Dopo cinque anni tornano i Baustelle, sia sul mercato discografico, con “Elvis”, sia in tour. Li abbiamo visti a Firenze il 2 maggio, e a Milano l’8, entrambe date tutte esaurite. Che dire se non che, in primis, e ovviamente, che è un piacere sapere che una band così importante per la musica d’autore popolare italiana, sia tornata in attività; allo stesso tempo, poi, è bello esser coscienti che, questa estate, i tre Baustelle gireranno per varie città e festival. Diversa, invece, la situazione se si analizza con attenzione il nuovo lavoro e, poi, la resa live di questo album.
Certo, nessuno si aspettava che, dopo una carriera di 23 anni, ci fosse ancora grande volontà di innovazione. Ma neppure si era preparati alla resa. Quella no, magari fra qualche anno. Ecco perché, una volta che si decide di tornare con un nuovo lavoro, dopo un biennio come quello vissuto da tutti e da tutte, e dopo cinque anni di silenzio, si spera che quanto meno ci si muova come hanno fatto i Verdena (la nostra recensione). E cioè con un lavoro, e un tour, ben curati, in tutti i dettagli. Invece….
Insomma, c’era la speranza che non si mettesse in moto una macchina, ben conservata a oggi, tanto per fare e per necessità. L’aspettativa era che si rimettesse in moto il tutto perché qualcosa da dire c’era, o lo si voleva far sapere. O meglio, che ci fosse la volontà di usare la propria arte – la musica – per dare un contributo per capire, e comprendere, la nostra epoca. Cosa che, a oggi, i Baustelle avevano sempre fatto, e neppure tanto per fare. Tanto meno in modo del tutto involontario. Sappiamo tutti che è così. D’altronde si tratta di uno dei gruppi che, da sempre, hanno fatto della dimensione espressiva, mixata con lo sguardo critico sulla nostra società, l’ossatura della loro musica. Invece…
Invece, per farla molto breve, scopriamo che per la ribellione serve andare ai rave; che la sinistra non c’è; e che non siamo capaci di una vera rivoluzione – come già ci era stato detto in varie salse – perché siamo stanchi, viviamo in grandi attici, prendiamo farmaci e destrutturiamo Elvis. Chi ci ha visto molto suono americano, in questo live/album, non so davvero cosa abbia sentito. Mah, mistero…. Altro che Elvis è vivo e lotta con noi, come più volte, nel finale, dirà Bianconi. Qui siamo tutti stanchi, anche solo di pensare ad una possibile rivoluzione. Meglio star comodi dentro il proprio mondo sonoro, senza turbare niente e nessuno.
La cosa positiva è che il pubblico, quanto meno sulle canzoni storiche, balla e si diverte, contravvenendo allo show che il trio ha preparato, costruito cioè sul cardo e il decumano dell’ultimo lavoro (sei su dieci brani). Il problema non è affatto la band, che funziona bene con i tre Baustelle in primo piano, e quattro musicisti dietro alle spalle, dove ci sono anche potenti fari, stile confini della Prima Guerra Mondiale, che impediscono, in ogni modo qualsiasi tipo di foto e di ripresa con i cellulari. Bravi, geniale davvero. Peccato solo che, una volta fuori, la palla nera negli occhi ci abbia messo circa 40 minuti ad andarsene. Amen…
Il problema, dunque, è uno solo, e cioè che “Elvis” è un album musicalmente piatto, sotto tono. Non spicca. Non decolla. Emerge, per ritmo, solo il singolo “Contro il mondo”, che fa un poco ballare e scuote gli animi; come d’altronde “Amanda Lear”, verso il finale dello show, classico pezzo alla Baustelle (e meno male). Il resto, detto senza offesa, suona un po’ troppo mono tono. Già tutto sentito, più volte. Stantio. Peccato davvero, per vari motivi.
In primis perché i lavori da solisti di Bastreghi e Bianconi, sono davvero degli ottimi album. Soprattutto quello di Rachele. Poi, perché la ricchezza sonora ha sempre caratterizzato la produzione dei Baustelle. Anche i due tour nati dal dittico “L’amore e la violenza” erano davvero ricchi, con un’apparecchiatura elettronica che Bianconi, e la stessa Bastreghi, smanettavano di continuo. Una serie di live davvero belli, intensi. Per non parlare del tour di “Fantasma”, altro giro di concerti davvero interessante per tutto, dalla presenza alla musica proposta.
Insomma, c’era molta attenzione e cura che, ora, non si è vista e, soprattutto, non si è sentita. Questa volta c’è un lavoro, allo spalle, davvero poco ispirato, ma non è un delitto, può capitare dopo un filotto di album che sono veramente uno meglio dell’altro. Lo stesso tour poi, al momento (chiaro, proseguirà in estate e, forse, qualcosa cambierà nella scaletta e nel mood), appare molto ordinario, e poco straordinario.
L’ambientazione del concerto è quella di un vecchio cinema, alla Pupi Avati per intenderci, con tanto di scritta luminosa “Baustelle” in corsivo, al neon, che campeggia in alto, a destra. Tenda rossa da teatrino di provincia, band davanti, e quei fari da contraerea. “Andiamo ai rave” apre l’album e, allo stesso tempo, lo show, e già si capisce che nessuno fra il pubblico ha voglia di andare a un rave per fare qualsiasi cosa, dal protestare all’annoiarsi. Un’altra cosa evidente dei fan dei Baustelle (ed è una nota positiva), è l’assoluta fiducia nella band. Un credito conquistato con anni, lo ripeto, di ottimi album e buoni tour. Poi c’è un aspetto unico, che caratterizza il pubblico del trio: il fatto che ci siano cosplay fra gli ascoltatori della band. C’è chi è vestito come Bianconi; chi ha il cappello della Bastreghi e chi, in coppia (o trio), si addobba come loro tre sul palco. Fenomeno strano, davvero, dato che solitamente questo è un fatto tipico non tanto dei rave, quanto degli afro-raduni.
Il concerto si svolge e si esaurisce in poco più di un’ora e quaranta minuti, per un totale di 20 canzoni. Dopo il mono-tono dei primi cinque brani, “La nostra vita” arriva a salvare il pubblico. Bianconi, sempre di pochissime parole, ci ricorda che tutte le canzoni parlano solo di una fottutissima cosa: la nostra vita. Se non risuonasse nell’orecchio, subito, il singolo dell’Eros nazionale, si potrebbe anche dar ragione al cantante dei Baustelle. Non solo perché, di fatto, sia davvero così, ma perché la cosa è talmente banale da essere innegabile. Viene da chiedersi, dunque, perché tutta questa vita, sostanzialmente fallita, sia espressa in un album, “Elvis”, dove di vitalità musicale se ne respira davvero poca. Forse, è un’altra idea, sarà come ricorda ancora una volta Bianconi, nei pochissimi momenti di dialogo con il pubblico, e cioè che tutti ci chiedono i significati delle nuove canzoni, ma voi sono sicuro che li sapete.
Sinceramente? No, non ho la più pallida idea di cosa volessero dire con queste dieci nuove canzoni. Pertanto, speravo ce lo spiegassero. Le avevo chiare, le idee, con gli altri album, e a quanto pare anche il pubblico attorno a me che, infatti, non ci mette neppure un secondo a riconoscere un brano, bellissimo, che da tempo era stato messo in naftalina, e cioè “La moda del lento”, come d’altronde la meno vecchia “Veronica n. 2”. “Amanda Lear”, pezzo che si vuole a tutti i costi esoterico e misterioso, e così lasciamo che lo si pensi (per chi scrive, resta una canzone alla Baustelle, riuscita, ma di certo non come quelle dedicate ad altri grandi personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo) gode del traino di uno dei brani che più caratterizzano “L’amore e la violenza – Vol. 2”.
E siamo così, dopo quasi un’ora abbondante, in quella che è la vera parte bella, molto bella, del concerto. Se non fosse per un piccolo sgarro, direi che qui, finalmente, sul palco c’erano i Baustelle. Quindi sappiatelo, almeno per questa prima parte del tour, c’è da aspettare una buona ora perché tutto torni apparentemente normale, e i Baustelle si mettano a fare e a essere quello che sono: un’ottima e raffinata band pop/post-rock (molto più pop ovviamente) che ama sperimentare, anche e soprattutto con il linguaggio.
Il piccolo sgarro è presto detto, si tratta di “Baudelaire”, brano iconico di “Amen”. Qui, e cioè in questo tour, la band decide che deve suonare come le sigle dei telefilm (non serie Tv, mi raccomando), degli anni ’80. L’intro ricorda troppo “Le strade di San Francisco”, grande serie poliziesca con Karl Malden e Michael Douglas. Il perché di questa scelta? Lo dico alla Baustelle… francamente, me ne infischio, ma di certo c’è che, dopo quello che (non) si è sentito, il colpo di grazia poteva essere risparmiato al pubblico.
Per fortuna, poi sarà solo buona musica, e così non potrebbe perché bastano già Dylan e De Gregori a massacrare i loro successi, e non servono nuovi adepti di questa strana religione. “Il liberismo ha i giorni contati” è da manuale, bellissima e, di fatto, come sarà anche con il pezzo finale, la hit dei Baustelle, e cioè “Charlie fa surf”, si sentirà solo un grido unico della gente che, finalmente, si è animata, e così salta, balla e canta, letteralmente a squarciagola. Chissà se qui, su questi pezzi, Bianconi, ha davvero sentito Elvis vivo. Credo e spero di sì … E credo si sia fatto la giusta domanda, perché è uno degli autori più intelligenti, con la Bastreghi, della sua generazione.
C’è anche da dire che all’inizio di “Charlie fa surf” la band regala un momento “estemporaneo” interessante. I sette si mettono a suonare del sano Blues/Rock, tappetino utile per presentare tutti componenti della formazione (tre sono i Baustelle, quattro i musicisti che li seguono). A quel punto la domanda vera, a potergliela fare, che rivolgerei a Bianconi, dato che il filo rosso di questa presentazione del gruppo usa la frase Elvis è vivo e lotta con noi e con…, sarebbe questa: se davvero Elvis è vivo e lotta con noi, perché non avete lavorato su quel suono che avete proposto, invece, solo come tappetino? Senza troppo innovare, bastava rendere un poco meno post quel rock; colorarlo un poco di classico Blues, con tocchi d’Elettronica e ammennicoli vari, e il gioco era fatto. Anche solo per vedere l’effetto che fa… di certo non sarebbe stato peggiore di questo “Elvis” che, sicuramente, ha davvero poca potenza, e pochissima voglia di essere vivo e lottare con noi. A differenza, per esempio, del grande capolavoro “I Mistici dell’Occidente”, che però arriva nel bis solo con “Le Rane”. Qui l’Alcatraz esplode, per davvero. Quanto è bella questa canzone. Pertanto, per non essere da meno, e per chiudere alla Baustelle, diciamo che ci potrebbe stare questo passaggio…
Ma voglio immortalarti e ricordarti così
Coi sandali e il coraggio di Yane
E porterò morendo quella gioia corsara con me
Prima di chiudere, serve ricordare che si pesca anche negli albori del mito, con “Noi bambine non abbiamo scelta” da quel “Sussidiario illustrato della giovinezza” del 2000, e che aveva rivelato un mondo sonoro davvero con grandi potenzialità. Oltre a quel brano, penultimo della scaletta, lo show si chiude con altre due canzoni del primo lavoro, e cioè “Gomma” e “La canzone del riformatorio”. Il cerchio si chiude, forse? Si finisce da dove si è partiti? Forse per ripartire? Non credo sia una buona idea.
Io non voglio crescere
Andate a farvi fottere
Articolo di Luca Cremonesi, foto di Francesca Cecconi
Set list Baustelle maggio 2023
1. Intro
2. Andiamo ai rave
3. Betabloccanti cimiteriali blues
4. La guerra è finita
5. Los Angeles
6. La nostra vita
7. Milano è la metafora dell’amore
8. Contro il mondo
9. Monumentale
10. Un romantico a Milano
11. La moda del lento
12. Veronica n.2
13. Amanda Lear
14. Baudelaire
15. Il liberismo ha i giorni contati
16. Noi bambine non abbiamo scelta
17. Charlie fa surf
18. Le rane
19. Gomma
20. La canzone del riformatorio