. Ogni tanto ci tornavo. Ora sono questo disco.
Il libro ha un valore importante, anche se non è stato completato dall’autore, come è noto. Forse è propio questo che lo rende ancor più affascinante. Si tratta di una storia che ci lascia aperti alla ricerca. Questi avventurieri partono, vanno alla ricerca di questo monte. Ciò che mi interessa è l’aspetto legato al fatto che esista una necessità di sacralità nell’uomo, che spesso si è espressa nell’analogia con il monte, con la vetta inaccessibile. Però, e questo è l’altro spunto che mi ha colpito, tutte le vette, nel mentre, sono state violate e conquistate. Questo però non ha fatto terminare il bisogno del sacro nell’uomo.
Deve esistere una vetta inviolata – è un ragionamento analogico ovviamente – che dia il via alla ricerca di qualcosa, che non può essere violato; che non sia ridotto a ciò che può essere controllato e dominato. Ed ecco che nella vicenda narrata nel libro si parte con questa forte convinzione. Si utilizza un’imbarcazione che, non a caso, si chiama “L’Impossibile”. Come bagaglio si ha la teoria della relatività, la scienza che andava per la maggiore all’epoca, con la quale si spiega come i protagonisti arrivino alla montagna, che non si trova sulle mappe. È una montagna che c’è, e che non si vede. O meglio: nessuno che non abbia gli occhi, o la fede, per vedere bene, è in grado di scovare il monte. Tutto questo è stato fonte di ispirazione e di ricchezza. Negli ultimi anni mi è piaciuto pensare al rapporto fra analogo, analogico e digitale, perché un po’ riflette questa idea totalizzante che tutto possa essere riproducibile, virtualmente. Si tratta di una prigione. In sintesi, si tende a negare qualcosa di inaccessibile, come la montagna sacra che è in ognuno di noi, e che esiste nella (nostra) realtà.
Nella musica molto: se da un lato semplifica, dall’altro fa venire meno l’unicità che è tipica dell’arte, e cioè ciò che legava l’arte al mondo della spiritualità, inteso come ciò che era significante… Sembra che tutto sia facile da conquistare. Non basta fare la somma di elementi per ottenere l’arte, detto in altri termini. Trovo che la prima traccia – “Succederà” – sia uno spartiacque da questo punto di vista
È una canzone dove emerge una dimensione apocalittica; un’ossessione per la fine catastrofica di un’epoca. In questi mesi che viviamo sta tornando questa paura, purtroppo. Quella di una guerra nucleare…
Ecco questo mi ha stupito, il fatto che parli proprio del pericolo nucleare, cosa che era cantata un tempo, ma che ora difficilmente è argomento di riflessione in musica. È un testo inattuale, ma c’è molto realismo in questa inattualità
La prima stesura della canzone, poi modificata varie volte, è nata durante il Covid. È stato un dramma collettivo; una cesura che ha cambiato le abitudini di tutti, e ha creato uno strappo. Volevo sottolineare che è un tempo lineare che ha perso la sua linearità; che ha perso l’orizzonte, e per di più se c’è, è solo catastrofico. L’invito è nel non rimanere ossessionati e vittime da questo. Veniamo da un’epoca di grandi ideologie, e ora ci troviamo un periodo dove sembra non ci siano possibilità: solo epidemie, guerre, catastrofi ambientali, e tanta paura. Stiamo buoni, affidiamoci alla scienza, senza nessuna visione critica. Invece ciò che mi interessava era uscire da questa idea lineare del tempo. Non ci sono solo “prima” e “dopo”, c’è un adesso. L’orizzonte è quello della presenza, dell’ora, del momento. Altrimenti il passato e il futuro, in questo caso, non ci animano. Ci uccidono. Il Monte analogo mi sembra un simbolo, una metafora per raccontare questi aspetti, e che può aiutarci.
Si apre questo scenario, all’inizio del tuo lavoro, e poi arriva “Le cose passate”, canzone che trovo molto interessante
L’idea è quella: una cesura con “Succederà” e poi una presa di distanza con questa seconda traccia. Vivere le cose del mondo con una certa distanza, che può essere quella malinconica del passato… ma serve ricordare che noi un giorno saremo le cose passate. Nell’idea di mettersi in viaggio verso il Monte analogo, quindi un percorso spirituale, di crescita, di liberazione, ci deve essere il momento dell’amore per la vita. Per questo serve vederla con distanza. Capire che ogni istante è meraviglioso. Quando non lo avremo più, lo ricorderemo come unico. Ogni secondo è davvero irripetibile.
In “Sogol” c’è un ospite particolare. Personalmente l’ho vissuta come una preghiera laica. Mi ha fatto venire in mente le parole che Giovanni Lindo Ferretti ha utilizzato a proposito del rapporto fra canzone e preghiera, dove ciò che hanno in comune è il fatto della ripetitività, della ritualità. C’è una dimensione della ritualità in questo testo. L’hai costruita così?
Molte cose, quando si compone, le scrivi perché le devi scrivere. Sonorità, melodie e testi, si impongono. Spesso non ne capisci il senso, però sai che è importante. Perché risuona. Perché ti chiama. Poi, man mano che vai avanti, scopri altri significati. Se un pezzo è vivo, comincia a parlare. Alla fine è uscita una preghiera laica, ci può stare. L’idea iniziale era quella di descrivere il momento in cui nel romanzo irrompe questo Deus ex machina che è Sogol, colui che crede, con il protagonista, che il Monte analogo esista davvero. Sono in due che ci credono, dunque. Questo cambia lo scenario. Diventa una possibilità, dato che siamo in due a pensarla così. Il protagonista viene invitato nella casa di Sogol; un laboratorio nel quale non ci si arriva nei modi usuali, ma ci si deve arrampicare sui palazzi di Parigi per giungere alla mansarda dove c’è dentro tutto lo scibile umano. C’è l’elencazione di tutto, e c’è anche però il movimento che è contenuto in Sogol, che è il contrario di Logos. Invertire, e iniziare a ragionare in altri modi. Questo ti porta poi a cogliere il Monte analogo, e cioè la dimensione di qualcosa che sta oltre.
Quando ho chiesto a Nabil Salameh – voce dei Radiodervish – di cantare quel brano, dopo avergli spiegato che quella era l’elencazione del sapere di tutte le epoche, lui ha voluto mettere questa elencazione del meglio dei saperi del periodo d’oro della filosofia, scienza e spiritualità araba. Quindi c’è un lungo elenco di titoli e autori di libri di quel periodo. Così è nato questo specie di mantra, canto, preghiera che è laica, sacra per certi versi, ma laica, e cioè non religiosa. Anche musicalmente, la traccia è costruita in modo ciclico, e ogni volta c’è qualcosa di nuovo che si aggiunge.
Da un punto di vista musicale, hai suonato tutto tu? Mi riferisco all’intero lavoro, non solo a questo brano del quale stavamo parlando
Ci sono diversi musicisti che hanno lavorato a questo disco. Io ho suonato basso, chitarra; cantato in tutti i brani; qualcosa di tastiere, piano ed elettronica. Gran parte del lavoro però mi ha visto collaborare con vari musicisti. Fra l’altro, non tutti quelli coinvolti in questi 20 anni di gestazione alla fine sono entrati nel disco. Era impossibile. Con alcuni ci siamo anche persi di vista. Saro Cosentino, per esempio, lui ha tutte le versioni dei brani, perché sembrava dovesse essere lui il produttore. Anche Battiato aveva ascoltato alcuni pezzi, come Alice. A me piace parlare di cordata, dato che stiamo raccontando di una scalata. Le cose si realizzano così quando si è in cordata: ognuno porta qualcosa; ognuno aiuta l’altro. Il primo che arriva non è il vincitore. C’è una squadra che ha lavorato per ottenere il risultato. Insomma, è un album mio, ma anche collettivo, di persone che hanno vissuto un percorso personale grazie anche al disco.
Nel pezzo con Camisasca c’è una delle chiavi di lettura dell’album, dove si parla appunto dei pensieri negativi. Nella prima traccia, “I giorni che verranno”, trovo una delle soluzioni di quello che è, alla fine, è il vero senso dell’album: il viaggio
Ci conosciamo e abbiamo collaborato altre volte. Ha ascoltato quella canzone, e se ne è innamorato. Una particolarità: Camisasca, come ricordato all’inizio, ha cantato nell’album del 1979 ‘Prati Bagnati del Monte Analogo”.
Ha contribuito alla stesura del testo?
No, il testo è mio. Lui lo ha cantato. Comunque, la chiave vera è l’essere stanco dei neri pensieri. Alla fine questi anno un loro fascino. C’è un certo piacere nell’insistere nell’odio, nel rancore, nella tristezza. Serve sentire questa stanchezza per i neri pensieri che ti fanno perdere la vita.
Qui ho trovato una forte assonanza con “Neri relitti” dei Karma, per via del fatto che c’è qualcosa che ti fa perdere la vita e il senso del presente. Arriviamo così a “Uomini cavi”, ultimo testo che vorrei commentare con te. Perché di fatto questo tuo disco, come il libro, che resta incompleto, termina, ma non è concluso.
Ci sono gli appunti di come Dumal avrebbe voluto far continuare la storia, ma è un aspetto poco interessante. È bello che rimanga aperto. Una delle ultime frasi del libro è: “e tu che cosa cerchi?”. Dove lo vai a trovare il tuo Monte analogo? Guarda il mondo con altri occhi. Sugli uomini cavi… è uno dei miti che incontrano chi sta cercando il Monte analogo. È bella l’immagine dell’arrivo al porto, con tutte le navi di epoche e culture differenti. Tutti avevano avuto l’intuizione del Monte analogo, e ci sono arrivati. Questa commistione, ha dato vita a molti miti comuni, a storie, come quella degli uomini cavi. Come ogni mito ha una sua zona incomprensibile, che ha la forza però di agire dentro di te.
Spesso mi chiedono che cosa siano gli uomini cavi. Ho fatto un percorso con un gruppo di biblioterapia in una struttura dove si lavora sulla salute mentale di pazienti e parenti. Con loro abbiamo letto il libro, e affrontato alcune parti del mio lavoro. E usciva questo aspetto: erano personaggi positivi, e cioè uomini che si sono svuotati delle parole senza senso, di pregiudizi, e sono pronti ad accogliere la luce; o di coloro che sono vuoti, privi di senso e che sono superficiali. A me piace pensare che queste due visioni possano convivere, come appare chiaramente nel testo della mia canzone. Vorrei raggiungere gli uomini cavi, ma anche andare oltre la superficialità. Può esserci questa doppia lettura che poi, in fondo, è il senso della ricerca. Quando si va verso una vetta di una montagna, tutto ciò che è duale tende a diventare uno. In una unicità che va oltre la semplice somma. L’unico resta unico, come canto.
Quando hai chiuso questo lavoro, ti sei sentito soddisfatto? È venuto come lo volevi?
Sì, devo dire di sì. Più che altro è come è venuto. Fotografa il percorso che c’è stato. Con i suoi limiti. Sono molto tranquillo, anche nella comunicazione di questo album. Penso che abbia una forza in sé, che risuona in chi vuole avvicinarsi, e non solo per mestiere. Se si ha la pazienza di ascoltare, si entra in comunicazione con la cordata, oppure se non interessa, non si entra. Ha una forza sua, ne sono convinto. Ecco, se vogliamo, lo posso dire così: è un lavoro che ha un’autenticità, con limiti e pregi.
Questo è un album che bisogna incontrare. Bella l’immagine dell’entrare in comunicazione con la cordata. Non lo puoi smontare; non lo puoi ascoltare come insieme di singoli. Richiede attenzione; va sentito tutto, senza soste. Non è solo un concept, si entra in un mondo musicale. La musica, dunque, può fare la differenza?
La fa sempre. La creatività ha senso oggi. Per tornare all’inizio, quando si diceva che tutto può essere manipolabile e controllabile, allora si perde e si toglie l’autenticità della creatività. O si viene convinti che il mondo reale è brutto, e invivibile, oppure tu hai degli occhi con i quali vedi che il tuo piccolo atto creativo, l’andare al lavoro con la tua autenticità e onestà, creatività, poeticità, ha una sua potenza, ed è molto. È una forza nucleare, ed è più potente di una guerra nucleare. La musica, come qualsiasi espressione creativa, ha senso se ascoltata. Dipende dall’ascolto. La musica c’è; ma ciò che serve capire è se ci sia un ascoltatore. Se questo esiste, allora la musica ha un senso. E così si vede la differenza fra reale e virtuale. Serve sempre saper distinguere le ombre che si sono sulla parete, e capire che c’è altro. Come accade nella Caverna di Platone.
Tu hai colto alcuni concetti di questo libro, e ce li hai ridati in musica. Non hai musicato il libro. Non ci hai dato un disco colto; ma un recinto aperto che accoglie; un disco sereno in sostanza.
È il racconto di una ricerca. Quando senti qualcuno che, in modo autentico, ti racconta aspetti della sua vita, risuoni. Se viene invece per insegnare qualcosa, è molto meno efficace. L’umiltà, che è ciò che mi da serenità, è stata una conquista. Sono stati vent’anni anche di tentennamenti, ma alla fine ho detto lo faccio, senza troppe ansie di prestazione. Mi sono messo in prima linea, e mi sono accettato per quello che sono. Senza cercare per forza il plauso di persone, ma con la serenità che possa essere una cosa utile anche ad altri.
Avrà una vita live?
Sì, faro dei concerti.
Articolo di Luca Cremonesi
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