Prosegue il nostro viaggio nella conoscenza approfondita delle etichette discografiche italiane indipendenti. Oggi è la volta della Wild Honey Records e del suo proprietario Franz Barcella. Con Franz abbiamo una cosa in comune, quell’immenso senso di amore e rispetto per la musica che ci ha trovati ragazzi spaesati e ci ha dato un posto in cui potere essere noi stessi. La Wild Honey la leggerei così: come una grande storia di amore e passione per la musica, nata dall’idea di promuovere il bello, di donarlo e lasciarlo in eredità a tutti coloro vorranno accoglierlo. Di questo e di molto altro abbiamo discusso in questa che più che un’intervista è il racconto di una generazione che è riuscita a fare una vera e piccola rivoluzione attraverso il Do it Yourself.
Nelle interviste parto sempre dalla storia, quindi raccontaci un po’ come nasce Wild Honey Records?
Nasce attraverso il percorso di essere un appassionato di musica, credo molto nell’idea che la musica debba essere indipendente. Da ragazzino quando ho scoperto il Punk e la musica indipendente, la prima cosa che ho fatto e stata mettermi a studiare copiosamente tutti i dischi, ascoltare le canzoni, studiarle, imparare l’inglese, imparare nuovi testi, ricercare informazioni, poi si passa a una fase successiva in cui vuoi essere proattivo. Quando avevo sedici anni ho creato una fanzine, ovvero un giornalino autoprodotto, e allo stesso tempo ho iniziato a suonare in gruppi. Quando non potevo suonare organizzavo concerti, oppure accompagnavo in tour le band. Quindi in mezzo a questo percorso, tra il 2006 e 2007 avevo iniziato a girare come tour manager, per un duo di Venezia che faceva Rock Blues e abbiamo girato il mondo, ho girato gli Stati Uniti, l’Europa. Ho scoperto con loro quello il bacino di amici e la scena garage rock’n’roll. Siccome non eravamo soddisfatti di come si comportavano allora le etichette abbiamo deciso di fare da soli. Un po’ come ritorno al Do it Yourself del Punk, ovvero facciamolo da soli. Mi ricordo ancora precisamente, eravamo di ritorno da un tour in Svizzera, c’era il lago sulla destra e le montagne sulla sinistra, e li ho pensato: faccio un’etichetta e vi faccio uscire il prossimo disco. E così è stato. Nel mentre studiavo, e quando mi sono laureato con il regalo dei miei genitori, che erano mille euro, anziché andare in vacanza, ho fatto l’etichetta. Il mio primo disco per la Wild Honey, è stato un 7 pollici, prodotto in mille copie, pagato con i mille euro del mio regalo di laurea, da lì le cose hanno preso piega, era dicembre 2007 quando poi è uscito il disco, e ora sono passati 16 anni.
Se ami la musica prima o poi arriva quel momento in cui dici: devo fare qualcosa, devo essere un po’ più proattivo, mi devo mettere a scrivere, devo inventarmi qualcosa. È successo questo?
Credo che da un lato sia prerogativa della musica indipendente, ovvero la creatività che porta poi anche alla proattività, non basta fruire della musica ma serve anche attivarsi. Dall’altra parte credo che ci sia anche una specie di senso di protezione e di amore. Dico sempre che conoscere queste cose, conoscere il Punk, ha dato un senso alla mia vita, che poi detto così sembra stupido però, queste cose mi hanno dato una modalità per dirigere un po’ quello che era la mia carica. Quando sei al liceo, e magari sei brutto, sei sfigato, vai male a scuola, sembra che nulla vada nel verso giusto, ti senti solo, e ti senti perso. Quelle canzoni, quel modo di fare, quelle band, urlavano e la prima cosa che sentivi era guarda che anche noi sentiamo la stessa cosa e quindi penso che fare un’etichetta alla fine sia prendere il testimone e urlarlo anche te. Io non prendo soldi dall’etichetta, ne ho sempre fatto una questione di passione, il che non vuol dire che non lo faccia professionalmente. Però per me la soddisfazione è innanzitutto il fatto di promuovere altri artisti, altri giovani band o band che mi piacciono e allo stesso tempo la speranza è che qualcuno guardando questa cosa si possa sentire ispirato a sua volta.
Il nome della tua etichetta mi ha incuriosito, perché proprio Wild Honey?
Ha un triplice significato: innanzitutto suonava bene, quindi mi piaceva, e poi sono un grandissimo amante del miele. Il secondo è che è un bellissimo disco dei Beach Boys, di cui sono molto fan, ma soprattutto il senso dell’etichetta è già nel nome. L’idea dell’etichetta in sé non era avere una forma, la mia tematica con l’etichetta voleva essere quella di avere canzoni. Da fan dei Beach Boys, dei Ramones, volevo gruppi che avessero canzoni, perché soprattutto la musica indipendente, ogni tanto fa riferimento al suono e capisco che la gente apprezzi questo, ma a me interessavano le canzoni, sia dal punto di vista melodico che del messaggio. Quella era la connotazione di Honey, la dolcezza di una melodia, la dolcezza dell’armonia, dall’altra parte però non mi piacciono le cose troppo melense, voglio che abbiano un po’ di sporcizia, mi piace che siano un po’ non raffinate, e da lì il termine Wild, quindi pensavo che rappresentasse bene quello che volevo fare.
Voi avete una selezione di vinili, ho visto nel sito, molto importante, però sappiamo benissimo che adesso gira molto il discorso relativo alla musica liquida, quindi le piattaforme, voi che tipo di rapporto avete con le piattaforme?
Devo fare una premessa, noi siamo un’etichetta ma non siamo un business di per sé o meglio facciamo business nel momento in cui dobbiamo far quadrare i conti ma la prerogativa non è esclusivamente ad appannaggio del business quindi semplicemente da amante del vinile inizialmente volevo produrre vinili. Quindi tutte le uscite di Wild Honey, a parte un paio di compilation, sono su vinile, perché nel Punk, nel Garage, girava il vinile che era un format che mi piaceva. All’epoca del 2007 non era neanche ritornato di moda, quindi era una scelta un po’ in controtendenza. L’evoluzione digitale è stata di supporto nel momento in cui vogliamo aiutare le band a uscire e quindi a suonare dal vivo. Quindi il digitale, la musica liquida, non solo è un ottimo strumento di promozione, ma è anche un formato a se stante. In generale la mia idea è che l’importante è essere appassionati, non è comprare il vinile o non è comprare il cd l’importante è essere appassionati delle persone. È’ sempre una questione di passione, è importante che la gente si illumini quando ascoltino questi dischi. Il vinile è il formato che prediligo ma ovviamente con il digitale fai un’ottima promozione.
Come promuovete queste uscite? attraverso i social, attraverso altri canali?
La comunicazione secondo me, adesso, è molto frastagliata, ovvero non basta una cosa. Il nostro sito innanzitutto si basa sulla piattaforma di Bandcamp, che è un’alternativa rispetto a Spotify, ti dà la possibilità di costruire il tuo sito, vendere merchandise, ma soprattutto anche mettere online delle canzoni gratuitamente. Tutti i dischi della Wild Honey sono ascoltabili sul nostro sito gratuitamente. Poi la promozione si basa su varie cose, ho una mailing list di circa tremila clienti Wild Honey a cui comunicare in tempo reale le uscite, poi ci sono gli iscritti al Bandcamp che posso raggiungere direttamente con un bottone. Ovviamente ci sono i social, sebbene tra algoritmi e targhettizzazioni sappiamo che non si raggiungono tutti i follower. Cerco di utilizzarlo ma in verità gran parte del lavoro è cercare di raggiungere le persone appassionate e comunicare con loro direttamente. Oltre a questo ogni tanto assumo un ufficio stampa o in Inghilterra o in America a seconda dei singoli dischi, quindi collaboro con altri uffici stampa o agenzie o pubblicisti, in più ho la mia lista di stazioni radio, webzine, recensori, li raggiungo direttamente. Quindi è molto umana come situazione, non stiamo parlando di una società o di un’impresa che parla al mondo, stiamo parlando di un ragazzo che cerca di parlare ad altri appassionati. La cosa sorprendente è che dopo sedici anni, nonostante io non abbia un genere di riferimento, ci sono tante persone che ordinano tutti i dischi che faccio uscire. Ed è per me un grande riconoscimento. In generale la comunicazione, anche per il lavoro che faccio, la imposto molto sul parlare a una persona e non sul promuovere un prodotto.
Nel momento in cui esce un disco, vi occupate anche del booking oppure demandate il booking a qualcuno di esterno?
Dipende, a volte aiutiamo col booking, a volte sono i gruppi stessi ad avere booking esterni altre volte li ingaggiamo noi. È come se l’etichetta, perdonami la metafora, ti desse la possibilità di avere tante storie d’amore, senza tradire nessuno. Per esempio, per la produzione ho il mio miglior amico che è un grande esperto di mastering, quindi in generale cerco di avere sempre lui, perché c’è un rapporto di fiducia, so che le cose usciranno bene anche qualitativamente. Per me è anche un piacere dare a lui il lavoro. Allo stesso tempo magari qualche band ha il suo mastering engineer di fiducia, allora mi relaziono con lui e scopro una persona che altrettanto mi piace, quindi hai più armi al tuo arco. E così si intrecciano relazioni, conoscenze e tanto altro in realtà.
Per quanto riguarda il processo di selezione delle band, come procedi?
In verità la selezione avviene semplicemente dal fatto che sono appassionato, quindi se vedo una band in giro organizzando concerti, girando in tour, oppure conosco persone e c’è qualcosa che mi piace semplicemente propongo di fare uscire un nuovo lavoro con noi. Capita semplicemente stando in giro, è molto raro, e qua deluderò molti, che qualcuno mi mandi un demo e io faccio uscire la pubblicazione, perché per me non funziona così. Il lato della bravura e della qualità e del talento per me passa in secondo piano rispetto a quello che poi è la mia esperienza personale di quanto uno abbia voglia di lavorare. Cerco di spiegarmi meglio. Secondo me una band non ha bisogno di un’etichetta quando inizia, che è totalmente il contrario di quello che le band pensano. Secondo me una band che deve avere un’etichetta come la mia, quindi un’etichetta veramente piccola, indipendente, prima deve imparare a farsi le ossa. Non mi piacerebbe collaborare con qualcuno che è molto bravo a scrivere canzoni ma resta nella propria stanza a scrivere, registrare e poi si aspetta che qualcun altro faccia il lavoro per lui. Per me è importante la voglia di fare perché tante persone pensano che l’etichetta possa sostituirsi a tutto il lavoro che la band deve fare. Questo per me è il primo segnale che non devi collaborare con quella band in quanto sono causa loro stessi del loro male. La stessa idea di quello che facciamo è il patto che dobbiamo lavorare sodo e se dobbiamo andare a prendere una cosa l’andiamo a prendere, non esiste che qualcuno la va a prendere per te. So che è brutale come ragionamento però per me è importantissimo altrimenti, soprattutto qua in Italia, si pensa che il tuo successo o le tue sfortune siano sempre dovute ai fattori esterni e questa cosa mi dà tremendamente fastidio, sono sincero.
C’’è una differenza di mentalità tra artisti o band italiane e estere?
Noi italiani siamo molto critici verso noi stessi, però ricevo costantemente demo di band che si spacciano per nostri grandi fan ma non li ho mai visti a un concerto né sono nella mailing list, eppure il nostro mondo non è così grande. Io credo che se hai un gruppo indipendente, sei appassionato e hai un tuo progetto devi seguire la tua passione. È la passione che porta a conoscere i locali, chi organizza i concerti, altri gruppi come te, se sei solo appassionato di te stesso allora è ovvio che non conoscerai dove andare a vedere i concerti, gli organizzatori, le altre etichette. A me nessuno ha presentato altre etichette discografiche o i distributori, li conosco tutti a memoria perché sono un collezionista di dischi, perché sono appassionato e ho studiato tutto, e secondo me dovrebbe essere così anche con i gruppi, se tu hai un gruppo e non vai a vedere gli altri gruppi della tua città, non ti informi, non studi come puoi pretendere di riuscire?
In conclusione, chiedo sempre se dovessi definire la Wild Honey con una parola, con un aggettivo, come la definiresti?
Oddio, questa è difficile, la definirei underdog ovvero quella puntata su cui nessuno scommette ma che alla fine risulta vincente, un po’ come l’Atalanta. Ecco underdog è l’Atalanta delle etichette.
Articolo di Silvia Ravenda