I Moongarden tornano con un album di inediti dopo cinque anni dal precedente “Align Myself To The Universe”. Il nuovo lavoro s’intitola “Christmas Night 2066” (la nostra recensione), ed è uscito in versione vinile, solo per l’album di inediti, e in versione cd, con un secondo album di cover e di collaborazioni. Di questo nuovo lavoro abbiamo parlato con Cristiano Roversi, produttore, arrangiatore e musicista, emiliano ma che da anni vive e opera nel mantovano. Il suo accento emiliano è splendido, come è stato bello e interessante discutere con lui del nuovo lavoro della sua band, fondata nel 1993, con all’attivo, sino a oggi, 6 album in studio, oltre ad aver partecipato a numerose compilation e tributi.
I Moongarden tornano con un nuovo disco dopo cinque anni di pausa. Come nasce questo lavoro?
Confermo, sono passati cinque anni. Più o meno è la nostra media per sfornare un disco nuovo. Siamo tutti musicisti professionisti, e dobbiamo darci da fare in mille progetti per sopravvivere, perché solo con il Prog non è possibile campare. Quindi, non è facile lavorare insieme nella quotidianità, e per trovarci facciamo un po’ fatica. Però quando questo accade, riusciamo a portare a termine il progetto. Lavoriamo, insomma, per tanti anni su un disco, e poi lo facciamo uscire.
Il nuovo “Christmas Night 2066” come è nato, nel dettaglio?
È un lavoro che ha avuto una genesi curiosa. Volevamo regalare, a chi ci segue e ai nostri fans, un pezzo inedito della durata di 15 minuti. Lo avevo composto molto tempo fa. Però, mentre ci stavamo lavorando, è successo che questa musica si è allungata… e si è allungata così tanto che è diventata una composizione della durata complessiva di 46 minuti.
Molto prog come approccio…
Infatti, ma noi siamo fatti così… A questo punto ci siamo trovati con in mano un album, e non più con un pezzo da 15 minuti che, in origine, doveva essere messo sul sito per i nostri fans. Così abbiamo deciso che quella composizione doveva essere l’ossatura del nuovo album. Nel disco, alla fine, questo pezzo originario d 15 minuti c’è tutto ovviamente, però è stato allungato e lavorato. Si tratta di una composizione molto complicata nella scrittura. In una seconda fase, è nata poi la storia, e così abbiamo deciso di abbinare le due cose, e cioè la musica e le parole. Dall’unione di storia e musica è nato questo che, a tutti gli effetti, è un romanzo. Un vero concept album.
Come lo possiamo sintetizzare, dato che si tratta di un lavoro compatto, con un ottimo impianto sonoro, e una storia che si sviluppa per tutto il disco?
Si tratta di una narrazione molto influenzata – e non poteva essere altrimenti – dagli eventi che stiamo vivendo nella nostra epoca, dal Covid in poi, e cioè, in estrema sintesi, pestilenze e guerre. Non ce ne stiamo facendo mancare una, mi si passi l’espressione quasi dialettale. Allo stesso tempo è un album che è influenzato da un concetto che ci fa star male: l’umanizzazione della guerra. Ogni giorno, quando ci svegliamo e accendiamo la Tv, sentiamo quella che ormai è la conta dei morti: civili, bambini, persone in generale. Di questi tutti ne parlano solo come dei semplici numeri. Non ci accorgiamo che stiamo davvero raccontando di bambini e di civili che muoiono tutti i giorni, e in gran numero. È una cosa incredibile. Però pare che a tutto questo ormai abbiamo fatto l’abitudine. Spesso e volentieri vedi gli annunciatori televisivi che parlano, non so, di migliaia di civili morti, o di bambini che non ci sono più, e poi lanciano una splendida pubblicità. L’umanizzazione della guerra, insomma, è la cosa che più ci ha colpito. Il disco parla di redenzione e di drammi, concentrati però nella vicenda del singolo. Ecco perché racconta la storia di una madre, di un bambino e di un soldato. Abbiamo evitato, proprio volutamente, di trattare di grandi numeri, e cioè di eserciti, di nazioni. Ci siamo concentrati sulla storia di tre persone, perché quando anche un solo essere umano scompare, è per noi una tragedia. Per questo motivo la guerra è un dramma enorme.
Il singolo è sempre importante, condivido questo aspetto. Tutto il pensiero contemporaneo, dall’arte, in tutte le sue declinazioni, alla filosofia, tratta di questo tema proprio come antidoto alla disumanizzazione. La perdita del singolo, di ogni singolo uomo, è il senso di un pensiero che vuole resistere all’omologazione e alla trasformazione dell’essere umano in merce…
Quando un singolo muore, è già il fallimento della diplomazia e del dialogo. Quando una sola persona muore perché lo decide un’altra, e queste magari manco si conoscono, è una vera tragedia. Un anziano – dico anziano perché gli uomini di potere sono tutti anziani – che vuole che una città sia bombardata, di fatto dichiara la morte di tutti, anche di un singolo bambino. Tutto questo lo troviamo osceno, disumano. Un anziano che dichiara la morte un bambino, è una cosa che non ha alcun senso. Però, purtroppo, sembra che in tanti ci abbiano fatto l’abitudine. Questo è per noi intollerabile.
Dal punto di vista musicale il vostro nuovo lavoro è davvero ricco. In un’epoca nella quale la rarefazione e la sottrazione sono all’ordine del giorno, voi siete andati contro corrente…
Penso che questo sia l’unico nostro album nel quale ogni dettaglio è stato scritto e prodotto meticolosamente. Tutto questo è stato voluto. Nei pezzi del disco si possono trovare molte orchestrazioni classiche abbinate al rock; si possono ascoltare dei fiati, degli ottoni, degli archi, molta elettronica sperimentale, oltre a chitarre heavy metal, accordate in tonalità particolari. Abbiamo pensato di realizzare questo disco in maniera sinfonica, il che vuol dire che tutti gli elementi suonano alla pari. Le chitarre distorte non sono più importanti dell’elettronica, sono uguali, hanno lo stesso valore. Gli arrangiamenti degli archi, per fare un altro esempio, sono importanti tanto quanto le chitarre. “Christmas Night 2066” è pensato come se fosse un’orchestra sinfonica, un’opera che si produce e si suona in un teatro. Ci sono momenti da quartetto d’archi, in una stanza, che si susseguono, per esempio, a passaggi che possono essere tipici di un’orchestra da 40 elementi.
Tuttavia ha un mood più metal. Mi ricorda i “Dream Theater” più che il Prog classico…
Si questa è la cosa più facile da captare. Quando le chitarre, soprattutto quando sono ribassate di tonalità, iniziano a fare dei riff, si pensa subito all’Heavy Metal. In realtà, se si ascolta bene l’album, e con attenzione, l’Heavy Metal è semplicemente un elemento che abbiamo usato insieme all’elettronica, al progressive classico, alla musica classica e acustica. Tutti gli elementi, torno a dire, sono di pari dignità. Non ce n’è uno che prevale sugli altri. Quando parte una chitarra distorta, e suona un riff bello pesante, è normale che ci si colleghi subito al metal. Tuttavia, lo ribadisco ancora, in questo disco la chitarra distorta non suona mai da sola. C’è sempre qualcosa che va a contrastare quei suoni, e cioè a bilanciare e a rendere tutto molto sinfonico.
Prendiamo in considerazione il secondo cd, quello cioè delle cover e delle collaborazioni che si trova solo nell’edizione deluxe in formato cd, e non nella versione in vinile. Come nasce questo secondo lavoro?
Quell’album è nato perché in questi cinque anni non solo abbiamo lavorato al disco di inediti, ma abbiamo avuto tante altre idee. Ci siamo così ritrovati a discutere se avesse senso produrre e rendere disponibile anche un disco di cover ri-arrangiate, rendendole cioè moongardiane. Era una delle idee. Avevamo però così tanto materiale inedito da prediligere comunque l’idea di proporre un album nuovo. Alla fine, abbiamo deciso di non lasciare nel cassetto tutto quello che avevamo prodotto in cinque anni. In questo modo è nato l’dizione deluxe, ma solo in cd ripeto, con tutto quello sul quale avevamo messo le mani nell’ultimo lustro.
So che vi piacciono i Genesis, tu sei un estimatore di tutto il loro percorso. Mi ha colpito, dunque, non tanto la cover dei Genesis di Gabriel, quanto “Invisible Touch”, brano pop dei Genesis di Collins. Perché questa scelta?
Facciamo una premessa. La questione è che molta gente pensa che i Genesis siano stati Peter Gabriel. Quando lui, alla fine, se n’è andato, allora la band non è stata più niente. Credo sia sbagliatissimo leggere la cosa in questi termini. I Genesis nascono fondamentalmente dall’uso dell’armonie e delle melodie incredibili del tastierista Tony Banks e, all’inizio, di Anthony Phillips alla chitarra, musicista che resta però nel gruppo solo per due album. Penso che si debba cercare di vedere la band inglese come un collettivo di compositori, e non solo come il prodotto di una persona che, una volta che se ne va, comporta che la questa non sia più quella di una volta, e cose di questo tipo…
Condivido quello che dici, proprio tu, con i tuoi consigli d’ascolto, mi hai permesso di rivalutare i Genesis post Gabriel, ed è stata una bellissima riscoperta…
Perché semplicemente la loro musica ha dei suoni diversi da quando, appunto, se ne è andato Gabriel. Se procediamo ad ascoltare album come “Duke”, “Wind & Wuthering”, “A Trick of the Tail”, “…And Then There Were Three…”… ragazzi, sono dei capolavori. E sfido, tutt’oggi, i gruppi che vogliano e siano in grado di ripetere l’esperienza di quei lavori lì, e cioè quelli usciti dopo l’addio di Peter Gabriel, e a realizzarli con la stessa qualità e inventiva. Si fa davvero fatica.
Tornando alla nostra scelta, personalmente – e penso che anche il resto della band sia d’accordo con me – credo che coverizzare i Genesis sia un’arma a doppio taglio. In sintesi, è molto pericoloso. Se vuoi fare la cover di un brano leggendario, devi avere delle idee tali per tentare di renderlo interessante, e non semplicemente fare bene la lezioncina, e cioè riproporre fedelmente il brano. Ho sentito cover che rifanno uguale “The Cinema Show”. Certo, la si può chiamare cover, ma secondo il nostro punto di vista la cover dovrebbe dare e aggiungere al brano originale qualcosa che fa parte di te come artista. Insomma, un tuo contributo a quella composizione. Ovviamente mantenendo tutte le distanze. Quindi, personalmente, mi risulta più facile prendere dei brani che vengono valutati come pop, o comunque inferiori ai grandi capolavori; o magari delle canzoni che sembrano meno sviluppati rispetto alle grandi composizioni progressive dei Genesi di tanti anni fa, per dargli appunto una vita e una veste diversa.
“Invisible Touch”, se si ascoltano bene le melodie e le armonie, non è assolutamente spiacevole, anzi, è un bellissimo brano pop. Oggi abbiamo perso la capacità di scrivere brani pop di quello spessore. In più, se prendiamo quell’armonia e le diamo una veste più progressiva, più arrangiata e un po’ più legata al Progressive Rock classico, allora magari salta fuori qualcosa di interessante. “Invisible touch” me la sono immaginata come se fosse stata composta nel 1978. Quindi con i pedali bassi, grandi assoli, e chitarre a dodici corde. Però non abbiamo cambiato niente dell’armonia, quindi vuol dire che i Genesis sono rimasti sempre quelli.
I Moongarden si stanno preparando per portare in tour il loro nuovo album. Sui social della band a breve ci saranno le date del tour.
Abbiamo realizzato una prima data live, con i Mangala Vallis. L’idea c’è piaciuta e stiamo pensando di portare in giro il nostro nuovo album con loro che, nel mentre, porteranno in tour i loro lavori conclude l’intervista Roversi.
Intervista di Luca Cremonesi