Tornano i napoletani The Devils con la loro quarta fatica discografica “Let The World Burn Down”, uscito il 9 febbraio su Go Down Records (la nostra recensione). L’album, prodotto da Alain Johannes – produttore del loro terzo album e già famoso per aver collaborato con QOTSA e sua maestà Chris Cornell -, è composto da dieci diretti e violenti brani tanto devoti a un salvifico Rock’n’Roll quanto a un melmoso Blues perversamente garage. Il duo sarà impegnato in un lungo tour per tutto il 2024 e, in attesa di aspettarli in Sardegna a luglio, ho scambiato due parole con loro a proposito del loro nuovo disco, tirando fuori anche qualche curiosità dal passato recente.
Negli ultimi anni avete ascoltato molto Blues, quali sono stati gli artisti che maggiormente vi hanno influenzato nella stesura di “Let The World Burn Down”?
Gianni: Si questo disco e i suoi riff in particolare sono figliastri di tutti i nostri ascolti blues maniacali degli ultimi anni, a partire da Dio Bo Diddley. Abbiamo consumato tanto i suoi dischi degli anni ‘70, come “The Black Gladiator” e “Big Bad Bo”. Ma l’elenco è davvero lungo, da Mississippi Fred McDowell, Luther Allison, Doctor Ross a Koko Taylor. Lazy Lester, Cedell Davis…e anche bluesman praticamente sconosciuti che abbiamo scoperto grazie ai documentari di Alan Lomax, come il grande Boyd Rivers.
Erika: Anche tanto Soul ci ha ispirato, come Luther Ingram per citarne uno, o le tante fan-tastiche cantati nere soul anni ’50 e ’60, a partire da Cleo Randle di cui abbiamo fatto una cover appunto.
Nel 2021, in piena pandemia, avete pensato di non tornare più a suonare, cosa vi ha spinto a rinascere e a proseguire in questo percorso?
Erika: Molto semplice: il nostro inguaribile Io. Ci sentiamo come in missione per conto del Rock and Roll, quindi ogni tanto dobbiamo tornare per rimetterlo al posto che merita, rigenerando il suo vero spirito criminale e sovversivo, non rispettabile e quindi repressivo. Purtroppo tante band hanno bistrattato ed equivocato questa musica negli ultimi tempi.
Gianni: Ovviamente anche tutto quel periodo demagogico e miserabile che ci ha proibito di andare in tour ci ha spinti a tornare. Passare da un centinaio di date all’anno a soli dieci live in due anni, di sicuro ci ha caricato a pallettoni tra frustrazione e angoscia. Quindi ci tro-viamo qui anche per ribadire ora più che mai, che ne abbiamo abbastanza dell’umanità. Solo dei mostri come noi due possono aspirare a vedere le cose per quello che sono, perché i mostri sono usciti dall’umano che li opprime in preda ai capricci del nevrasse.
C’è tanta chitarra in questo disco. Quanto è importante per voi la cura del suono e quali “trucchi” utilizzate per sopperire la mancanza di altri strumenti?
Erika: Non siamo dei grandi smanettoni del suono, siamo molto istintivi e viscerali quindi preferiamo dare l’impronta che desideriamo al sound più che altro con la nostra energia e il pathos, che riversiamo senza limiti sui nostri due soli strumenti.
Gianni: Non mi ritengo propriamente un chitarrista men che meno un bassista, con The Devils ho trovato una mia dimensione che sta tra le due cose; montando corde spesse, usando ampli da basso e un paio di pedali con cui riesco a riempire un po’ tutte le frequenze necessarie a dare una giusta credibilità e cazzimma al suono, anche se siamo solo in due.
Nel disco ho percepito anche delle sfumature punk e rock’n’roll, da questo lato quali band vi hanno influenzato maggiormente?
Erika: Abbiamo voluto sperimentare con diverse sonorità che ci appartengono da sempre, passando dal Rock’n’Roll anni ‘70 a sonorità più moderne. Volevamo mettere insieme tutto ciò che ci portiamo dentro, un’operazione a cuore aperto … e ci abbiamo trovato per esempio anche i BRMC e Crazy Cavan. Possiamo dire che questo è probabilmente il nostro disco più intimo.
Come è stato collaborare con Mark Lanegan? Avete qualche aneddoto da raccontare?
Erika: Quando ascoltò per la prima volta le registrazioni del nostro disco in cui poi ha can-tato, ci disse che sembravamo i White Stripes… ma con i coglioni! Ci ha supportati da subito e sentirsi approvati da una leggenda indiscussa come lui per noi ha significato davvero molto.
Negli ultimi anni ho notato un’affermarsi di duo band, dagli Animaux Formidables ai Boschi Bruciano. Essere un duo è una necessità (anche economica) o più una scelta stilistica e anche di immagine?
Gianni: i Devils sono in due fondamentalmente perché siamo due misantropi. Consideria-mo “il miglior essere umano” quello che ci fa la grazia della sua assenza; quindi in due è già un eccesso di compagnia. Io invece noto che ci sono solo tanti duo che bruciano prima di accendersi. Si ormai sono innumerevoli i disperati che pur di sfuggire alle loro vite si inven-tano qualsiasi cosa in due o anche in one-man/woman band. Forse perché in due o da soli la loro necessità d’illudersi di sé è più facilitata. Provo tanta tenerezza per loro davvero, ma mi dispiacerebbe però se un giorno poi credessero davvero di essere quegli artisti che sanno bene non essere. Mi aspetto presto anche qualche mezzo one-band, a mezzo busto o magari senza la testa; un one-man band decollato, tanto nel migliore dei casi si tratta di crani vuoti.
Articolo di Giulio Ardau
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