“La città era piena di rumore” (qui la nostra recensione), il terzo lavoro dei Wet Floor, band brianzola, uscirà il 10 aprile 2020. Ne abbiamo approfittato per fare una lunga chiacchierata con Andrea Staglianò, voce e chitarra.
Presentiamo i Wet Floor: chi siete, quali sono le vostre radici musicali, come vi definite…
Wet Floor è una band nata nel 2005, come gruppo di amici che dopo la scuola si trovava per suonare; io e Luca, il bassista, siamo stati insieme sin dall’inizio, e suoniamo ancora nello stesso garage come sala prove. All’epoca eravamo ragazzini che provavano a fare qualche cover e anche qualcosa di proprio, e pian piano la cosa si è evoluta. Abbiamo registrato le prime cose, poi abbiamo fatto il primo album nel 2011, e qui ci siamo accorti di chi tra noi aveva voglia di fare e di chi aveva preso la cosa come un passatempo, e la formazione è parzialmente mutata.
Il primo disco si chiama “L’effetto del Curaro”; dopo qualche anno abbiamo fatto “Profezia in dodici pezzi”, registrato con Simone Sproccati. Ci siamo messi a suonare tanto dal vivo in giro, all’inizio facevamo concerti tra la Brianza e Milano, poi siamo usciti dalla Lombardia, siamo stati al MEI a Faenza (grazie alla vittoria del contest Overground), a Roma, a Torino. L‘augurio che ci facciamo è di suonare ovunque e tanto in tutto lo Stivale.
Non mi piace autodefinire il gruppo, perché è difficile, le nostre influenze sono tante e diverse. Abbiamo iniziato ascoltando Punk da ragazzini, e lo ascoltiamo tutt’ora, e più avanti ci siamo accorti di dovevamo trovare un nostro modo di fare le cose, che poi è l’insegnamento stesso che dà il Punk. Con quest’attitudine ci siamo mossi in molte altre direzioni… Ci sono piaciuti molto Arctic Monkeys, The Strokes, i Nirvana ci hanno segnato nel profondo come è successo a tutti quelli della nostra generazione anni Ottanta. Ci definiamo comunque garage rock perché ci piace l’idea di un suono che sia grezzo, anche se sappiamo benissimo di non averlo. Ma come si diceva non ce ne frega molto delle etichette!
Avete sempre cantato in italiano, è stata una scelta precisa sin dall’inizio? Peraltro i vostri testi non sono affatto banali, sicuramente esprimono dei pensieri molto precisi, forse più efficaci nella lingua madre?
Sì, avevamo all’inizio provato a scrivere qualcosa in inglese ma ci siamo immediatamente accorti che per due motivi non era il caso: uno, non abbiamo una conoscenza così ampia della lingua; due, perché per quello che volevamo esprimere, per le cose che vorremmo dire, l’italiano è il mezzo più semplice per farle arrivare a chi ci ascolta.
Come scrivete e producete i brani? E pensi che l’ultimo disco sia diverso dai precedenti, oltre a mostrare una sicura maturazione del gruppo?
Di solito le canzoni le scrivo io, ma non è una regola fissa. Porto in sala prove un testo e una musica, un inizio. La cosa bella è che questi abbozzi di canzoni vengono completamente stravolti dal resto della band! Non è sempre facile per chi scrive le canzoni e pensa che siano buone vedersele trasformate in qualcos’altro, ma per fortuna abbiamo un buon rapporto tra noi, e sono consapevole che gli altri tre sono molto in gamba, dunque avere un parere esterno al mio aiuta. Vengono poi provate più volte, e così nascono le versioni definitive.
Il nuovo disco è sicuramente un disco più maturo. Abbiamo messo a frutto l’esperienza fatta con le incisioni precedenti e nei tanti concerti. I due nuovi componenti del gruppo poi hanno portato tanto del loro lavoro musicale pregresso; Stefano ha suonato in una band hard core poi in un progetto più rock; Fabio viene dalla didattica, ha studiato tanto lo strumento, ed è anche tecnologicamente evoluto, grazie a lui siamo arrivati in studio avendo già fatto delle pre-produzioni, con le idee chiare e precise, abbiamo consegnato materiale già lavorato al nostro produttore e fonico Carlo Altobelli, che ci ha seguito per tutto il percorso di registrazione.
È già uscito “Rock Therapy”, primo estratto dall’album; ho letto che non lo definite un singolo, ma la canzone più diversa del disco. Questo perché è difficile scegliere il primo singolo come promo?
È sicuramente difficile scegliere un singolo! In verità avevamo scelto come prima uscita un altro pezzo, “Icaro”, che è il pezzo più rappresentativo a livello di suono, mentre “Rock Therapy” ha una sonorità un po’ diversa. Poi “Icaro” non è uscito perché a causa della pandemia che è esplosa non abbiamo potuto fare il video, programmato a marzo, e ci siamo detti – perché fare uscire questa canzone senza un video? – Allora abbiamo scelto di fare uscire per prima “Rock Therapy” perché è una canzone con un messaggio che possa essere avere un senso in questi giorni particolari: la musica in questo momento è terapeutica, almeno per noi.
Facciamo un classico track by track?
“Intro” è l’introduzione al disco, e lo facciamo sempre; abbiamo fatto tre dischi e sempre voluto mettere un intro, che poi mettiamo anche all’inizio dei concerti, per introdurre, sia in studio che dal vivo, le persone all’ascolto di quello che facciamo. In questo caso credo che sia l’intro più riuscito perché abbiamo evitato le parole che verranno dette poi nel corso del disco, per cercare di creare una base musicale con i rumori della città, che nel corso del disco vengono spiegati come rumori interni a noi.
“Icaro” è la canzone alla quale teniamo particolarmente, secondo noi la canzone di punta, perché crediamo che sia d’impatto. Personalmente mi piace molto, perché di solito scrivo sempre dei testi abbastanza tristi anche se con un messaggio positivo, la voglia di farcela quando c’è qualcosa che non va. “Icaro” invece è al contrario una canzone felice, uno di quei momenti che volevo segnare in un testo, per esempio la mia esaltazione per la scoperta che la felicità è una cosa ciclica, proprio come la tristezza.
“Solstizio”: ero in vacanza, lontano dalla chitarra, e ho avuto un’idea che ho portato in sala prove; la canzone è nata nella sua forma definitiva nel giro di un paio d’ore. È una canzone che richiama quel momento in cui ti trovi a compiere scelte importanti per la tua vita, in un momento in cui sai le domande ma non dove trovare le risposte. Abbiamo contrapposto questo sentire al giorno più lungo, un giorno in cui si potevano fare tante cose belle, e invece mi sono trovato solo a pensare.
“Congiunzione astrale” è partita da una storia che mi hanno raccontato, non m’importa che passi il significato della storia, piuttosto la sensazione e l’emozione provata; quando tutto affonda, c’è sempre una canzone che ti salva.
“L’ultima sigaretta” è la voglia di provocare, per dire che tutte le rivoluzioni che ognuno di noi pensa di fare – ognuno scrive la sua opinione ovunque ormai – possono iniziare soltanto dentro di noi, cambiando le nostre vite e facendo cose insieme agli altri.
“Tokyo” è un pezzo su quanto sia difficile qualsiasi tipo di relazione fra due persone che si vogliono bene, a qualsiasi livello, l’ho paragonato al gioco d’azzardo come spesso accade nel Rock, mi vengono in mente i Motorhead! È un pezzo divertente che ci piace molto suonare, è un pezzo un po’ punk rock’n’roll, tipo The Peewees, The Sonics.
“La città era piena di rumore” l’abbiamo scelta come title track perché racchiude il senso intero dell’album. Racconta il rumore non reali là fuori, ma che si trovano nella nostra testa, per esempio quando si devono prendere decisioni, oppure seguire mille regole, filtrare tante informazioni, sostenere i troppi stimoli che mandano in confusione. La canzone parla proprio di questa sensazione, della nostra voglia di lottare e andare controcorrente, per non lasciarci frastornare.
“Rock therapy”: con questa canzone volevamo sperimentare un po’, rendere un po’ eterogeneo il disco. La musica ti salva la vita, ci è sempre successo, e volevamo raccontarlo con una canzone. Ascoltarsi una bella canzone o un buon disco è anche un modo per armonizzare il rumore di cui si diceva.
“Lettere di Natale”: ogni tanto mi parte il trip delle canzoni rock di Natale, una cosa molto trash! Mi sono detto che volevo scriverne una anch’io, senza cadere nel ridicolo però. La canzone ripensa un po’ al lato sentimentale da cui il Rock cerca un po’ di sfuggire, le feste in cui per forza bisogna fare certe cose e pure essere buoni, per intendersi. La nostra opinione è che non bisogna essere a tutti i costi puri e duri, e magari crearsi i propri riti tra amici sotto le feste.
“Dono di natura” è la canzone in cui mi ritrovo di più, in cui cerco di esorcizzare il lasciar perdere, arrivi a trent’anni e ti dicono – ormai sei grande, lascia perdere la musica e pensa alle cose serie – senza capire cos’è la musica.
Se tu Andrea dovessi salvare tre album dalla distruzione del mondo, quale salveresti?
È difficile rispondere! “American IV. The Man Comes Around” di Johnny Cash, l’ultimo disco che ha fatto senza considerare i ripescaggi che sono stati fatti dopo, è un disco pieno di cover e pezzi suoi rifatti… per me è un disco incredibile, inclusa la copertina in bianco e nero. Adoro Johnny Cash. Poi “Sex, Love And Rock’N’Roll” dei Social Distortion, che ci mette d’accordo tutti nel gruppo, ci piace tantissimo, forse è il gruppo punk al quale ci avviciniamo di più. Il terzo disco è “Nevermind” dei Nirvana, è un disco incredibile, non saprei cos’altro dire; i puristi ti citerebbero forse “In Utero”, ma io non sono un purista. E poi penso al lato emotivo, quando ho sentito “Nevermind” è stata un’esplosione di musica dentro di me.
E come cantante chi ti ha ispirato?
Da ragazzino Dani delle Porno Riviste, un gruppo punk italiano anni Novanta con il quale ho anche suonato insieme in acustico. Poi nel tempo sono arrivati Kurt Cobain, Dave Grohl che è incredibile, Chris Cornell, irraggiungibile, una delle voci più belle del Rock secondo me.
Articolo di Francesca Cecconi