Avevo salutato il Legend Club di Milano a luglio, in un pazzo clima festaiolo, prima di iniziare a pascolare in lungo e in largo per i festival estivi; il 1 novembre torno all’ovile e alla mia transenna in un clima altrettanto festaiolo, dove tutti si conoscono e tutti parlano con tutti, per una data di casa Hellfire che vi farà saltare dal primo all’ultimo secondo. Oggi vi porto a celebrare la vita, l’allegria e la gioia di stare al mondo, in una serata dove l’imperativo sarà Jump! Jump! Jump! urlato a squarciagola, e non prendete la scusa di essere stanchi, che avete lavorato o studiato tutto il giorno, che non avete più vent’anni o cose del genere, non c’è spazio per nient’altro che non sia la voglia di stare insieme, divertirsi, cantare ed esultare. All grown ups were once children, direbbe il Piccolo Principe, quindi forza, tirate fuori il ragazzino che è in voi! Aspettavano questa data da tanto e non stanno più nella pelle. Non c’è proprio nessuno, ancora, al mio arrivo al locale, ma poco per volta si forma una fila ordinata di giovani e giovanissimi che chiacchierano, si scambiano pensieri e desideri, racconti e aneddoti di altri concerti; qualcuno arriva da molto lontano, anche dall’estero, tutti uniti da un’unica passione. La musica, soprattutto quella dell’headliner di turno, anche se la serata ci riserverà delle piacevoli sorprese.
La familiare transenna attende al mio ingresso, e subito mi balza all’occhio la strumentazione sul palco, la batteria titolare coperta da un drappo, dei potenti set di luci, e in particolar modo due abat jour appoggiate rispettivamente sulla tastiera e al fianco della batteria più piccola: sembra di entrare nel salotto a casa di amici, e la sala piena, ma non ancora pienissima, rafforza questa sensazione di festa tra amici. Siamo tutti talmente accalcati il più possibile davanti che mi muovo a malapena, una sensazione tipica che mi fa sentire, una volta per tutte, a casa.
Ci sono due nuovi schermi agli estremi del palco, che trasmettono video nell’attesa; puntuale sulla tabella di marcia, annunciato da una fumata bianca, appare sugli schermi il nome della prima band di questa sera, per molti una novità, per tutti un inizio col botto: sono i Jady, duo alternative pop da Columbus, Ohio, al loro debutto a Milano con il loro live unico nel suo genere, che unisce una musica trascinante e orecchiabile a una sorta di recitazione dei brani, con l’utilizzo di accessori quali le abat jour nominate prima, il calarsi in un personaggio tra Sherlock Holmes e Harry Potter, e un’interazione col pubblico totale e irresistibile.
Diciamo che se volevano attirare l’attenzione, questi due giovani artisti ci riescono senza nessuno sforzo, anzi: il carismatico e bel frontman nonché scrittore e produttore Jarrett Doherty, consapevole del suo effetto sul pubblico femminile, mette alla prova la sanità cardiaca della prima fila accucciandosi a un palmo di naso da loro, posando davanti a cellulari per video e foto, sfoderando sorrisi che potrebbero convincere il diavolo a fare il bagno nell’acqua santa e che, manco a dirlo, tengono in pugno il pubblico come pochi altri.
Conosciuto per essere il produttore e bassista di Jay Joseph, fratello minore di Tyler Joseph dei Twenty One Pilots, si aggira senza timidezza alcuna per il palco come se non avesse fatto altro nella vita, si assicura di avere occhi (e lenti ) puntati addosso, cosa che del resto riesce facile anche al muro, saltando e sgroppando come un puledro. Il loro album di debutto, “The Haze”, esce il 19 agosto 2022, seguito da “Napalm”, uscito il 20 ottobre 2023, dal quale viene tratto buona parte della scaletta. Proprio la title track apre le danze, guidata da un giro di bassi che suona tanto minaccioso quanto ballabile. Frasi come Your convinction went to lay up on its death bed, oppure I hope I’m not a wast of time watching darkness take this place / if you are the fire then cover me in napalm trasmettono tutta l’urgenza che si vive mentre si cerca il proprio posto al sole nella vita.
Il concerto inizia a dare il meglio quando prende un pò la strada dell’oscurità, sarà che Halloween è appena passato, ma “Napalm” insieme a “Wallow” e “Ghostman” formano una miscela elettrizzante che fa battere forte il cuore. Si spengono le luci, la sala è immersa nell’oscurità, le abat jour si accendono e spengono da sole, come nei film horror; Jarrett emerge dalle tenebre illuminandosi il viso con una torcia dal sotto in su, per enfatizzare ombre malvage sul suo volto, in puro stile american movie. Più che paura, suscita gridolini estasiati delle fan; qualcuno prova a fargli ripetere delle frasi in italiano, frasi da tifoseria calcistica, ma non essendo abituato al nostro idioma e non capendolo si astiene dal farlo, lanciandosi in un appassionato Ti amo, Milano! Thank you for being here tonight!
Gettonatissimi all’appuntamento in area merch, dove non finiranno più di posare per selfie, i nostri Jady hanno aperto la serata facendo innamorare tutti del loro Alternative Pop e soprattutto del loro rapportarsi con i fan, con simpatia, semplicità e una maturità che solitamente si riscontra in gruppi più adulti e con più esperienza alle spalle.
Il cambio set per la band successiva è relativamente rapido, e il loro ingresso, sempre annunciato da nome sugli schermi e fumata bianca, cattura istantaneamente la mia attenzione sulle note della sigla del film “L’Enigmista”: Voglio fare un gioco con te, Milano! Giocano in casa gli Stain The Canvas, orgoglio metalcore / post – hardcore dal 2017 che si distingue nel panorama del genere già dal primo rilascio autoprodotto e che vanta un folto numero di amici e fan ad attenderli in sala.
Nati originariamente nelle Marche, il gruppo si sposta in Lombardia dopo il reclutamento del nuovo vocalist Bryan Marte; il 2023 li vede nel tour europeo di 27 date con gli Attila, partecipano allo Sziget Festival lo stesso anno, festival dove raramente si vedono altri italiani.
Questo giovane ed energico gruppo porta tutto all’ennesima potenza: emotivamente intensi e aggressivi, sound feroce, perennemente immersi in un fumo denso che manda in crisi nervi e focus, sanno creare un paesaggio sonoro elettrizzante con testi che parlano di come gli accadimenti del periodo covid abbiano portato l’umanità alla visione pessimistica del futuro, e approfondiscono temi sociali o sentimentali. Did you ever suffer for love? Chiede Bryan a un fan davanti a lui, che risponde sometimes.
Well, you’re lucky, ribatte il vocalist dalla incredibile estensione e potenza vocale, mentre attacca con “LXVE”, singolo che apre una porta direttamente nelle profondità del cuore, chiaramente ferito, per ricordare tutte le parti migliori e peggiori dell’essere innamorati; una amore contagioso, quello che ci presentano gli Stain The Canvas, una droga che ti porta a uno stato di euforica beatitudine per poi scaraventarti a terra al suo appassire. Quanto cazzo è bello essere a casa, davanti a uno stuolo di amici e fan venuti a festeggiare quella che, a mio parere, è l’ennesima band che all’estero verrebbe portata in trionfo sugli allori.
Bryan chiama il circle pit, fa abbassare e saltare in aria tutti, vietato rimanere fermi a fissare le farfalle: muovete quei culoni! Io, che fatico anche solo a muovere le braccia dalla gran ressa, mi limito a osservare la sala del Legend prendere vita e saltare al comando.Mi aspettavo un crowdsurfing di quelli selvaggi, perché l’atmosfera era ottimale, ma nessuno si lancia sul palco; ho ragione di credere che gli Stain The Canvas sarebbero interessanti da vedere e ascoltare in un concerto da headliner, e che sarebbero capacissimi di tirarti via la pelle di dosso per l’intensità e l’aggressività scaturita dai loro strumenti: una versione italiana dei più recenti Bring Me The Horizon, e dei primi Bad Omens.
We’re all a mess, recita il singolo di chiusura “Dead Circus”: ci si imbatte in vibrazioni e panorami inquietanti, e man mano che la canzone avanza il pubblico ha tutto quello che desidera ascoltare in quel momento: straordinarie voci pulite, urla demoniache che sembrano arrivare direttamente dagli inferi, un breakdown che ti fa venir voglia di ascoltarla ancora e ancora, davvero: gli Stain The Canvas collezionano applausi e ovazioni stasera, e la foto di rito con i fan alle spalle è d’obbligo. Prima però bisogna richiedere un po’ più di luce, il fumo è davvero infinito, e come constata anche Bryan al microfono, qua non si vede un cazzo.
Siamo davvero arrivati, adesso, al momento clou della serata, finora ci siamo tutti divertiti come dei pazzi, abbiamo urlato, abbiamo saltato: ma è per Call Me Karizma che il popolo del Legend è davvero qui. Ho avuto il piacere di conoscere Morgan Parriott, conosciuto professionalmente come Call Me Karizma, giovanissimo cantautore del Minnesota lo scorso anno al suo debutto italiano, sempre al Legend (il nostro report).
Classe 1995, inizia a scrivere brani all’età di 12 anni, ha fatto girare la testa a mezzo mondo e mezza Europa con la sua unica, tipica sovrapposizione di Rap, Hip Hop, Punk e Rock al profumo emo, già ai vertici delle classifiche Top 200 Billboard ancor prima di avere un manager o una label. La sua carriera musicale ha inizio nel 2015, quando il nostro Morgan va in tournée con i rapper americani Blackbear e Mod Sun, e pubblica il suo debut album “Uninvited” l’anno successivo.
L’avevo salutato che era ancora biondino, dall’espressione dolce, ma dalla tenacia di ferro, alla presentazione del suo album “Francis”, uscito il 16 settembre 2022 per Thriller Records e che vanta un grande successo tra i devotissimi fan. Il locale è saturo di adrenalina ed eccitazione che si potrebbero raccogliere in bottiglie, tanto sono dense, pulsanti, una detonazione immensa di aspettativa ed esaltazione. Si sgombera il palco da tutto quanto non serve lasciandolo essenziale: Call Me Karizma è un artista che si esprime muovendosi costantemente, ininterrottamente, e soprattutto velocemente su e giù per tutto lo spazio a disposizione, e tenerlo inquadrato richiede occhio rapido e cervicale snodata.
Non sto a spiegarvi la reazione dei fan quando le luci si spengono, mentre fanno il loro ingresso per primi Noah Bouhadana alla batteria e Phil Alvarez alla chitarra, sorridenti e fascinosi, seguiti a ruota da Call Me Karizma, vestito in un completo nero decorato con diverse spille da balia, buttando litri di benzina sul fuoco che gira nelle vene del pubblico in quell’istante. Adesso viene giù anche il soffitto, mi vien da pensare.
Dopo poco più di anno, l’artista ne ha fatta di strada: è maturato ulteriormente, e il suo carattere distintivo traspare nella sua musica, elevandone il messaggio e l’impatto. Ed è anche diventato papà della sua prima bimba. Anche se la struttura ha un andamento “rilassato”, “standard” in qualche modo, riesce efficacemente a iniettare la sua energia e la sua vitalità nelle canzoni, gesto cruciale in ogni forma d’arte.
Nonostante l’esperienza e il successo acquisiti nel tempo, Parriott rimane sorridente e umile, alla mano e amichevole con tutti, aperto al dialogo e sempre pronto a un abbraccio alla fine del concerto.
La scaletta comprende più di 20 tracce prese dalla sua discografia, iniziando col singolo nuovo di zecca “Acid Wash”, e fa subito centro nel cuore dei fan che adorano questo talentuoso artista a livello dell’anima, proprio. Non c’è limite alla vulnerabilità che condivide riguardo alle sue insicurezze e alle esperienze con cui ha avuto a che fare finora. Un vero artista per il popolo, che non delude mai.
Saltando e ballando la temperatura inizia a salire, e Morgan si toglie la giacca rimanendo in pantaloni e camicia, che sbottona un po’ alla volta scatenando un delirio di gridolini femminili già al primo apparire di qualche centimetro di pelle. E proprio qua ti volevamo, sorrido sotto i baffi quando finalmente decide di rimanere a petto nudo, con i suoi tatuaggi in bella vista, ancheggiando suadente per la gioia delle fan, che a questo punto saltano e urlano come se non ci fosse un domani.
Scende anche in mezzo al pubblico, per far sì che anche i più distanti possano vederlo e avvertirne l’energia. I presenti conoscono a memoria tutti i testi, proprio tutti, e cantano in perfetto unisono con il loro beniamino che non nasconde la felicità di un’accoglienza tanto calorosa e affettuosa: dedica qualche dito medio al vento for those who aren’t here, e poi riprende la sua cavalcata senza quasi fermarsi a prendere fiato, tra brani più recenti e altri tra i più amati come “Fire Escape”, che porta in scena una certa malinconia dal ritmo formidabile però, guidato da chitarre distorte e irrequiete. Ciò che distingue questa melodia è sicuramente l’atmosfera che si crea, che oscilla senza soluzione di continuità tra malinconia e positività.
“Johnny”, che si canta e si balla con leggerezza, ha un messaggio molto forte in realtà, scritta per diffondere la consapevolezza sul bullismo e sulle sfide della salute mentale, che sempre più spesso si scopre anche tra i giovanissimi, affrontando allo stesso tempo la questione del controllo delle armi: Now he’s on the bus again / like it’s just another morning / but he doesn’t have a book / he’s got a gun without a warning.
Acclamatissima e immortale “Monster (Under My Bed) “, tratta dall’album “Francis”. Monster, monster under my bed / come out and play ‘cause I need a friend. Un mostro da vedere come un amico, quello che rimane quando tutti se ne vanno; è facile rivolgersi al lato immorale della vita quando non ti restano nient’altro che i tuoi mostri. Questa lotta, così eloquentemente trasformata in metafora da Call Me Karizma, è inevitabilmente affrontata da tutti noi, prima o poi.
L’interazione con i fan è, nemmeno a dirlo, fantastica: si carica con le vibrazioni trasmessegli da tutti, sorride da un orecchio all’altro, si arrampica sulla transenna per guardare e farsi vedere fino in fondo alla sala, sfiora le dita della prima fila come su una ghirlanda di fiori vivi. Mi stringe la mano per qualche secondo e mi stupisco come sia fresca e leggera dopo tanto caracollare sul palco. Nessuno di noi si accorge quando prende una bottiglietta d’acqua e ci battezza con un getto lanciato a gran velocità durante il suo eterno saltare e ballare, personalmente non ho nemmeno visto il suo gesto. All’improvviso mi sono solo ritrovata coperta d’acqua, macchine fotografiche comprese: avrei voluto vedere la mia espressione in quel momento, mentre mi chiedevo cosa diavolo fosse successo.
Una setlist lunga e appassionata che si beve tutta d’un fiato , ma che ahimè come tutte le cose giunge al termine sulle note di “Black Leather”. In piedi sulla transenna, Call Me Karizma invita tutti ad avvicinarsi il più possibile: I really want you to feel this energy, don’t miss it! Il Legend Club e il suo popolo confermano il posto d’onore nel cuore di Morgan Parriott: I fuckin’ love you Milano! Promette che tornerà, eccome se tornerà, proprio qui dove l’abbiamo incontrato al suo debutto, dove ha conosciuto per la prima volta il calore e l’abbraccio dei suoi fan italiani, che lo acclamano Chiamami Karizma! Chiamami Karizma! e con vari We love you! Sempre ricambiati da un sicuro I love you too! Questi sono i momenti in cui vorresti mettere la vita in rewind e rivivere in loop la serata, ancora e ancora e ancora.
Non c’è tanto da aspettare, prima che la band si renda disponibile a foto e chiacchiere con i fan anche giù dal palco, Call Me Karizma dispensa abbracci e irradia calore e affetto, e questa è la foto che scatta il mio cuore mentre mi dirigo all’uscita, assolutamente felice e leggera anche se non ho smesso di saltare per tutta sera, per lo meno quello che l’attrezzatura mi consentiva di fare. Noi non possiamo mettere la vita in rewind, possiamo solo aspettarti: vedi quindi di tornare presto, con il tuo brio, la tua freschezza, la tua vulnerabilità e il tuo coraggio di esprimerla in musica. Ti aspettiamo in transenna, Call Me Karizma!
Articolo e foto di Simona Isonni