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Setak intervista

A fine di un concerto intimo e intimista, una conversazione aperta e vera

Fine tour per Setak, prima di recarsi a Sanremo a ritirare la targa Tenco per il migliore album in dialetto, Assamanù” (la nostra recensione). Ho la fortuna di vederlo sul palco di Officina Civica, accoglientissimo locale di Calenzano (FI), il 12 ottobre, dove, in formazione ridotta con il solo fratello Nazareno alle tastiere, ha coinvolto i fan per quasi due ore di performance live, pescando da tutta la sua produzione. Un ragazzo, anzi due ragazzi, perché Nazareno è stato assolutamente co-protagonista del concerto, semplici, salgono sul palco così, come si farebbe in un’ammucchiata con amici, e l’unica differenza tra noi nel pubblico e loro è che noi beviamo nei bicchieri di plastica, loro nei calici di vetro. Per il resto, non c’è separazione, non ci sono muri, è un concerto di tutti, dove molti fan cantano insieme a Setak tutte le canzoni, sanno ogni parola a memoria, nonostante la maggior parte della scaletta sia in dialetto abruzzese. A fine concerto, ci sono parole per tutti e con tutti, oltra alla firma dei cd/lp, e nonostante la stanchezza evidente, Setak ha piacere di chiacchierare anche con me mentre i ragazzi dell’associazione che gestisce il locale smontano e riordinano.

Sul palco mi aspettavo tu protagonista e Nazareno sullo sfondo, l’impressione è che eravate non solo molto uniti e molto affiatati, ma fianco a fianco di un progetto collettivo…
Mi piace molto questa cosa che hai detto, tant’è che una volta c’era un giornalista che scrisse sono andato a vedere i Setak, perché pensava pure lui che fossimo una band; mi fa piacere quando arriva questa cosa perché io ho sempre avuto una visione da band, a me non mi interessa il progetto del singolo, e ovviamente con mio fratello, con cui suono da quando sono nato, c’è per forza di cose un affiatamento, una sintonia particolare. Però ti assicuro che quando siamo di più, in trio, in quartetto, in quintetto, si avverte comunque la dimensione da band. Quindi sì, hai detto bene, preferisco definire il mio progetto musicale più di un collettivo che di un singolo cantautore. Mi piace proprio la dimensione band, mi piace che le cose crescano insieme, si costruiscano insieme e si sviluppino anche in termini di suono tutti insieme.

Quindi tu butti giù i brani voce e chitarra, e poi li perfezioni con la band?
Io lavoro tantissimo, anzi vivo in simbiosi, con il mio produttore e arrangiatore Fabrizio Cesare, che è una persona fondamentale per il mio percorso. Noi due impacchettiamo il tutto, però poi il lavoro di realizzazione lo facciamo suonando tanto con la band e deve essere una cosa molto sanguigna, voglio proprio un sound che cresca e nasca insieme. Mi piace quest’approccio, io sono legato all’attitudine di suonare tutti insieme che ora sicuramente non va di moda ed è anche anti-economica, però quando non mi andrà più di farlo penso che smetterò di scrivere.

Fa bene sentire che musicisti giovani hanno questo approccio, perché sai, sento dire certe cose su come compongono (o non compongono) …
Eh lo so, io però ormai non sono più tanto giovane, comunque sono cresciuto con i parametri della vecchia generazione, quindi sono già nato un po’ vecchio perché non sono mai stato allineato ai paradossi della mia contemporaneità, ed è strano, non ho mai agganciato al presente, anche perché nella mia generazione il presente non ce l’abbiamo quindi tanto vale che te l’inventi.

Dai, non essere così negativo Nicola

No, io non sono negativo, penso che sia proprio la realtà vera, ci sono dei testi di filosofi che lo spiegano molto meglio di me: noi non abbiamo un presente, non lo stiamo sviluppando. Se tu mi dovessi dire tra trent’anni, ah che cosa succedeva negli anni dieci, non succedeva un cazzo, oppure quali erano i suoni degli anni dieci non è che ci sta un suono riconoscibile, non c’è niente, sono eventualmente repliche di suoni già sentiti. Stiamo continuando di continuo a replicare delle cose già fatte mille volte, e io nel mio spero di no, ho cercato almeno di fare un disco senza avere reference di moda, anche se ognuno di noi ha delle reference.

Allora, quali sono state le tue reference iniziali?
Più che reference le definisco delle ispirazioni, cioè io mi ispiro a un tipo di attitudine che hanno degli artisti come Paul Simon, Peter Gabriel, e soprattutto Ry Cooder, il mio grande maestro di chitarra, in senso spirituale nel termine, perché non l’ho mai visto.

Questo per la musica, e per i testi?
Per i testi mi interessano più gli scrittori, per assurdo io conosco pochissima musica italiana però sono molto legato a degli scrittori tipo John Fante, Philip Roth, David Foster Wallace; mi piace pure tantissimo Bukowski e anche i classici, Dostoevskij, Tolstoj. Un’altra scrittrice contemporanea che mi piace tanto è la mia compaesana Donatella Di Pietrantonio, ho un’affinità emotiva con lei.

Però l’ispirazione della letteratura la mischi fortemente con la tua esperienza personale di vita, no?
Eh, assolutamente sì, è tutto un mischione tra la vita vissuta e la letteratura. Gli scrittori ti aiutano a descrivere con parole quello che tu magari non riesci a dire, quindi ti aiutano a frullare il cervello, ti fanno tirare a tua volta fuori delle altre parole, no? La letteratura la metti dentro e poi ti tira fuori quello che hai di tuo, te lo fa rielaborare e dargli voce. È come se, non so se ti è mai capitato che tu leggi una cosa e dici cazzo, ecco, lo volevo dire io, ma non ho mai saputo dirlo. Ti aiutano anche ad autorizzarti a dire delle cose o a pensare delle cose. E poi ti senti di levare la vergogna di dover dire delle cose, il pudore, dici cazzo ho la letteratura, grazie, mi incoraggia questa cosa. Oltre ai grandi della letteratura trovo ispirazione anche dai grandi della musica folk e della World Music, quelli che hanno saputo contaminare, fatto sintesi. Mi piace De André dalla fase di Mauro Pagani in poi; mi piace pure prima, però dalla fase Pagani è stato rivoluzionario musicalmente, secondo me. Poi naturalmente Pino Daniele, che era uno di quelli che ha fatto una sintesi incredibile. Ma ce ne sono molti altri…

Di contemporanei italiani chi apprezzi?
Oddio, è difficile perché purtroppo quelli che mi piacciono non sono proprio nuovi … Ho una grandissima stima per Carmen Consoli, ho rispetto per Vinicio Capossela e Simone Cristicchi, anche se musicalmente siamo un po’ diversi. Di Simone mi piace l’attitudine tantissimo, lo definisco un punk perché lui a un certo punto ha deciso faccio come cazzo mi pare, faccio teatro, faccio questo, riparto da zero, dopo il delirio della vittoria di Sanremo. Quando uno decide di fare per i cazzi suoi e dice dei no, io ne ho una stima infinita. Fa veramente quello che vuole lui, e quello vuol dire essere punk. Non è che ti vestiti con il cliché del rocker, cacci fuori la lingua e poi magari fai canzoni sigle di cartone animati, Punk è quando tu vai contro quello che la gente si aspetta, e sei anticommerciale per scelta.

Un artista che stimo tantissimo è Luca Romagnoli, già cantante del Management del dolore post-operatorio, che è uscito con disco veramente bello, io sono un suo fan, lui è rock per attitudine e non per estetica. Ho avuto l’onore di collaborare con lui nell’ultimo disco, e ne sono molto felice.

Ah sai che te lo devo dire? Anche se io non sono proprio un grandissimo fan, però devo ammettere che mi piace Cosmo, non mi interessa la musica che fa, però lui mi piace come attitudine. Il concerto più interessante che ho visto recentemente invece è quello di Mannarino, non sono un fan, però devo dire che è l’unico artista che ritengo veramente esportabile, è l’unico italiano che fa una musica internazionale, anche se pure lui c’ha delle reference molto chiare. A te invece chi ti piace?

Lucio Corsi. È vero ed esprime se stesso senza paura.
Lui è uno dei migliori infatti. Spesso mi accostano a lui nell’attitudine, l’ha fatto recentemente anche Andrea Scanzi.

Tu e tuo fratello siete quasi coetanei, ci passano solo due anni, da piccini suonavate già insieme? Quando avete iniziato?
Hai iniziato prima lui, papà suonava, così c’era un pianoforte in casa e aveva una band quando eravamo piccoli. Quindi noi siamo cresciuti con questo pianoforte in casa, e papà chiese a un grande musicista, Vincenzo Tartaglia, che era tornato a vivere a Penne, perché non dai delle lezioni ai miei figli? E noi cominciammo a suonare e a fare le serate pagate, io avevo solo sei anni, era il 1991. Alla mia prima data a sei anni presi 50mila lire! E quindi noi dai 6 ai 12 anni abbiamo suonato tantissimo, nei bar, nei ristoranti, cose così.

Tu hai iniziato subito con la chitarra e tuo fratello con il piano?
Mio fratello con il piano, io invece iniziai a suonare la chitarra perché la chitarra era il sogno di mio padre, avrebbe sempre voluto imparare a suonarla. Io ho voluto stupirlo e imparare per renderlo orgoglioso.

Però hai studiato chitarra, suoni troppo bene Nicola …
Ti ringrazio, ma non ho mai studiato in modo accademico. Però il termine studiare non vuol dire necessariamente fare il percorso accademico, anche se uno è autodidatta studia, ti stanchi tutto il giorno per raggiungere buoni risultati. Ho suonato tantissimo, mi sono spaccato le dita così come l’han fatto tutti quelli che suonano la chitarra; alla fine a forza di provare ti inventi delle tue regole, magari non sai dare il nome tecnico a quello che fai, però lo fai, capisci quello che ti serve.

Quando scrivi arriva prima la musica, arrivano prima le parole, o arrivano insieme?
È casuale, devo dire che di solito viene prima la musica, però le canzoni che poi mi vengono più facili vengono già con il testo, anche se magari da perfezionare. Io non sono di quelli che scrivono tutto in tre minuti, magari il ceppo più importante lo scrivo sì in tre minuti, poi per una parola ci posso perdere pure due mesi o anche due due anni.

E scrivere nel tuo dialetto far tornare le assonanze è più difficile?
È difficile capirlo per chi non conosce il dialetto quanto può essere difficile o quanto può essere facile … Allora innanzitutto ci tengo a specificare che tecnicamente scrivere in dialetto, soprattutto nel mio dialetto, è molto, ma molto più difficile perché hai tante parole in meno. Le finali sono tagliate con l’accetta e i termini sono più poveri. Detto questo, non è difficile per me perché mi viene naturale proprio, le canzoni mi vengono già in dialetto. È difficile parlare di difficoltà perché la difficoltà viene quando tu devi costruire una cosa, e non è che io prima di scrivere dico Oddio questa come la faccio in italiano o in dialetto? Penso direttamente in dialetto. Poi ci sono canzoni in cui mischio italiano e dialetto, tipo “Figli della storia” fatta con Simone Cristicchi. Simone è venuto dopo che I’avevo già finita con Fabrizio.  La mia compagna ascolta la canzone e mi dice bella però c’è qualcosa di strano … e così molti altri me lo dicevano, io non capivo, poi alla fine abbiamo realizzato che era strana perché c’era l’italiano! Quella mi era venuta in italiano, non è che ho detto ah questa deve essere in italiano e me la tengo in italiano.

Poi io capisco che adesso è una mezza moda cantare in dialetto, soprattutto in alcuni dialetti che conosciamo bene. Però la mia musica non ha niente a che fare con mode o peggio folklore, è qualcosa di spontaneo. Io non canto il mio paese, non racconto l’Abruzzo, io canto di cose che tutti possono condividere, capire. Pino Daniele è stato un maestro per tutti, il dialetto lo ha fatto diventare cultura, contaminazione, condivisione, World Music.

Secondo me la canzone si distingue da un testo, da una poesia, da un libro proprio perché c’è la musica, quindi deve arrivarti un’energia particolare dall’unione di testo e musica, anche se poi il testo non lo capisci, perché in un’altra lingua. Prendi “Because” dei Beatles, pezzo incredibile, se tu lo stacchi dalla musica diventa un testo veramente da idioti, ma con quella musica prende una potenza incredibile, non potresti pensarci nessun altro testo. Però se tu lo stacchi dalla musica dici ma che cazzo di testo è quello? Quelle parole acquisiscono un potere incredibile con la musica perché sono quelle giuste per quella musica.

Articolo e foto di Francesca Cecconi

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