Rotterdam, 15 giugno. Quando si abbassano le luci ed entrano in scena Linford Detweiler e Karin Bergquist uno che sta in platea non sa esattamente cosa aspettarsi. Un po’ perché gli Over the Rhine sono una preziosità piuttosto rara sui palchi europei, un po’ perché dopo quindici dischi e con un nuovo album in arrivo (tra un paio di settimane) il corpus musicale di riferimento del duo di Cincinnati è davvero ampio e poderoso. A questo si aggiunge una considerazione: negli anni (e nei dischi live) la band si concede spesso operazioni di re-interpretazione che vanno da Cohen alla Band, da Dylan ai Cowboy Junkies, da Neil Young a “Baby It’s Cold Outside”, tanto per dichiarare la propria appartenenza a una galassia musicale in cui il testo, lo spirito, l’intensità e la magia acustica sono divinità protettrici e taumaturgiche.
Così lo spettacolo a cui abbiamo assistito (o – a scelta – partecipato) nello scenario minimale del Lantaren Vestern di Rotterdam (zona del vecchio porto della città) si è sviluppato in un alternarsi continuo di vecchi e nuovi brani, di cover e titoli inediti assumendo minuto dopo minuto le vesti di un momento sacrale e sussurrato, fisico e intensissimo come un’eucarestia, adatto per una cattedrale o per un luogo di guarigione.
Da quando Karin e Linford hanno iniziato a mettere a fuoco la loro traiettoria musicale alla fine degli anni ‘80, mettendo insieme i pezzi di un mosaico a cui non era estranea né la Christian Music né il Pop, gli Over The Rhine – il nome della band e le ascendenze tedesche dei due, che sono marito e moglie, vengono proprio dal quartiere germanico di Cincinnati fondato a metà ‘800 – hanno creato uno dei più emozionanti sodalizi del Folk nord-americano. E il concerto ne conferma l’impatto emozionale e la non comune forza comunicativa.
Appena entrati i scena sotto un cono di luce blu, i due cominciano con “The World Can Wait”e proseguono con “Cast me Away”,direttamente dal disco d’esordio, “Bothered” e “Given Road”, pezzi d‘apertura che coprono oltre 30 anni di attività, dagli esordi a “Love and Revelation”, l’ultimo disco a oggi pubblicato, affascinante conferma di una maturità invidiabile. Il tutto suona un po’ come un veloce sguardo sull’insieme della produzione di questa formazione che negli anni ha girato il mondo lasciando ovunque semi di quella bellezza che nasce nella campagna dell’Ohio, in una casa con fienile dove annualmente si tiene una settimana di incontro tra poeti, artisti, musicisti folk e cercatori di infinito.
È chiaro da subito che ci troviamo in una galassia poetica ipnotizzante, ricca di Folk Music che si ibrida con ritmi vicini al Rock’n’Roll, e che viene sostenuta da una ricerca non comune del senso del vivere e dell’amare e del soffrire, che accomuna il duo di Cincinnati a Dylan, a Cohen, a Van Morrison, sia nella ricerca del senso che nello sviluppo delle melodie che incidono nel profondo, laddove batte il cuore ferito.
La serata passa da sfondi blu ad ambientazioni rosso sangue, Linford chiacchera da songwriter, tra ricordi e spiegazioni, mentre Karin è molto più taciturna e astratta, splendida e sognante come un personaggio biblico posizionato tra Joni Mitchell e Grace Slick. Lui suona il pianoforte – rigorosamente Steinway – un po’ come lo sa fare Randy Newman, toccando tutti i registri del “Great American Songbook”, passando da Gershwin al Blues, dal Gospel all’Honky Tonk. Lei, bionda e irraggiungibile, sfodera una voce che sa essere purissima, quanto viscerale, mentre mette le lunghe dita sulla chitarra o sta immobile davanti al microfono. “Abbiamo sempre il piacere di vedere cosa ne pensate delle nostre nuove canzoni”, dice Linford. E attaccano due brani inediti introspettivi, “Bella Luna” e “Over You”, suggestioni che ci avvicinano al Van Morrison del periodo “No guru”, strettamente connessi con quel mondo della canzone che si immerge testa e cuore nell’eterna ricerca di umanità. Ed ecco poi l’atterraggio nel mondo dei Gospel, raccontato così da Linford: Quando ero ragazzo e stavo imparando a suonare il pianoforte, avevo davanti a me il libro degli spartiti degli inni sacri di famiglia. E facevo un gioco: li provavo tutti per sfidare e cercare di capire quale inno mia madre non conoscesse. Ecco invece: li cantava tutti, non ne ignorava nessuno. Quelle sono le mie radici.
Così i due di Cincinnati anticipano l’uscita del nuovo disco della band, “Hymn Time In The Land Of Abandon” (nei negozi e online a metà luglio) che è proprio una raccolta di canzoni sacre dall’archivio della cultura spirituale nordamericana, da “Amazing Grace” a “Leaning On The Everlasting Arms”. Da questo nuovo album viene interpretata nella serata di Rotterdam “The Love of God”, per chitarra e due voci, con Karin che sembra la Joan Baez dei migliori anni Sessanta. E poi è la volta di Karin a raccontare sottovoce di quando ascoltava le grandi canzoni americane in compagnia di nonna e mamma, e di come una di quelle che ci affascinava di più fosse “Nature Boy”, di Nat King Cole… E su un tappeto di pianoforte eccola inerpicarsi sul racconto di questo ragazzo incantato che diceva che La cosa più grande che imparerai mai È solo amare ed essere amato in cambio, e il tutto ci porta altrove, negli anni ‘50, nel tempo dell’amore anelato, inseguito, adorato.
Ogni tanto ci sono pause, silenzi, qualche parola e qualche sorriso. E poi, dopo le cover – che proseguono con “Lilac Wine”, capolavoro di James Shelton, proposto in una versione delicatissima e affine a quella di Jeff Buckley – ecco ancora l’inseguirsi di Blues, Folk e Spiritual che riprende. Prima con il pianoforte di “I don’t Wanna Wast Your Time” poi con l’ambientazione gotica di “Sacred Ground”, tutta giocata sul ritmo cadenzato di chitarre e di voci che si inseguono come in un gioco sui prati. E poi ancora la dolcissima “Born”, la caustica “Nothing”, il Folk-Rock di “Entertaining Thoughts”, tanto per ricordare che il Tennessee non è poi così lontano dall’Ohio. La conclusione è affidata ad un altro inno, “How Can I Keep from Singing”, celebre standard religioso composto da Robert Lowry, uno dei più noti autori di Gospel del secondo ‘800, anche questa proveniente dal nuovo disco del duo, accolta dal pubblico con devozione e calore.
Breve sosta, un paio di bis e si finisce dopo circa 110 minuti di puro incanto, con il brano che chiudeva “The Long Surrender”, forse il loro disco più completo: “All my favourite people”. Un pianoforte solare, una serie di note bluesy, una voce calda e perfetta per una canzone che sembra la fotografia inequivocabile di un’umanità affaticata ma invitata a non mollare, realistica nei suoi limiti, e coraggiosa nella citazione di Rainer Maria Rilke: Tutti i miei amici sono in parte santi e in parte peccatori, Ci appoggiamo l’uno all’altro, cerchiamo di elevarci al di sopra, Non abbiamo paura di ammettere che siamo tutti ancora principianti, Siamo tutti sbocciati tardi quando si tratta di amore.
Si riaccendono le luci in sala. Sono loro lo spettacolo o siamo tutti insieme ad averlo creato? Siamo tutti distrutti, siamo tutti feriti, siamo tutti bisognosi di salvezza e felicità, sembrano dire in tutto il loro girovagare acustico e letterario gli Over the Rhine. Ma siamo tutti anche curati e forse anche guariti, grazie al misterioso dono che ci arriva in un qualche modo, in un qualche tempo, grazie alla musica. Quella che con Kristin e Linford tocca il fondo del cuore e lo riaccende.
Articolo di Walter Gatti