La band di Los Angeles, che si è guadagnata la possibilità di girare e America e Nord Europa con band come Kiss, Rival Sons, Black Crowes, Slash, Alter Bridge e The Who grazie al successo di critica e pubblico, sta portando in giro l’album “Dirty Honey” più qualche inedito, confermando lo stile, la qualità e la tecnica esecutiva del quartetto, in un puro “L.A. Sleaze” che ha portato la Sunset Strip a Milano ai Magazzini Generali il 14 febbraio. Dopo averli recensiti, intervistati, certo non potevamo perderci il loro atteso concerto finalmente da headliners.
In coda a fianco del lussuoso tour-bus nero illuminato da led blu, aspettando che aprissero gli ingressi mi sono apprestato a una strana sera di San Valentino, che ha causato la presenza di un pubblico diviso fra coppie innamorate (fra loro, e del Rock) e single impenitenti o addirittura, mi è parso, un nonno con un nipote ancora bambino. A me personalmente una moglie sposata 32 anni fa e non interessata al Rock ha dato il beneplacito a passarla separati, e non ho capito se sia segno di amore finito o un grande atto di amore e di rispetto per le mie passioni, ma torniamo al concerto. La venue, discoteca stretta e lunga con due balconate, era sufficiente a contenere il pubblico proveniente da diverse parti d’Italia (ho sentito accenti diversi) e ha anche richiesto la modifica di location dopo che al Legend Club, dove inizialmente era previsto il concerto, lo spazio non era sufficiente per le richieste.
Grandi applausi per la band di apertura, i Wild Things, della bionda e talentuosa Sydney Rae White, front-girl nota per essere stata star della sitcom “Uncle”, che ha intrattenuto, insieme al serio bassista Cameron White, il verdicapelluto e vivace chitarrista Rob Kendrick e il trascinante Pete Wheeler alla batteria, il pubblico “dei Dirty Honey” che quasi quasi alla fine si è chiesto se non era venuto a sentire invece questo Pop-Rock solare e pieno, con sfumature anni ‘80 e questa irresistibile e maledetta lead singer che a un certo punto ci ha apostrofato con un consapevole Are you crazy for Dirty Honey, huh? (applauso, urli) Well … Fuck you. Ma eravamo pazzi anche per te, Sydney, e anzi grazie dello spettacolo che si è rivelato tutt’altro che di “supporto” e… mi dispiace dirlo ma anche con un light show migliore del successivo. Parere confermato dalla nostra fotografa che di luci ne capisce più di me, ed era a sgomitare in mezzo agli altri fotografi in prima fila.
Il concerto inizia con “Gypsy” nella quale il cantante solista Marc Labelle ha sfoderato da subito gestualità e attitudine da vero “sleazy” losangelino della migliore tradizione, a petto nudo sotto una giacca con texture animale e con cappello e occhiali scuri. A dire la verità, non ci è stato dato di vedere gli occhi di nessuno, a parte quelli del (nuovo) batterista Jaydon Bean perché tutti i componenti della band indossavano “shade” scuri. La qualità esecutiva è altissima, nessuna licenza presa rispetto al disco e anzi dal vivo la botta sonora e le frequenze canore sono ancora più d’impatto. Tirata d’orecchie al tecnico del suono perché la chitarra solista era troppo affogata nel suono generale, e visto il movimento di dita di John Notto, fondatore e chitarra della band, ci sarebbe stato molto di più da sentire.
Segue “Break You”, dal primo ep del 2019, “stomper” dal riff ossessivo con rullante su tutti i quarti. Qua il primo a cedere a togliere gli occhiali è il bassista Justin Smolian, dalla riccia chioma scura, strumentista tutt’altro che defilato nel sound del gruppo, con le sue frasi veloci che denotano passioni musicali che non si fermano al basso rock da ripetizione della tonica. Justin è molto intento e poco istrionico ma ho notato un suo tratto personale quando l’ho visto sorridere al pubblico, e ho capito che stava sorridendo a una ripresa video fatta con il cellulare. Eravamo ancora comunque a un rapporto occhiali/occhi sul totale band del 50%.
La chitarra per il primo assolo è ancora piano, mannaggialfonico, ma nel lungo assolo in coda si pone rimedio e viene resa giustizia allo shred di John, evidentemente cresciuto a Slash e simili, mentre l’integrità anatomica di Marc viene messa a dura prova sia per quanto riguarda le tonsille, sia per quanto riguarda le articolazioni, dalle pose da manuale assunte con il microfono che rispettano alla perfezione la coreografia di genere.
Questa canzone è per le ragazze, Devo sentire le ragazze annuncia Marc in un italiano che dimostra un commovente impegno e che a suo onore devo rilevare essere stato parlato in percentuale superiore all’inglese durante i suoi annunci. È “Heartbreaker”, brano discograficamente riedito in una versione 2.0 in una versione più vivace frutto di una “restituzione” al pubblico di una canzone che ha preso vita (nelle parole del gruppo) nelle numerose esecuzioni tanto da richiedere una nuova incisione. Sotto le luci blu in effetti il pubblico, nella gran parte a conoscenza dei brani, canta il brano anche nel microfono che Marc sporge verso la platea. Cede John Notto togliendo gli occhiali, e lascia Marc l’unico in scena a portarli.
Per “The Wire” Marc si sposta sul palco togliendo la giacca e rivelando la camicia aperta di pizzo. Non una grande mobilità come si diceva anche per via di un palco non enorme. Luci viola e rosse lanciano “Scars”, anche se spesso la band è lasciata in controluce, e durante la intro psichedelica di chitarra con delay, Marc sussurra qualcosa all’orecchio del bassista Justin: non so se gli raccomanda di sostenere con gran lavoro ritmico il groove del brano, ma è una cosa che comunque avviene. La forza di questa band sono i riff, quasi sempre irresistibili e spesso trascinanti su ritmi shuffle, sui quali Marc raggiunge note proibitive senza mancarne una, e John fraseggia in un classico solismo Metal senza strafare con scale ridondanti ma sempre con un solido senso melodico dell’assolo.
Un po’ di movimento stavolta da parte di John che normalmente predilige la posa fissa alla Slash con il manico in alto delle sue Gibson Les Paul (ne ha usate due). Nella coda del brano continua il lavoro di chitarra e spiccano acuti che io con la mia limitata estensione da simil-tenore non riesco a riprodurre neanche in falsetto, ma i veri protagonisti sono il bassista con un gran lavoro sulle corde acute e il batterista Jaydon Bean con rullate a cascata. La band non ha reso noto perché Corey Coverstone, il primo batterista, ha lasciato il gruppo all’inizio dell’anno, ma Bean non sembra farlo rimpiangere.
Finalmente John vinto dalla temperatura che inizia a farsi calda toglie la casacca rossa e mentre Marc commenta Milano, siamo pazzi tonight! introduce “Tied Up” con un lavoro di slide sull’asta del microfono. Anche questo brano ha come coristi il pubblico, lasciato anche cantare nel silenzio con microfono sempre generosamente proteso oltre il palco. Un turbine di luci e suoni matti ottenuti agendo anche sull’accordatura della chitarra introducono la prima cover “Last Child” degli Aerosmith, dagli assoli con pedale wha-wha, e “A song about doing the fuck you want” che è “No Warning”, concludendo una delle parti più energetiche del set.
Cambio mood per “Down The Road”, Blues ballad che necessita una gran tecnica, vocale con le sue note acute tenute, e chitarristiche per il suo assolo stavolta più struggente, e una parte di Nah nah da cantare con il pubblico per cui Marc ci chiede Louder! un paio di volte ottenendo un bel feedback dalla comunque limitata audience che si spera rivedrà, come ci annuncia, in sintonia con il titolo, augurando I’ll see you all down the road.
Ha comprensibilmente bisogno di bere, pare acqua, il solista, prima di chiederci Volete qualcosa nuova? in italiano, e introdurre un inedito dal titolo “Take Me Alive” con un riff stoppa-cuore come quelli a cui ci hanno abituati, e un ritornello accattivante. Lo stomper successivo è la interessante versione di “Let’s Go Crazy” di Prince nel quale rallentando di parecchio il metronomo la band ha trovato una perfetta attitudine metal in un brano apparentemente dance (ma creato dal compianto e non troppo segretamente di animo Rock Roger Nelson, già nominato con uno dei suoi tanti nomi o non-nomi). Dopo l’assolo a scena vuota il brano conclude con un turnaround blues e ci meritiamo un Bravi! e un Ti amo Milano.
La canzone seguente è su un posto che loro chiamano “casa”, Los Angeles, California, che è anche la “city of broken dreams”, raccontata con il riff che trasuda sound Sleaze Metal anni ‘80 di “California Dreamin’”. “So Easy”, cantiamo insieme a lui sotto gli occhi del bassista Justin stranamente più mobile con il piede sulla cassa monitor durante questo pezzo, accreditato come composizione alla band, ma che sembra senta più suo, magari perché proviene da una sua idea? Sicuramente le scale e i fill di basso non mancano nel brano, molto curato nell’esecuzione come del resto tutti gli altri. Marc mette alla prova ancora una volta il suo corpo, stavolta tocca al labirinto, l’organo dell’equilibrio, girando vorticosamente durante l’assolo.
Vuole un’altra nuova? Mi spiace evidenziare piccoli errori dato il commovente impegno, ma lo faccio per cronaca e con tenerezza, pensando a quelle band che arrivano in Italia e sanno dire solo Grazzi. Questa canzone si chiama “Dirty Mind”, un riff su un tempo lento che raddoppia durante l’assolo, sostenuto dal bassista e ricco di una parte di stop con stacchi e un lavoro del batterista impeccabile e poderoso. La canzone seguente è su una “bad romance”, ed è la lirica ballad “Another Last Time”, altro brano chiave e molto amato del gruppo, dall’intro hendrixiana.
Quanto questi musicisti sono rodati si capisce dalla facilità con cui John e Justin conversano uno all’orecchio dell’altro ridendo mentre eseguono le intricate parti della strofa. Il coro lo cantiamo anche qui noi, e segue un assolo a scena vuota con chiamata e risposta per il pubblico, dopo il quale John accenna il riff dell’altra “Heartbreaker”, quella di quell’altro quartetto inglese un po’ più anziano, e poi con un gesto come a dire cosa credete, non siamo una cover band, siamo i Dirty Honey lancia il loro singolo-hit, “When I’m Gone” durante il quale ci sentiamo come se fossimo ancora in quegli anni in cui era normale avere i Guns, i Mötley o Poison di “Unskinny Bop” in classifica. Ancora nell’acuto finale la voce non denuncia stanchezza o cali di qualità malgrado il notevole sforzo a cui è stata costantemente sottoposta.
Siamo agli sgoccioli del materiale di questa giovane band e anche se qualche brano del repertorio è rimasto fuori, quando chiamata per il bis la band lascia a Justin introdurre con le sue veloci dita sul basso e alla chitarra di John la irresistibile “Rolling 7s”, sulla quale è impossibile non battere le mani. Non parlo molto bene italiano ma parliamo Rock and Roll benissimo, dice Marc, ma non è vero, non parli certo bene quanto suoni il Rock and Roll ma è perché suonate da dio, e apprezziamo tantissimo lo sforzo, e poi uno shoutout di ringraziamento ai Wild Things che hanno aperto e che genera un boato di approvazione.
Marc presenta i Dirty Honey lasciando a ognuno uno spazio solista per dimostrare le notevoli abilità tecniche, il bassista conferma di non essere un semplice accompagnatore “da base” ma un fantasioso strumentista, il batterista sceglie stacchi swing quasi Jazz avendo ampiamente dimostrato il drive Rock durante tutto il concerto, John ci propone la classica coreografia della chitarra dietro la schiena, e finalmente Marc toglie gli occhiali, ultimo rimasto.
I love this country, I love this city, should we come back sometime?, la reazione del pubblico dice sì, tornate, Dirty Honey, a tenere in vita lo stream di un genere che ha sempre un pubblico e ha il solo difetto di non essere più eccitante come quando era una novità, anche se è sempre coinvolgente per chi lo ama.
Articolo di Nicola Rovetta, foto di Simona Isonni
Set list Dirty Honey Milano 14 febbraio 2023
- Gypsy
- Break You
- Heartbreaker
- The Wire
- Scars
- Tied Up
- Last Child (Aerosmith cover)
- No Warning
- Down the Road
- Take Me Alive
- Let’s Go Crazy (Prince cover)
- California Dreamin’
- Dirty Mind
- Another Last Time
- When I’m Gone
- Rolling 7s