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Nick Cave & The Bad Seeds live Verona

Artista completo che ha fatto di musica e corpo la cifra del modo di vivere la propria dimensione artistica

Nick Cave

Tutto comincia male. Piove. Non succedeva da oltre 100 giorni nel Nord Italia. Siccità, calura torrida, fiumi in secca e campagne in disgrazia. Non il 4 luglio 2022 però, data del ritorno in Italia di Nick Cave con i suoi Bad Seeds (e tre coristi meravigliosi) dopo che sono stati cancellati i concerti del 2021 a Milano e a Roma. Insomma, c’era molta attesa. Era l’unica data in Italia, quando sono stati messi in vendita i biglietti la prima volta. Poi, come ormai capita spesso, ci si vede aggiungere un altro evento, a Taormina. Poco importa. Nick Cave è merce rara e va preso quando c’è, senza tante remore. La pioggia, torniamoci su perché è determinante, inficia la serata. C’è stato per un momento pure il rischio del tutti a casa, sarà per la prossima volta. Si è rischiato realmente, fuor di metafora, che il concerto saltasse. Nel pomeriggio appena passato l’Arena era stata flagellata e il palco – non si capisce il perché – era scoperto anziché essere il solito palco coperto dell’Arena.

Alle 20 i cancelli sembrano aprirsi mentre tutte le persone sono ammassate all’esterno. Piove ancora; non c’è speranza. È il sentore di tutti e di tutte. Ma la gente entra, lentamente. Salta l’efficienza veneta e la coda è rigorosamente “all’italiana”, con i soliti disguidi. Le voci da dentro – che arrivano in chat – sono che tanto non si farà; la strumentazione è ancora coperta e impacchettata. Nel mentre sono le 21 passate. Nessuno dice nulla, tanto meno sui social media dell’organizzazione.

Poi arriva la prima buona notizia. Piove, non più a dirotto però. Ed ecco una certezza che serpeggia: il concerto si farà anche perché Giove Pluvio ha fatto sapere, sulle app e sui siti del meteo – declinazione moderna di Mercurio – che si ferma alle 22 in punto. Senza dubbio sa bene che, sul palco, arriva un’altra divinità. Non è del suo Olimpo (non inteso come monte questa volta), ma noblesse oblige, perché gli dei parlano francese, sappiatelo, che ci si faccia da partee, per rispetto fra divinità, non ci si faccia altri sgarri e si accetti la sfida fra esseri superiori. Tanto ormai il pubblico – e cioè l’umanità adorante – è già stata punita e messa a dura prova, dalle divinità, fra code, impermeabili di fortuna pagati come capi di Gucci, ombrelli a prezzi d’oro e inevitabili polemiche sui posti all’interno dell’Arena. A questo punto Giove può lasciare il campo a Cave. La pioggia, infatti, cessa, quasi per magia, mentre i lampi all’orizzonte segnalano la partenze dell’antico dio da quel di Verona.

Con rigore e meticolosità, da molti fra il pubblico non capiti, i tecnici preparano il palco. Cave è lì dunque. In Arena. Lo era anche nel pomeriggio, filmato (cercate sui social) mentre in via Porta Leoni beve caffè e parla con i passanti. Magico. Saranno 45, alla fine, i minuti di ritardo. Neppure troppi, se non fossero stati passati sotto la pioggia. È vero, questa regala sempre fascino ai concerti… se poi sei all’Arena, il fascino è doppio. Tuttavia, non rinfresca gli animi di un pubblico che è nervoso, litiga per la “buca” dell’orchestra promessa ai fedelissimi del rito; litiga perché non può stare davanti in piedi; litiga perché non si può fumare. Insomma, litiga per tutto. Solo la musica, a questo puto, può fare la differenza e porre fine a questa situazione. Sarà e non sarà così per il resto della serata.

Nick Cave, contro divo australiano, esce sul palco alle 22.15. Pioggia finita perché scacciata definitivamente dall’urlo del pubblico e, a seguire, dal suo urlo che, con saltino, fa partire, lo dico subito, uno spettacolo che non sarà solo un concerto, ma un vero atto d’amore, un rapporto carnale completo con il pubblico e, allo stesso tempo, una performance di un artista che non fa scene e pose, ma vive quello che propone. Un amico mi dice, con cognizione di causa, questo live è un’unità di misura. Vero, verissimo. Se si pensa, soprattutto, a come si viene acquistati, diceva Carmelo Bene, anche nell’entusiasmo. E così siamo soliti vivere e disquisiredi sfide fra pubblici nell’eterno dualismo del rock nostrano; di falsi miti; di perbenismo interessato e di poca sostanza. Qui all’Arena, questa sera, c’è tutto il contrario di quello di cui, solitamente, si discute ormai quando si parla di musica e di concerti live.

Qui all’Arena c’è sul palco un artista completo e un uomo che ha fatto di musica e corpo la cifra del suo essere in scena e il modo di vivere la propria dimensione artistica: incarnata. Non solo è credibile – il che vorrebbe dire ammettere soltanto che, su quel palco, Cave stia recitando una parte ben rodata nel tempo – perché in realtà lui è quello che canta e che propone, sotto forma di canzoni e di performance, come esperienza emozionale di chi lo ascolta. Non si può separare questa esperienza; neppure frammentare. Si tratta di un tutto che va vissuto nell’interezza, dall’inizio alla fine. La somma delle parti non dà il risultato finale, c’è un di più e un oltre – oltre il palco, oltre la musica, oltre la presenza – che non vivono, però, senza essere somma.

Lo si capisce subito. Cave guarda la “buca” dell’orchestra sconsolato. È vuota. Fa capire che non gradisce, anche se, nel corso della serata, farà il buon padre di famiglia e ricorderà, in sintesi, che la pioggia e le condizioni climatiche avverse non permettevano la sicurezza (non è che ci creda molto mentre lo dice, chiaramente con parole diverse…). Sconsolato non può che far iniziare il tutto in modo secco, duro e rock. Senza scuse e attenuanti. Un semplice buonasera, un salto e via duro e puro con “Get Ready for Love” del 2004, presa da quell’album meraviglioso che è “Abattoit blues/ The Lyre of Orpheus”. Subito si capisce che il dolore per la perdita del secondo figlio non detterà il ritmo di questa serata. Anzi. Tutto – forse – verrà esorcizzato con il suo pubblico e fra il suo pubblico; con le sue canzoni e con tutto quello che verrà. E sarà parecchio. Credetemi.

A seguire, dallo stesso album, “There She Goes, My Beautiful World” e “From Her to Eternity” presa dall’omonimo lavoro del 1984. Trittico d’inizio con il quale Cave ha già in mano tutta l’Arena. Altro che pioggia. Tutti sono già stati catturati. Solo la rabbia accumulata in coda da alcuni, non permetterà di farsi assorbire. Peccato per questa gente. Davvero. Non sanno cosa si sono persi.

Lui, sul palco, salta, lancia il microfono, entra dentro la sua musica, ne diventa corpo e anima, ma soprattutto corpo. E’ un concerto fisico; un’esibizione carnale che tocca e si lascia toccare. Cave si muove senza che ci sia nulla di organizzato e previsto. Spirito libero sul palco. Il ritmo della batteria è da mantra, di quelli veri. Secca e asciutta – lo so, può far sorridere dopo tutta l’acqua presa – la batteria accompagna e scandisce l’entrata in questo antro dal quel usciremo solo alla fine della serata. Cambiati, non più gli stessi.

Cerca il contatto con il pubblico Cave, subito. Non aspetta neppure che passi un pò di tempo. Ci sono gli spiriti qui, è lo spazio dei fantasmi, ed indica ancora una volta la buca dell’orchestra. Questa è una canzone che parla dei bambini. E’ per i bambini. “O Children” ci riporta nel 2004 e sembra spezzare, per un attimo, il ritmo, ma è sola pura illusione. Il pianoforte non lo contiene e presto Cave torna in piedi e cerca la via per scendere in platea. La prima occasione è “Jubilee Street” da “Push the Sky Away”. La discesa era solo stata rimandata da troppo e il contatto con il suo pubblico, cercato e finalmente trovato, cambia le carte in tavola. Da quel momento, fino alla fine, questo concerto diventa una sintesi che vede la musica filtrata e fatta vivere dal corpo di Nick Cave. Lui dirige le danze; alza le mani e fa cantare; chiede e ottiene e il silenzio quando vuole; fa sedere e alzare il pubblico con un solo gesto della mano. Magico, ma l’ho già detto.

Il suo discorso iniziale – situazione avversa questa sera, ma questo sarà un concerto vero – non sarà solo una promessa, ma una condizione necessaria per vivere quello che sta succedendo dentro l’antico anfiteatro costruito nel I secolo D.C.

Riassumo, per comodità, e poi perché, come ebbe a dire il Poeta, Trasumanar significar per verba non si poria. Tradotto: Non è cioè un fatto che si possa spiegare con parole. Certe cose o le si vive in diretta o non c’è nulla da fare, perché neppure la parola può intervenire a spiegare. Tanto meno le dirette Instagram e Facebook che, senza ritegno alcuno, una parte di pubblico continua a realizzare. Partigiani di un modo di vivere i social che, ormai, è patrimonio di giovani compulsivi e figli nativi della Rete. Lì, però, non ce ne sono ed è davvero dura capire come sia possibile sbattere (in senso metaforico) in faccia un cellulare a Cave mentre lo hai davanti ai tuoi occhi. Lui non ci pensa neppure: mette la mano davanti agli obiettivi e guarda diretto negli occhi le persone che, come d’incanto, appaiono dietro a quel dispositivo. Ecco, qui si può scomodare l’immagine del messia e cioè di chi porta una buona novella, quella dell’incontro. Io sono qui, davanti a te, in carne ed ossa. Perché mi guardi in uno schermo? Io sono qui, davvero in mezzo a voi. Non cercatemi negli schermi. Vivetemi, sembra voler dire a chi lo sorregge.

E veniamo così a cercare di descrivere questo atto d’amore. Cave scende in platea. In modo chiaro chiede agli steward zelanti, – fin troppo – di starsene fermi. Il suo pubblico sa come ci si comporta con lui. Escluse le persone di cui sopra, il resto diventa parte viva e inscindibile del suo corpo. Noi siamo la sua estensione; siamo protesi di un corpo d’artista che si mette in mezzo alla sua gente senza nulla da temere. E la cosa meravigliosa non è che le persone si spostano, come accade ai concerti dei giovincelli che, spaventati da una fisicità reale e non mediata da Tick Tock, si fa da parte e lascia cadere il musicista.

Qui tutti corrono verso Cave anche solo per toccare il suo corpo, e cioè quella emozione fatta di carne, occhi, sudore e voce. Il pubblico lo sorregge ed è come se avesse, per alcuni minuti – neppure pochi – cento gambe, cento occhi e cento mani come spie (la citazione è voluta). Lui canta senza inflessioni e senza alcuna paura. Cave è a casa, fra il pubblico. Non lo era sul palco; ma qui ora lo è. C’è chi lo sorregge; c’è chi piange; c’è chi allunga una mano; c’è chi diventa oggetto del suo sguardo e c’è chi, indicato, è ora destinatario diretto di quel verso che sta cantando. Il tutto senza scadere mai nella volgarità. Nessuno lo tocca, lo palpa e cerca di strappargli abiti, anelli e collane. In quel momento è un idolo, vero e nell’etimo, nelle mani della sua gente. Non c’è neppure bisogno, come successe in passato, di distruggere quell’idolo con la parola scritta.

Qui, questa sera, basta vivere tutti insieme la parola cantata da Cave. E lui non si risparmia. Per niente e per nulla. Non è un messia, sia chiaro. Si certo, è un modo interessante di descrivere questa esperienza. Lo abbiamo fatto anche qui sopra. Ma il Messia, lo sappiamo, viene poi barattato con Barabba e, alla fine, ripudiato e rinnegato. Cave è semplicemente se stesso, anima e corpo, in mezzo alla sua gente. Nessuno lo rinnega. Nessuno lo fugge. Non serve altro che la sua presenza. Se sai essere così, con questa serenità, sei estasi, non lo diventi; non la cerchi con altro. Sei una statua del Bernini che va oltre forma, immagine e somiglianza.

E se pensate che la band sia persa senza il leader sul palco, vi sbagliate. Il rito è davvero collettivo, non è solitario. E non solo per lui e per noi, ma anche per chi suona con lui sul palco. L’energia, diciamola così, si distribuisce equamente in tutta l’Arena e dà quel valore aggiunto a tutta la performance. Certo, pensare alla pulizia formale e alla freddezza dei Placebo a Mantova, per dare un termine di paragone, ha dell’incredibile. Qui c’è uno spettacolo totale: musica che non ha bisogno solo della pulizia formale – che non manca affatto – ma che si genera e produce da questo scambio reciproco di forze che, si capisce, è necessario a tutti. Un circolo che genera energia centripeta e centrifuga. I musicisti, nove in tutto, comprese le tre coriste, non scendono dal palco ma, di fatto, è come se lo avessero fatto perché il loro coinvolgimento è totale e ne guadagna il suono, la performance e l’alchimia musica – parola. C’è spazio anche per l’ultimo lavoro con “Carnage”, brano che dà il titolo all’album scritto con Warren Ellis. La complicità fra i due – e non solo su questo pezzo – è sottile e non messa in evidenza da continui baci e abbracci, tipici della stessa situazione nei gruppi italiani. Qui ci sono sguardi, leggeri colpi d’occhio e gesti, minimali, che fanno capire come i due lavorino insieme e siano l’asse portante, con la batteria, di questa serata.

Un concerto totale se la cosa viene intesa come un’esperienza di anima e corpo. Sintesi e sinergia dunque. Nulla da togliere a chi, in modo nostrano, ci prova. Non è però ballando in spiaggia per ore che si conquista l’estasi. Quando la musica ti porta via e non sei più, con anima e corpo, nello spazio – tempo, ecco quella è la vera esperienza. E il tutto è dettato da una sola persona che sa catturare con la ‘semplice’ presenza sul palco. Carisma, ma anche di più. Essere umano unico e irripetibile. Artista, dunque. Tanto basta. Merce rara, già detto.

Un artista capace di far vivere l’esperienza di un oltre, dunque, che arriva ad ogni canzone. Un essere oltre che tocca – come chiede lo stesso Cave che venga fatto su di se durante brani come “The Mercy Seat” e “The Ship Song” – direttamente il cuore. Nulla di melenso. Il miele non c’è, e neppure occorrono rime baciate. Serve solo – ma è necessario averne capacità – essere rock, nella sua ennesima potenza: unione e simbiosi inscindibile di emozioni che passano dall’anima al corpo, e viceversa. Musica del demonio. Grazie a dio e per grazia ricevuta. Un passaggio di potenza dal proprio corpo – quello di Cave – a quello di chi ascolta, andata e ritorno. Magico, non c’è altro ancora una volta da aggiungere.

Il concerto, come promesso, è vero. Durerà 2 ore e dieci minuti. Dobbiamo chiudere solo per problemi di orario. Ok, non lo dice con questa gentilezza e neppure con questo tono da speaker, ma il senso, purtroppo, è quello. L’armonica su “City of Refuge” è quel suono che mancava in un concerto dove le percussioni, di ogni tipo, si sentivano anche nel più piccolo dettaglio e, ora, conquistata l’ultima vetta, davvero la musica è estensione e protesi della voce di Cave che, per tutta la serata, non ha mai un momento di calo. Pure questo è frutto di concentrazione e risultato di quell’abbandono e di quell’oltre che (quasi) tutti, ormai, abbiamo visto e vissuto, e nel quale siamo inseriti.

Il risveglio è duro. “Into my Arms” deve essere tagliata, di più non si poteva fare, ma piano – voce e coristi black portano, lentamente, al risveglio e a quell’arrivederci finale che, detto con estrema gioia, non si vorrebbe mai arrivasse. L’esperienza, dunque, si chiude definitivamente con “Vortex”, finale perfetto e risveglio collettivo che ci riporta in una realtà, la nostra, dove ci si rende conto che spettacoli di questo genere sono, ormai, rare eccezioni perché rare eccezioni sono gli artisti capaci di far vivere tutto questo. In una sola serata, in poco più di due ore.

Unica nota dolente. Il pubblico. Molta maleducazione. Troppa. Nervosismo alle stelle. Certo, capisco. La pioggia e le code. L’efficienza veneta che salta. Ma tutto sommato, senza mancare di rispetto a nessuno, ci si aspetta che questo pubblico sia consapevole di che esperienza stia per andare a vivere. E invece no. Stessa situazione all’interno. C’è chi balla, e viene redarguito. C’è chi filma, senza ritegno, e non viene ripreso se non da insulti di chi è dietro (anche i modi fanno la differenza, sempre…). E poi, più in generale, tutto è pretesto per litigare e dettare legge con il solito “io ho pagato…”. Si, tutti hanno pagato, ovvio. Ma questo non autorizza a dimenticarsi che siamo esseri sociali. Allo stesso tempo, a difesa di non so bene chi, ma pur sempre a difesa di qualcuno, c’è da dire che si passa dalla legge selvaggia dei grandi eventi all’aperto (prezzi alle stelle, token, ogni sorta di bagarinaggio possibile e incivile) alla severità dello spettacolo all’aperto, ma in luogo circoscritto. Non si fuma (può essere tollerato, per carità), non si può ballare, non ci si può muovere. Insomma, è pur sempre un concerto e non una “prima” dell’opera. Ciò non toglie che la maleducazione, invece, stia dilagando. Questo è un serio problema, ma non solo dei concerti.

Articolo di Luca Cremonesi

Set list Nick Cave Verona 4 luglio 2022

  1. Get Ready for Love
  2. There She Goes, My Beautiful World
  3. From Her to Eternity
  4. O Children
  5. Jubilee Street
  6. Bright Horses
  7. I Need You
  8. Waiting for You
  9. Carnage
  10. Tupelo
  11. Red Right Hand
  12. The Mercy Seat
  13. The Ship Song
  14. Higgs Boson Blues
  15. City of Refuge
  16. White Elephant
  17. Into My Arms
  18. Vortex
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