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The Last Drop of Blood intervista

Un Far West a metà strada tra il gotico e il Blues

“L’Ultima goccia di sangue” potrebbe essere già il titolo di un film di Sergio Leone, o di un romanzo di Evangelisti, ma invece è il nome di un particolarissimo progetto musicale che da Verona fa soffiare un vento caldo, desertico e maledettamente intrigante. Già recensito sulle pagine di RockNation (articolo) “Season II” è il loro ultimo e secondo album in studio, uscito per l’etichetta Vrec e con la produzione affidata al maestro Shawn Lee, uscito il 28 aprile di questo 2023 che sta regalando delle vere e proprie perle per chi le sa scovare. Siamo in un immaginario saloon con Francesco Cappiotti: penna, mente, cuore e chitarra del progetto The Last Drop of Blood. Fa caldo e sul bancone ci sono due bicchieri di whisky. Un pianoforte scordato e pieno di polvere se ne sta in un angolo in attesa di qualche anima che lo suoni ma, dato che nessuno lo fa, rompiamo il silenzio noi, con la prima domanda di questa intervista.

Francesco, innanzi tutto grazie per il tuo tempo e la tua disponibilità. Prima di procedere con le presentazioni di rito, la prima domanda che sale nella gola di chi vi vede per la prima volta è: da dove vi è saltata fuori questa idea? Com’è nata questa ultima goccia di sangue?
Non è facile rispondere. I The Last Drop of Blood sono il risultato di esperienze personali, professionali e artistiche. In un momento difficilissimo della mia esistenza dopo aver abbandonato per più di un anno la musica ed essermi ritirato in una casa isolata sui Monti Lessini, questa idea mi è venuta a trovare. Quando ho avuto la forza di rimettermi in gioco l’ho realizzata assieme ai musicisti che stimo di più.

E se hai piacere ora ci presenti i protagonisti di questa avventura?
Attualmente i The Last Drop of Blood sono Carlo Cappiotti (voce), Chris Meggiolaro (basso), Claudia or Die (tastiere e sintetizzatori), Michele Martinelli (chitarra) e Mattia Scolfaro (batteria) e poi ci sono io alla chitarra.

Nella prima domanda ho usato il verbo “vedere” invece che “ascoltare” perché la prima cosa che arriva è il vostro impatto scenico. Molto spesso ci sono band che usano costumi, trucchi, maskface e altro risultando più ridicoli che altro. Invece voi siete credibilissimi. Costumi di scena in stile e attitudine da vendere. Com’è immergersi in questa dimensione che riuscite a creare?
Quello che ci differenzia da altre realtà che utilizzano costumi di scena è l’idea che sta alla base, ovvero quella di pensarsi come i personaggi di un film o se vuoi di una serie televisiva che non esiste, ambientata in un’America gotica e desertica.  Il look che abbiamo non è pensato in modo teatrale ma cinematografico/televisivo. Quindi non è fatto per colpire, ma per catturare la fantasia, per farti entrare in un mondo lontano da quello di tutti i giorni.

Veniamo ora alla parte dell “ascoltare” lasciando momentaneamente in disparte, appoggiata su uno sgabello del saloon la parte visual. Rispetto al vostro precedente e omonimo disco, il sound sembra ammorbidirsi ma nel contempo risultare più ficcante. Come una lama più sottile ma più tagliente. Cosa avete ricercato nella tessitura sonora di “Season II”?
In realtà anche in questo caso la parte “visiva” è stata importante. Il collegamento con il cinema o comunque con l’immagine in movimento mi ha guidato anche nella composizione. Se dovessi descriverti il processo, sarebbe all’incirca questo:  parto da un’esperienza personale, qualcosa che mi ha colpito o mi ha segnato, e la ripeto nella testa come se fosse la scena di un film. Quali sono il groove, gli accordi, la melodia che descrivono meglio tutto questo? Quali i timbri? Così i giri sono rallentati e la musica è diventata più descrittiva, ruvida, atmosferica e io credo magica.

L’opera d’arte è “opera” e “arte” ossia: lavoro svolto per una creazione. Forse, a parte mettere al mondo un figlio, creare attraverso l’opera l’arte è uno degli atti più sublimi che un essere umano possa compiere. Sublimi nel senso di elevanti verso qualche cosa che va anche oltre l’uomo in sé. Nella vostra musica si sente questa spinta, pura e potente che attraverso la musica CREA un mondo. La riconosci? Ne sei consapevole? Cosa ne pensi?
Ci sono tanti tipi di arte, ma quella che ho sempre rincorso è l’arte che ti trasporta altrove. Quella di Robert Louis Stevenson, Lewis Carrol, James Matthew Barrie. Uscire dal proprio mondo ed essere trasportato in un altro, anche solo per il tempo di un album o di un concerto ha un effetto catartico e terapeutico. L’arte vera crea questa occasione di vivere in un altro mondo. Di avere più di una vita. Non sta a noi dire se la nostra musica è in grado di fare questo. Ma l’intenzione e la sincerità ci sono tutte.

I due al bancone prendono i bicchieri e li vuotano, chiedendo e ottenendo dall’oste un immediato rabbocco. Con un cenno di intesa continuano la conversazione, passando attraverso questa domanda: com’è stato e com’è lavorare con Shawn Lee? Fa la differenza?
A causa della pandemia Shawn questa volta non ha potuto assistere alle registrazioni. Ma ci ha seguito con consigli e ci ha sostenuto. La parte importante del suo intervento è stata nel mix e nella post produzione. In generale credo che quando si sceglie un produttore si debba guardare ad una persona che ammiri e di cui ti fidi in modo assoluto. E tra Shawn e noi è proprio così. Così anche per questo disco la scelta è stata quella di non assistere al mix. Quando i file mi sono stati rispediti le modifiche che ho chiesto sono state irrisorie, era già tutto perfetto

Di cosa parla “Season II”?
“Season II” ha una base autobiografica. Negli scorsi anni sono passato attraverso esperienze molto dure e decisamente oscure. Esperienze che per me sono impossibili da condividere se non attraverso la trasfigurazione artistica.  Ecco allora che la metafora di un mondo spietato e desertico, fatto di ferro, sangue, polvere diventa perfettamente adeguata e arriva sincera.

[In un tavolo del saloon, un po’ in disparte ma certamente presente c’è un volto molto noto: Andrea Chimenti. Faccio arrivare un buon bicchiere anche a lui e chiedo a Francesco qualche curiosità sulla sua partecipazione così preziosa all’interno del disco].
Subito dopo la prima pandemia sono stato contattato da David Bonato della Vrec con una proposta incredibile. Mi chiedeva di partecipare come chitarrista al tour del nuovo disco di Andrea Chimenti che sarebbe partito da lì ad una settimana. Proposta che ho ovviamente accettato. Andrea è sempre stato per me uno dei punti di riferimento della musica alternativa italiana. Una sensibilità fuori dal comune. Questa collaborazione mi ha dato l’occasione di chiedergli di collaborare ad un brano dei The Last Drop of Blood. Il risultato è nel brano “Blood Everywhere”  primo singolo estratto da “Season II”. Ed è una delle cose migliori che io abbia mai realizzato.

Rispetto alla scena musicale italiana come si pongono The Last Drop of Blood?
La risposta è che “non si pongono proprio”. La scena musicale italiana è sempre molto modereccia e sinceramente anche poco artistica. Con le dovute eccezioni ovviamente. É molto più interessante invece il rapporto con il pubblico. Grande o piccolo che sia. Ogni volta che una persona ascoltando una nostra canzone o guardando un nostro video o una nostra performance si cala per quel breve tempo nel nostro mondo, quello è il nostro successo.

Vuotato anche il secondo giro di whisky i due si alzano in piedi e si dirigono verso l’uscita, con gli stivali che fanno scricchiolare il polveroso pavimento di assi. La seconda stagione è appena iniziata e vediamo che frutti porterà. Buon viaggio a tutti, è tempo di ripartire verso altri sentieri. Ma sicuramente conoscere realtà come questa fa si che si possa resistere anche alle intemperie (musicali) dei nostri giorni…fino all’ultima goccia di sangue.

Articolo di Bruno Giraldo

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